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IL DENARO.
I.
Veronetta Longhena aveva dodici anni quando disse, un giorno, a sua madre:
— Tu hai le mani d’una signora. Perchè dunque vai alla fabbrica?...
— Per guadagnar denaro, figlia mia. Senza soldi non si fa nulla. Lo vedi bene che siamo sole, senza l’appoggio di nessuno — aveva risposto la madre, Anna Longhena, una donna magra e vivacissima, con occhi neri largamente aperti sotto una fronte tenace, e due manine che parevan balocchi, d’una delicatezza sorprendente in mani di tessitrice.
— C’è però chi non ha bisogno di lavorare, per aver denaro — ribattè la fanciulla, cocciuta.
— Figlia mia cara, quelli sono i ricchi.
E una mal frenata tristezza oscurò il viso della donna, che non era sempre stata povera, aveva veduto tempi migliori, amava i libri e la campagna, e solo doveva al suo amor della vita e alla sua inesauribile energia nervosa la possibilità di resistere a dieci ore di giornaliera fatica al telaio, in piedi da mattina a sera.
— Già — fece la piccola — già: i ricchi. — Ma parve più vecchia della madre, nella ruga verticale che le tagliava la fronte.
Anna si mise a cantare. Nessuna preoccupazione, nessun rimpianto potevano a lungo durare nella sua forte e mutevole natura. Ella aveva, come gli uccelli, l’istinto del canto e dell’oblio: le bastava la vista d’una striscia di sole sul muro di fronte, perchè la canzone le uscisse di bocca da sè; e la sua voce era poco intonata ma agile, una vocetta asprigna, di vent’anni.
Veronetta era diversa. Musiche gravi e soavi nascevano, si svolgevano in onde sommesse dentro di lei; ma, se schiudeva la bocca per esprimerle, la voce suonava rauca, si rompeva, si rifiutava. Allora ella se ne stava lunghe ore raccolta, nel silenzio delle due stanzette imbiancale a calce e quasi nude di mobili, dove, tolte le ore di scuola, viveva attendendo il ritorno della madre dall’opificio.
La solitudine si animava per lei d’immagini, di figurazioni vivissime: era più vibrante, più parlante d’una folla. Due vecchie incisioni ingiallite pendevan da una parete, con la loro brava scritta in caratteri gotici: “Condanna e Fuga di Felice Orsini„. Nella vagabonda fantasia della fanciulla la storia del carbonaro s’arricchiva di cento particolari, camminava parallela ad altre bizzarre storie di congiure, di condanne, di fughe, di patiboli.
Ed ella sarebbe rimasta a sognare fino al crepuscolo, se due fresche voci non l’avessero chiamata dal giardino:
— Veronetta!... Vieni dunque a giocare!...
Eran le due figliuole del padron di casa, Nanna e Ninna.
Il grembialone bianco, a foggia di tunica sciolta, che esse portavano in casa, non differiva molto, nella forma, da quello grigio, a quadratini, di Veronetta. Tutt’e tre avevan liberi i capelli sulle spalle: magnifiche chiome odorose ancor d’infanzia, formanti un accordo di tinte e di morbidezze diverse: nere e lisce in Nanna, castane e piene d’aria in Ninna, rossicce, aspre, di odor selvatico, a ondulazioni più fosche, in Veronetta.
Le due sorelle, ricchissime, non sapevano ancora d’esserlo: avevan l’aria franca e spensierata di chi trova tutto facile nell’esistenza. Con la figlia della tessitrice giocavano al teatro, lasciando a lei l’incarico di crear personaggi e scene. Ed era una finzione che non aveva termine mai, che ogni giorno s’arricchiva d’un nuovo episodio, inebriandole come dei sorsi d’un liquore prezioso.
Ognuna s’investiva della propria figura drammatica. Nanna aveva scelta la bionda bellezza d’una “principessa Maria„: Veronetta la maestà bruna e misteriosa d’una “principessa Olivia„; e Ninna, la più alta, la più atta alle rapide trasformazioni, rappresentava il principe Azzurro, il duca, il capitano, e tutti gli altri personaggi maschi.
E banchetti e balli e intrighi e amori e vendette: scenario di favola, atmosfera di sogno.
La principessa Olivia lasciava alteramente serpeggiar pei viali lo strascico d’una veste color di luna, mentre la principessa Maria splendeva in un manto trapunto di stelle: il duca giungeva a galoppo sul cavallo bianco di schiuma, portando in fronte la gioia e l’orgoglio d’una battaglia vinta.
La divina puerilità delle fiabe con le loro avventure di paggi, di nani, di reginotte, s’intrecciava a singolari spunti di vita vissuta, nel gioco ricco di maraviglie. La fantasia di Veronetta, in ispecie, vi trovava un pascolo aromatico come il fieno d’agosto al sole. Il portico a colonne di granito, lastricato di losanghe in cemento grigie e nere, formava il palcoscenico; ma quando il fondo di scena doveva animarsi di molte comparse, oh!... allora gli alberi ed i cespugli del vasto giardino si trasfiguravano in creature umane.
Il bel pino d’un verde turchiniccio, presso il cancello, diveniva il conte Sergio. Il rosaio fiorito da maggio a settembre di pallide thee, irto di spine ignude gli altri mesi dell’anno, la baronessa Giuliana. Le siepi di mortella, gli intricati tentacoli delle edere, le macchie delle ortensie, lussureggianti, decorative, fiere dei loro mazzi a pallottola incerti fra il verdino-lilla, l’azzurrognolo e il roseo, fingevan damigelle e cavalieri perfetti, cicaleggianti fra loro in vuote conversazioni mondane.
E le due file centrali di gladioli e d’ireos furono, un giorno di giugno, il corteo della sposa, che i felici occhi delle fanciulle videro — realmente videro — candida come fiocco di neve nell’abito nuziale e nel velo sparso di fiori d’arancio....
La campanella del pranzo richiamava Nanna e Ninna alle volgari cure di quaggiù; e la figlia della tessitrice, risalita nelle sue stanzette per preparare alla meglio un po’ di minestra alla madre che doveva tornar dalla fabbrica, continuava, in virtù d’uno strano processo di polarizzazione delle idee, a vivere il fantastico sogno. Non potevano, quelle quattro pareti così spoglie, esser per lei tappezzate d’arazzi, sfolgoranti di candelabri d’argento e d’oro?...
Sol che lo volesse, sol che lo pensasse: ed ecco: le vedeva così.
Nella dolcezza del crepuscolo, appoggiata al balconcino di ferro che dava sul giardino, Veronetta inseguiva con occhi allucinati le figurazioni create dal suo cervello: alberi e cespugli, fiori e colonne, pietre e finestre, tutto la fissava con intenti occhi umani, le parlava con sommesse voci umane. Trasognata, indifferente al resto, ella sentiva gonfiarsi l’anima in pienezza di vita.
★
Un pomeriggio di carnevale (pioggia e sole alternati in scrosci e sprazzi) la madre di Nanna e Ninna, — una giunonica signora che tutti chiamavano rispettosamente donna Carla, e se ne stava sempre in veste da camera, e parlava sempre con reciso accento di dominio, — incontrò Veronetta sotto il portico, e le disse:
— Ti piacciono i tortelli?... Ne mangerai stasera in casa nostra fin che vorrai, se ti contenti di aiutar la cameriera a servirli in tavola.
La fanciulla avvampò; ma non ebbe il coraggio di rifiutarsi; nè l’avrebbe potuto.
La sera andò, tutta ben ravviata dalla mamma, che le susurrava dietro per le scale:
— Portane qualcuno anche a me!...
La si fece subito entrare in cucina, dove la cuoca, proprio in quel momento, stava sfornando i fumanti tortelli dal color biondo, dal succoso profumo, e li incipriava di zucchero alla vaniglia. La cameriera, una sfrontatella tutta bocca, bazza e maldicenza, mise nelle mani di Veronetta un vassoio carico dei leggeri dolci dorati, e le comandò:
— Da brava, piccoletta!... Ferme le mani!... e vienmi dietro.
E, sorreggendo un altro vassoio uguale, entrò con lei nella sala da pranzo.
Un fulgore di molte fiamme colpì Veronetta negli occhi, quasi accecandola. Nanna e Ninna eran là, vestite di rosa, con larghi nastri rosei nei capelli sciolti. Ma non la guardarono nemmeno. Cinguettavano fra liete amiche — ed ella rivide, in quello spietato lampeggiar di luci, i ciuffi d’ortensie, i gladioli e gli ireos formanti il corteo della principessa Olivia.
Uno spasmodico senso di vergogna la inchiodava a tre passi dall’uscio vetrato, col vassoio dei tortelli che le tremava fra le mani. Chi erano quelle persone in abiti di seta e in marsina nera?... Perchè proprio lei doveva servirle?... Non potevan dunque servirsi da sè?...
— A sinistra, a sinistra, — badava a susurrarle, negli orecchi, la cameriera. — A sinistra, stupida!...
Ma ormai non capiva più nulla. Quei cristalli, quei fiori, quella gente ingioiellata, i sorrisi distratti di Nanna e Ninna la schiaffeggiavano in pieno viso. Lasciò il vassoio su un angolo della tavola, volse le spalle e, con occhi feroci, fuggì, selvaggiamente.
— Mamma!... mamma!... Non voglio esser povera!... Non voglio servire!...
— Taci, cuore mio, taci.
E la povera mamma, che l’aveva messa a letto smaniosa, scottante di febbre, scossa da singulti nervosi, l’accarezzava pian piano, magnetizzandola con quel dolce ed uguale strisciar della mano sulla fronte, col quale tutte le madri sanno blandire i loro figli malati. E non aveva altro mezzo per calmare il terribile dolore, per rispondere alle terribili parole.
— Taci, cuore mio, taci.
Tacque infatti, si chetò; ma a notte alta. Gli occhi più larghi del viso cercavano, cercavano, ansiosi, nell’ombra, il motto dell’enigma. Finalmente la voce, raddolcita e quasi umile, pregò:
— Mamma, raccontami ancora la storia del fiume. Sai, quando da sola sono passata fra sbarra e sbarra, sul ponte....
— Benedetta!... Te l’ho raccontata mille volte!... Fu molto tempo fa: tu avevi tre anni e mezzo, ed eri un diavoletto con una zazzera di riccioli rossi. Sul ponte, una domenica, io ti tenevo per mano e parlavo con Disolina, sai, quella palliduccia di Borgo Pietra, che poi morì tisica. Erano entrate in crocchio anche le due sorelle Velluti. Ad un tratto non sentii più la tua mano nella mia; e vidi Disolina e le Velluti, bianche, immobili, tre fantasmi, cogli occhi fissi sulla balaustra. Tu eri sgusciata fra le spranghe, capisci, figlia mia, figlia mia!... e te ne stavi diritta sulla breve sporgenza di marmo — una spanna — fissando il fiume. Sotto c’era il gorgo, e chi vi cade non ne risale più.... Ebbi la forza di non urlare, di non parlare, di non chiamarti. Avresti potuto volgerti indietro, e nel volgerti cadere a capofitto.... Non so che santi mi tenessero. Allungai il braccio fra le sbarre, ti presi per la vesticciuola e ti trassi dentro pian piano.... Ah, Vera, Veretta, Veronetta!...
— E io, io, che cosa dicevo, mamma?... — chiese la fanciulla, con sguardo avido.
— Tu dicevi: Mi piace l’acqua.
Veronetta rimase un poco in silenzio. Aveva l’illusione che il fiume fosse lì, a due passi, azzurro, fresco, rapido. Quale relazione corresse fra la scena del ponte e la scena di quella sera, non capiva bene. Ma vi doveva essere. Di là dall’acqua erano rive, paesi, campi, città: l’ignoto. Bisognava varcare il fiume, raggiungere le magiche sponde, affermarsi, liberarsi.
— Mamma, ascoltami. Io non voglio esser povera. Io non voglio diventare operaia, o serva. Voglio studiare....
— Sì, figlia mia, studierai.
★
E Veronetta studiò.
A quindici anni entrava nel primo corso normale. Non che la spronasse vocazione alcuna all’insegnamento; ma questa era per lei l’unica via per imparare, per dare sbocco ed espressione alle oscure forze che le palpitavan dentro.
Non riusciva in tutto: le matematiche le davan la nausea. Adorava la storia e si sarebbe nutrita di poesia, giorno e notte; ma era una ribelle alle regole, e nei compiti d’italiano s’allontanava dalla traccia, moveva il periodo secondo novità di armonie che lei sola sentiva, si perdeva troppo nel sogno, oppure copiava la vita con una brutalità che scandalizzava la professoressa: una pedante risecchita, polverosa come un libraccio vecchio. — E non l’amavano i maestri, credendola ribelle mentre non era che originale; e non l’amavano le compagne, credendola superba mentre non era che timida, e diversa da loro.
Per comperare i libri, per pagar le tasse, per mandar la figlia in ordine alla scuola, Anna Longhena aveva già venduto gli orecchini d’oro, la veste di seta nera, l’unico anello.
Così, semplicemente, allegramente: con la serenità che le faceva fiorir sulla bocca il canto: “Croce e delizia — delizia al cuor....„, mentre inzuppava un poco di pane nel latte, dopo dieci ore di fornace.
La giovinetta pareva non accorgersi del sacrificio: pareva trovar naturale che la madre si spogliasse per lei.
Ma una sera — (era tornata dalla fabbrica febbricitante, con una mano fasciata per un chiodo rugginoso che le aveva quasi squarciato il palmo) — la donna disse a Veronetta:
— Figlia santa, bisognerebbe che a guadagnar qualche lira ci pensassi ormai anche tu. Perchè non cerchi qualche lezione?... Siamo in tempo di vacanze. Vi sarà pure qualche ragazza che dovrà ridar gli esami, e vorrà esser preparata, sai, spendendo poco.
— Cercherò, mamma.
Cercò, trovò. Trovò la figlia d’una fruttivendola di via Roma, piccola, paffuta, congestionata, stupida: resa ancor più stupida dall’incaponimento di sua madre a volerne fare una maestra, una maestra, nient’altro che una maestra; e che da due anni s’affannava inutilmente per farsi ammettere al terzo corso complementare.
Combinarono per trenta lezioni, a mezzo franco l’una. Ma Veronetta, che nella fantasia sapeva trasmutar per incanto roseti o rovi in creature da dramma, non era che un povero essere spaurito davanti alle frazioni, navigava male fra gli scogli della geometria, e, pronunciando: sud-sud-est, o nord-nord-ovest, pensava involontariamente a grandi uccelli rosei, sperduti fra immensità di cieli e di mari.
Lavoravano insieme, le due fanciulle, con ardore; e talvolta, di fronte ad un problema di soluzione ignota, il viso sciocco della scolara e il viso intenso dell’adolescente maestra esprimevano la stessa ansia accorata di chi si sforza di comprendere, e non può.
L’ultimo giorno d’esame, verso le sedici e mezzo, Veronetta udì battere all’uscio. Dal mattino aveva il tremito: tremava anche nell’aprire. Le comparve davanti la fruttivendola, grossa, tozza, bitorzoluta, con un viso acido e dispettoso.
— Gianna s’è chiusa in camera: piange. L’hanno bocciata in matematica....
Fu indescrivibile l’accento col quale la frase venne proferita. Rabbia, disprezzo, avarizia vi cozzavan dentro, vespe furiose in una boccia vuota. Gettò tre biglietti da cinque lire sul cassettone, e se ne andò senza salutare, con l’aria di chi s’è spremuto in bocca un limone acerbo.
La fanciulla era rimasta immobile. Il capo le girava un poco. S’udiva nella stanza il ronzio d’una mosca che batteva le elitre contro i mobili, alla cieca. Con quel ronzio negli orecchi, ella prese i biglietti, li esaminò. Erano tre carte logore, bisunte, con l’impronta d’innumerevoli mani sulla superficie gommosa: una di esse, rotta in due punti, portava due mezzi francobolli sui margini degli strappi. Esalavano odor di sudicio, di retrobottega, di tasche tabaccose, di dita avide e unghiute. Era il denaro, quello. Senza denaro nulla si poteva compiere. Sua madre si esauriva fra le macchine, si era squarciata il palmo d’una mano ad un roggio rampone di fabbrica, con pericolo d’ascesso o di cancrena, per il denaro. Ella, Veronetta, s’era esposta al volgarissimo disprezzo d’una fruttivendola analfabeta, per il denaro.
E chi ne possedeva molte, di quelle carte lercie e possenti, chi, come i genitori di Nanna e Ninna, ne possedeva tante da non contarle nemmeno, poteva farsi servire da coloro che ne eran privi; e chi gliele avesse prese, andava in galera.
Fissò i tre biglietti con odio. Erano i primi che guadagnava, a prezzo d’un’umiliazione scottante e meritata. Ne avrebbe dovuti guadagnare ancora, tanti, a stento, vincendo la nausea, per vivere, per conquistarsi il diritto di stare al mondo, insegnando cose sciocche alle quali lei non credeva. (Chi le poteva assicurare — provare — che due e due fanno proprio quattro?...).
Gli studi così faticosamente condotti a scopo di libertà, non sarebbero riusciti che a farne un’operaia, una serva di diverso genere: della scuola, del metodo, della memoria; ma nient’altro che un’operaia: nient’altro che una serva.
L’altro volto, dallo specchio posto sul cassettone, le chiedeva: Chi vorresti diventare tu, dunque?....
Pallido, con larghe mascelle, con larghe narici, con larga e tumida bocca, con archi cigliari di superba nettezza su occhi fosforici d’una intensità quasi folle, l’altro volto, col quale ella teneva ogni tanto strani colloqui, le apparve in quel momento come di persona conosciuta in un’altra vita. Ma di tal vita non le rimanevano nei centri nervosi che fuggevoli baleni, ombre improvvise, frammenti di sensazioni.
— Complimenti, signorina — sogghignò. — Avete incominciato molto bene.
Oh, avrebbe esposta la pelle a ben altre lividure!... A quanto pareva, era necessario avvezzarvisi. E rise forte, rise per non piangere, protendendosi con l’agile torso di gatta magra fuor del balcone. Il sole, così limpido in quella prima decade d’ottobre, accendeva di riflessi la densità scarmigliata de’ suoi capelli. Nell’aria scintillavano tante gemme, tante gemme!... E il giardino era lì, suo, quantunque ella fosse così povera: suo perchè lo potesse trasfigurare a capriccio, secondo le visioni della fantasia.
Possedeva ella dunque un mondo ove il denaro non entrava?...
Ridivenne la principessa Olivia, bellissima, incoronata di tutte le gemme sparse nell’aria, reginetta della fiaba seguita da un corteo di cavalieri dal viso floreale. Ma, travolti dallo strascico trapunto di stelle, comparenti or sì or no, le ammiccavano pure i tre biglietti da cinque lire, ignobili e schifosi come carte da giuoco.
II.
Aprile. Cielo di bambagia, soffice, d’un grigio dolcissimo. Pulviscolo verde-dorato di prime foglie nel giardino. Calici rosei di magnolie giapponesi precoci, senza fronde. Fragranza di violette invisibili, sparsa nell’aria. Giovinezza....
Veronetta, al suo balcone, con un libro in mano, mormorava versi. A dir vero avrebbe dovuto studiare le radici cubiche, ella che ripeteva il secondo corso magistrale (ahimè, che dolore, povera mamma!...) per quella maledetta scienza dei numeri. Ma un sonetto del Petrarca le entrava lentamente nel sangue, più inebriante dei succhi della primavera:
Sento l’aura mia antica, e i dolci colli |
Quand’ecco, scorse una massa nera di gente affollarsi al cancello, dal lato della via. E il cancello schiudersi, e la massa nera irrompere, come un’onda.
Portavano a lei, dall’opificio, sua madre, morta.
Era caduta di schianto, fra due telai, battendo il capo contro una cassa piena di spole. Nè una parola, nè un sospiro, nè un gemito: nulla. Un po’ di bava alla bocca, un invetrarsi subitaneo delle pupille, un irrigidirsi di tutte le membra — e il silenzio.
Prima d’aver finito il suo lavoro, prima d’aver raggiunto lo scopo pel quale viveva, era crollata, così, al suo posto di fatica.
L’orfana la ricevette fra le braccia, aiutò a posarla sul letto, muta, con faccia terrea, con occhi sbarrati, insensibile in apparenza. Stupore, pareva, più che dolore.
Il padre, non lo aveva conosciuto. Alla morte non aveva mai pensato. Per la prima volta, la morte la colpiva in pieno, nella persona della sua mamma, nell’unica che la toccasse da vicino, che le fosse necessaria, e nota come il proprio corpo. Mai la madre le era apparsa creatura a sè, dalla quale potesse un giorno venir separata, e che fosse soggetta a leggi individuali di vita, di malattia, di morte. Era sua madre: cioè gli occhi pei quali vedeva, le membra con le quali si moveva, il cuore pel quale si sentiva esistere, le mani che lavoravano perchè ella potesse studiare.
Ritta a fianco del letto, cieca e sorda all’andirivieni della gente che ingombrava la camera, accarezzava con gesto monotono, quasi ritmico, la fronte della morta: vincendo il ribrezzo di sentirla così fredda, d’un altro freddo, diverso e lontanissimo da quello del marmo, della neve, del ghiaccio. E tendeva e moltiplicava le forze dell’attenzione, per penetrare il mistero.
Le ore passarono. La sera calò. Due mani pietose (Veronetta non sapeva quali) avevan posato sull’umile coperta bianca alcuni rametti d’aspirèe còlti in giardino, a pena fioriti, e posta una candela accesa a sinistra del capezzale. Una voce dolce e persuasiva (Veronetta non la riconobbe) tentò di convincere la fanciulla a distaccarsi di là; ma ella non rispose che con un cenno negativo del capo, tenendo gli occhi sempre fissi sulla fronte della madre.
Fu lasciata, finalmente, sola. E quando al terribile silenzio del cadavere più non si sovrapposero passi e bisbigli, si sentì più calma.
E mentre il tempo scorreva, i lineamenti dell’estinta si riscolpivano, fissandosi in una bellezza senza nome.
Quando mai, durante la faticosa vita, ella aveva avuto quella bocca di maraviglia e d’estasi, quell’armonia di contorni, quella pace nel volto?... Che vedeva, con occhi chiusi?... Che udiva, con orecchie pietrificate?... Vedeva, sentiva Iddio?... Dov’era, com’era, Iddio?...
In Veronetta respiravan due creature ben distinte: quella che soffriva e quella che scrutava entro la sofferenza, dilatando le pupille per meglio indagarla.
La morte era dunque così?... Sua madre sarebbe sempre rimasta così?... E la voce gorgheggiante e le braccia infaticabili e il cuore senza paura, tutto un germoglio di speranza anche nei giorni più torbidi, ove stavano ora?... Quale era la vera Anna Longhena?... La presente o la scomparsa?...
— Mamma!... — chiamò, sottovoce.
Silenzio. Immobilità. Bellezza suprema.
E riposo: riposo perfetto.
Nessuno spettacolo Veronetta aveva veduto mai sino allora, che le sembrasse così grandioso. Un orgoglio l’investi, di saper comprendere tale grandezza, in luogo di abbandonarsi in terra a piangere lagrime vane: d’esser rimasta diritta, lucida, a tu per tu con la morte: d’aver trattato il dolore da pari a pari.
Scacciò, come indegno, il timor della solitudine, lo sgomento di rimaner nel mondo senza un parente, senza una protezione, povera in canna. Continuare la scuola, impossibile. Ripeteva il corso: non meritava il sussidio. Ma non gliene importava nulla, e non cercava di comprenderne il perchè. Era libera. Aveva se stessa. Viveva un’ora sublime, accanto ad una morta che la sentiva, quantunque più rigida della pietra.
Una forza enorme, il cui annuncio ella aveva già altre volte, ma non così potentemente, avvertito, le accelerava i moti del sangue, le toglieva il senso d’essere circoscritta alla robusta magrezza del proprio corpo. Stavano in quella forza le sue armi per l’esistenza. La madre, non potendo altro, gliel’aveva lasciata in eredità.
Accolse in sè, penetrò di sè, perdutamente, le forme che la circondavano e la loro misteriosa bellezza e la loro intima ragione: la fiamma pregante della candela, il cadavere immoto in serenità, il casto profilo del letto mutato in sarcofago, i rettangoli dei due quadri “Processo e Fuga di Felice Orsini„ emergenti dalla penombra ove il resto naufragava; e il vano spalancato donde entravan le stelle della tiepida notte con pavidi tremolii luminosi, con ondate di diluvi salenti dal giardino.
Tutto era vita. Anche la morte. Nulla era occulto. La materia era trasparente. Senza volume, senza peso, e pur lucidissima, tutta pervasa dell’ebrezza d’esser vivente, dinanzi alla purità dell’aspetto materno solo in apparenza inanimato, la fanciulla si sentì sollevata dalla sensazione del volo, in un’atmosfera senza principio e senza termine, padrona dell’eternità.
Ed ecco, violento, imperatorio, il bisogno di esprimersi. Il comandamento interiore, al quale Veronetta non può sottrarsi. — Un quaderno, una matita. — La mamma?... Oh, mamma!... Non ti lascio: ti ricompongo, ti fisso qui nelle pagine, come fosti, come sei. Tu mi guardi, tranquilla: mi chiedi, come facevi sempre: Veronetta, scrivi il tuo compito?... —
Quando i passeri, con sommesso cinguettio, e le campane della chiesa di Santa Barbara annunziarono l’alba, i cirri paonazzi e rosei che nel cielo si tenevano infantilmente per mano scorsero, pel vano del balcone, Veronetta Longhena curva a scrivere, a scrivere, col quaderno in grembo, a pie’ del letto infiorato di aspirèe sul quale riposava la tessitrice morta.
Ma la morta sorrideva, calma, beata. Aveva servito: serviva ancora, fino al minuto in cui l’avrebbero inchiodata nella cassa e deposta nella fossa comune. Ella sapeva che la sua figliuola non era simile alle altre, e che bisognava lasciarla fare, perchè uno spirito misterioso guidava i suoi atti verso un misterioso fine. Scarmigliata, cogli zigomi accesi, col cerchio rovente della febbre alle tempie ed ai polsi, Veronetta Longhena scriveva, vegliando la salma della madre, come avrebbe pregato per lei, a mani giunte, in ginocchio.
Per parecchi giorni visse in solitudine fiera, nutrendosi di pane e latte, rimanendo ore ed ore immobile, chiusa in apparente inerzia, e riempiendo poi fogli e fogli di una fitta, disordinata scrittura. Non aveva più messo piede nella scuola. Varie compagne le inviarono lettere di conforto: ella non rispose. Non amava nessuno, non ricordava nessuno. S’era tagliata fuori dal mondo. I legami del dovere e della consuetudine non la toccavano più. Viveva nel sogno.
Il giardino, consapevole, s’infittiva, per lei, di fronde e di canti d’uccelli. Il morir dell’aprile metteva ai rosai, ancor senza fiori, foglioline nuove sanguigne nel sole: le rosee magnolie precoci cominciavano a sfiorire, le serenelle a schiudere i loro grappoli violacei d’un acuto amarissimo sentore. Ella avrebbe lasciato il tempo trascorrere sempre così.
Ma qualcuno vi doveva pur essere, che la prendesse per le spalle e la ponesse, diritta, di fronte alla dura realtà: e fu donna Carla, la padrona della casa, la madre di Nanna e Ninna, chiuse allora in un collegio di Firenze.
Ella era sempre giunonica di forme, recisa e brusca di modi, amante delle comode vesti da camera: al qual gusto s’era aggiunto quello, un po’ troppo maschile, dei sigari virginia. Ne lasciò uno, un giorno, a mezzo, sul portacenere: scese in giardino, chiamò Veronetta.
Se la fece sedere accanto, sulla panca di pietra all’ombra del pino turchiniccio che nel dolce tempo era stato il conte Sergio. Ma dov’erano il principe Azzurro e la principessa Maria?... Nanna e Ninna eran lontane e avevan forse tutto dimenticato; e la principessa Olivia, pallida, trasognata, male in arnese, con le scarpe rotte, col viso così scarnito che la violenta quadratura delle mascelle vi si scolpiva come in un teschio, si trovava premuta dalla necessità di un’occupazione, comunque fosse, che immediatamente le procurasse il pane.
— Ascoltami, piccola — cominciò a dir la signora, con rude ma calda cordialità. — Hai pensato alla tua condizione?... Sai quel che devi fare?...
Silenzio. Grandi occhi torvi, fissi.
— Tu non puoi continuar gli studi. Lo sai benissimo da te. Potresti dar lezioni private; ma, senza diploma, è un affar serio: non è un pane sicuro. Poi, hai un certo caratterino!... E lavorare bisogna: mantenersi, pagar la pigione. Già codeste due stanzette, noi che non vogliamo saperne d’inquilini, le avevamo lasciate alla tua mamma per una miseria all’anno, unicamente perchè ci allattò la Ninna, prima di entrar nella fabbrica. Ma regalartele non possiamo. Lo capisci anche tu, non è vero?...
Silenzio. Grandi occhi torvi, fissi.
— Dunque dammi retta. Ho parlato ieri col commendator Verganti. Come sai, è mio cugino. In fabbrica è lui che fa la pioggia e il bel tempo. Per un riguardo alla tua mamma, che vi ha lavorato tant’anni e vi è morta, — per un riguardo anche a me — ti accetterebbe in qualità di apprendista dattilografa. Imparerai l’arte da un’impiegata che se ne deve andar fra un mese; e prenderai il suo posto. Perbacco!... stupida non sei. A dattilografare s’impara in fretta. E i conti li saprai fare, per quanto l’aritmetica non sia il tuo forte. Ti va?... Sei contenta?... Cinquanta franchi al mese, quando avrai assunto il posto regolare. Col tempo poi.... Potrai sempre bastare a te stessa. Siamo d’accordo?... o no?... E dimmi grazie, chè me lo merito. Senza di me, tu resteresti imbambolata a contar le stelle fino alla morte per inanizione. Moversi bisogna, perbacco!... Il commendatore ti aspetta in ufficio, mercoledì.
— Grazie, signora.
Veronetta non rispose altro; ma donna Carla se ne accontentò. Non aveva forse mai tenuto, in vita sua, un così lungo discorso. Sbuffò, si alzò, pensò con profonda soddisfazione al mezzo sigaro virginia che l’attendeva sul portacenere in camera, fece alla fanciulla un rapido cenno di saluto, e s’avviò verso lo scalone, trascinando la coda della sua eterna vestaglia di flanella a strisce rosse, azzurre e viola.
E non vide lo sguardo fosco, d’una gelida fissità di pozzo senza fondo, che la seguiva duramente, quasi con disperazione.
★
Tic-tic, tic-tic, tic-tic. Aveva imparato a dattilografare, in quattro e quattr’otto: più presto che non credesse. S’impara tutto: basta volere.
Tic-tic, tic-tic-tic dalle nove alle dodici, dalle due alle sette: tic-tic, tic-tic-tic, sotto l’agile movimento delle dita ridotte a strumenti meccanici come il cervello. I piccoli tasti scattavano, sparivano, ribalzavano, spiritelli beffardi e chiacchierini; e i fogli uscivan l’un dopo l’altro, regolari, ordinati, bianchi e turchini, irti di nomi tecnici, di formule commerciali, di cifre, di cifre, di cifre. E la forma del tavolo era quadrata, dei fogli, rettangolare, dei tasti, rotonda: e nulla mutava mai: e le cifre si raggruppavano in infinite guise per segnare un’infinità di numeri; ma eran pur sempre le stesse.
Accanto alla Remington, il copialettere. Tacito, ostinato, metodico. Abbassando e premendo il torchietto perchè le scritture si fissassero sui leggerissimi fogli di carta velina, Veronetta soffriva ogni volta la sensazione di schiacciar là dentro la propria anima, improntandola d’indelebili segni profanatori.
Tutto era, intorno a lei, inflessibilmente preciso, a base d’orario e di calcolo. Nel lavoro degli impiegati, nelle loro aspirazioni, nei loro discorsi, una sola molla, una sola base, un solo Dio: il guadagno. Le tappezzerie color grigio chiaro delle tre stanze d’ufficio, gli armadi a tiretti numerati, le cartelle legate da nastri verdi, le colossali scrivanie ingombre di fogli e macchiate d’inchiostro, pareva trasudassero, al par degli uomini, somme, sottrazioni, dividendi, note interminabili di “dare ed avere„.
Mongilardi, il capo contabile, chiamava sempre Veronetta a sè, per aiuto, nei giorni della distribuzione delle paghe. Dio, quei sacchetti, quei sacchetti a decine, a centinaia, bianchi, pesanti!... E quei visi allo sportello, d’uomini, di donne, di ragazzi, tutti simili nell’espressione d’avidità bruta e soddisfatta, quando il sacchetto spariva nella mano stretta ad uncino!...
Mongilardi era un simulacro d’uomo, giallo come una fiala di bioplastina, con capelli e baffi di capecchio, e le orecchie ad ansa: così magro, che le giunture dei gomiti e delle ginocchia gli foravan le maniche e i pantaloni. Prigioniero tra la cassaforte di ferro e lo scrittoio di quercia che lo nascondeva, costantemente curvo su libri mastri, fatture, reclami, biglietti di banca, si poteva ben chiamare l’uomo-cifra per eccellenza.
Non avrebbe sbagliato un totale d’un millesimo, neppure dormendo, neppure in punto di morte.
La cura meticolosa con cui contava e ricontava il denaro, preparava e disponeva le buste e i sacchettini delle paghe, quali tesori preziosissimi che soli al mondo valessero la pena d’esser custoditi, era ogni volta un nuovo, curioso spettacolo per la piccola dattilografa; come un gioco di bussolotti, come una scena di prestigitazione.
Con la moglie sempre malata e cinque bimbi da tirar su, tutti biondicci ed ossuti al par di lui, non aveva che un sogno: un aumento di stipendio: non sorrideva che ad una speranza: una solida gratificazione a Natale.
E gli altri?... Paolo Màspero, il direttore della filatura, con quelle spalle d’atleta da fiera e quell’ispida, camusa faccia da tedesco?... Toccava la quarantina ed era ricco, colui, dicevano; e un giorno o l’altro si sarebbe fatto socio del commendatore. E guardava la magrezza acerba e salda di Veronetta con la brutalità dell’esperto conoscitore; ma la fanciulla non se n’accorgeva nemmeno; chè in lei la carne dormiva ancora un sonno d’infanzia.
E Cajrati, che ficcava dappertutto il suo muso da faina, e, quando le tasche gli ballavan vuote, mordeva dove poteva?... Era risaputo da tutti, che Cajrati lavorava sapientemente sott’acqua per sbalzare Terzi dal suo posto, e soppiantarlo; ma se Cajrati aveva muso da faina, Terzi all’occasione digrignava mascelle da lupo.
Fra quegli uomini, sotto quel giogo, in quelle grigie stanze d’ufficio dove le brevi e tempestose apparizioni del principale apportavano spesso bagliori e scoppi di lampi e tuoni, al tichettio della Remington la vita di Veronetta si svolgeva, plumbea, scandendo la sua tristezza sulle troppo esatte pulsazioni di un lavoro non voluto, non sentito, non amato.
Solo un cortile separava gli uffici dal salone di tessitura nel quale Anna Longhena per sedici anni aveva intrecciato il suo logorante lavoro alle sue fresche canzoni: nel quale era caduta per sincope, senza una parola, senza un sospiro, senza un gemito, come un uccellino piomba fulminato dal ramo, a mezzo trillo, col becco in aria. Ma Veronetta non vi era mai entrata.
Tuttavia, con la tormentosa facoltà d’allucinazione che scolpiva e illuminava dinanzi ai suoi occhi i fantasmi del cervello, Veronetta scorgeva nettamente il cadavere, stecchito, nero, piccolissimo, sul pavimento oleoso, fra un telaio e una cassa di spole. Piccolissimo, un punto, un nulla, in tutto quel moto, quell’assordìo; ma terribile.
Avevan creduto di portarlo via; ed era rimasto là, allo stesso posto.
Gli operai che andavano e venivano gli passavan sopra coi piedi, senza vederlo, senza sentirlo; ma c’era: le sue molecole aderivano alla densità dell’atmosfera, al roteante fremito delle cinghie, all’animata materia delle macchine: e la voce dell’opificio altro non era che la voce di Anna: — Vera, Veretta, Veronetta!...
E tristi e soavi parole andava ripetendo la morta, vigile sempre e inconsolabile nella sua passione materna, alla fanciulla che tardi ne comprendeva il lungo, umile sacrificio:
— Figlia, figlia, anche tu qui?... Non è colpa mia so non giunsi in tempo.
Ordigno perfezionato per produrre solide stoffe multicolori, ordigno perfezionato per scrivere meccanicamente lettere di commercio, non significavan forse la stessa quotidiana necessità, per l’una, per l’altra: guadagnarsi da vivere?... I tasti beffardi e chiacchierini sui quali le dita di Veronetta avevan così bene imparato a scandere la tarantella avrebbero, davvero, logorato ne’ tessuti più saldi, tolto al suo naturale destino l’organismo di singolarissima sensibilità che ella sapeva di possedere?...
Per il pane, per le scarpe, per un letto, per non morire. E intanto ella presentiva la stanchezza bruta, che si sarebbe interposta come una porta di ferro fra lei e la profonda verità dell’anima sua. Ella sarebbe passata così, senza comprendere chi fosse, e perchè fosse venuta al mondo. E quelle pagine che scriveva, febbrilmente, la notte, mentre gli spiriti del giardino entravan dal balcone aperto a tenerle compagnia, nessuno le avrebbe vedute.
E il sole avrebbe continuato a splendere e l’erba a spuntare e le stelle a fiorire nel cielo e i fiori a costellare le aiuole e l’infinita varietà degli attimi cosmici a svolgersi in bellezza nello spazio e nel tempo....
— Signor Mongilardi, — ella disse al capo contabile, dopo la distribuzione delle paghe agli operai, un sabato di luglio nel quale la canicola gravava sulle cose e sugli uomini come una cupola incandescente — signor Mongilardi, per carità, quanto denaro ha maneggiato quest’oggi!... E tutto quello che c’è ancor lì dentro, nella cassaforte!... Non le mette schifo, alla fine? Non le vien mai la voglia pazza di gettarlo dalla finestra?... Non ha mai pensato, lei, quante anime, quanti cervelli sono stritolati dal bisogno del denaro?...
— Gettar biglietti dalla finestra?... Stritolati?... dei cervelli?... dal bisogno del denaro?... Figlia mia, è lei che mi diventa pazza. Il denaro è la molla dell’umanità!... Sentite un po’!... Benedette le donne!...
— Ebbene, a me mette schifo, ha sempre messo schifo, ecco. Non so perchè non lo dovrei dire. Provi una volta ad immaginarsi un mondo senza denaro, un’umanità liberata dalla sete o dall’incubo del denaro.... Ci riesce?...
Anche Paolo Màspero, che stava per andarsene, s’era fermato per ascoltarla, col testone camuso insaccato fra le spalle, divorandola cogli occhi: anche Cajrati, che però torceva in una smorfia di compatimento la bocca di faina.
Quella bimba!... Così libera e così fiera, con un passo così elastico e rapido che c’era da mozzarsi il fiato a volerla seguire, quando divorava in tre salti la strada, dalla fabbrica alla sua casa!... Bei capelli, non castagni, non rossi, vivi, capricciosi; e due lampade elettriche al posto degli occhi.... E parlava di rifare il mondo e l’umanità!...
— Biglietti da mille?... molti vorrei averne, io, signorina — ridacchiò Cajrati. — Tanti da poterli gettare a manciate sulla faccia del prossimo, da ubriacarmene, da farne indigestione. Li dia pure tutti a me, i soldi che vuol togliere agli altri. Le assicuro che ne farò buon uso.
— Non sapevo che lei fosse un’anarchica — concluse Paolo Màspero. — Nel denaro sta la regola.
Il riso di Veronetta fece schioccar nell’aria un colpo di frusta.
Ostile, armata, di razza diversa i tre uomini la sentivano: feriti oscuramente nella loro superiorità di maschi, nel loro senso banale e utilitario della vita, nel rispetto del guadagno, della ricchezza, ereditato dai padri in un coi mobili di casa, col nome, col culto. Vicina a loro, lontanissima da loro, Veronetta splendeva come una fiamma di sarmento, sottile, diritta, vibratile. Un malessere fisico, un sanguigno desiderio di scrollarla, di piegarla, di “farle ingoiare i capricci„ gonfiò le vene del collo apoplettico di Paolo Màspero.
All’improvviso, un concitato suono di voci nella stanza attigua; e uno spalancarsi dell’uscio e l’apparire di tre persone: Giovanna Dominici, scapigliata, colla faccia ridotta un pugno di cenere, tenuta pel braccio da Sarteschi, l’incaricato della visita alle tasche durante l’uscita degli operai; e Terzi dietro.
— Per carità!... l’ho fatto pe’ miei figli. Non mi rovinino, in nome di Dio.
Batteva i denti. La viltà della miseria stava impressa sulla sua persona floscia e lugubre come un cencio nero. Lo spavento la raggomitolava.
— Non vi vogliamo far del male, cara la mia donna. Ma il fatto sta che qui vi sono quattro matasse di lana, trovate su di voi, in un tascone interno della veste. Del male, no. Ma il posto lo perdete.
— Allora vuol proprio che io mi getti nel fiume?... Se è così, ecco, vado, vado sul ponte, mi butto in acqua. Che vuol che mangino i miei bambini?... Ne ho due, sono vedova. La paga non basta. La mia fatica vale di più della mia paga. Chi mi può chiamar ladra?... Sono anni che tribolo, che porto la croce. Loro non sanno, loro non possono capire....
Mongilardi si avvicinò, la sostenne. Un tremito ininterrotto le scuoteva le mani, le spalle, il petto incavato. La crisi isterica parve volere abbatterla.
— Se ne vada, signorina. Qui non è posto per lei, ora — disse Cajrati a Veronetta, pallidissima, stravolta.
— L’accompagno io — le mormorò Paolo Màspero nel collo. — Andiamo, andiamo. È già tardi. Lasciamo che quella disgraziata se la sbrighi da sè con l’amministrazione. Venga con me.
Uscirono, nella vampata vermiglia del torrido tramonto. L’uomo la portava, quasi: tanto l’emozione l’aveva resa debole, incerta nel passo, con vene vuotate di sangue. Per la prima volta la protezione d’un uomo si curvava sulla piccola solitaria, rimoveva un sasso dalla sua strada; ed ella vi si abbandonava infantilmente, come se quel maschio barbuto e muscoloso, che di sotto la civile apparenza emanava il sentore della bestia selvatica, fosse suo padre.
— Le perdoneranno?... Dica. Povera donna!... Ha due bambini. Vede, vede il bisogno, a che cosa conduce?... Nessuno dovrebbe trovarsi nel bisogno. Non è possibile che non le perdonino. Mi parrebbe d’esser complice d’un delitto.
— Forse sì, le perdoneranno. Si calmi. Non pensi a malinconie. Non si tormenti.
In via della Fontanella, dinanzi alla casa, la voce virile, più rauca, disse:
— Permetta che la conduca disopra, signorina. Lei è troppo agitata. Che vuol che si dica?... Ho quarant’anni: può esser mia figlia.... Un solo minuto, fino a quando lei si sia messa veramente in quiete.
Come alti, quegli scalini!... Mai a Veronetta (e sì che Màspero la sosteneva) eran sembrati così ardui a salire. Le sue gambe erano spezzate ai ginocchi. Aveva la febbre, forse.
Dai balconi, il fronzuto giardino irrompeva con la densità del verde nelle due stanzette bianche e quasi nude. Di fronte, un ultimo raggio di sole traeva sangue e porpora dai comignoli del tetto. L’afa della giornata pesava ancora sugli alberi che attendevano, immobili, la frescura della sera. Un frenetico garrire di passeri veniva dall’ombra del pino turchiniccio. Rondini rondini rondini roteavano in cerchi di rapidità e di veemenza felice nell’azzurro, stridendo di amore e di ardore.
— Vede?... Io, qui, sono un’altra — principiò a dire Veronetta, già rianimata, col viso un po’ meno pallido, coll’aria un po’ meno smarrita. — Qui, anche se giungo stanchissima, mi riprendo subito. Niente dattilografa!... — e sorrise. — Niente impiegatuccia a cinquanta franchi al mese. Sono la principessa Olivia. Mi credo pazza?... Ho una maravigliosa veste a strascico, color di luna. Ho tanti gioielli quante sono le stelle. Tutto è mio; ma senza che io lo prenda, che io me ne impossessi. È mio, così, perchè vivo. Per paura di perderlo, l’ho scritto, il sogno. Ecco.
Additò, timidamente, una quantità disordinata di fogli, su un tavolino basso.
— Come?... Scrive?... Lei scrive?...
— Sì. Non posso mai dormire, nelle prime ore della notte. E racconto me stessa in questi fogliacci: come sono, e come debbo essere per guadagnarmi il pane. E anche lei c’è, qui dentro; e Mongilardi e tutti e la fabbrica e.... la mamma. La principessa Olivia che fa la dattilografa!... Lei non sa nulla. Abbiamo tanto giocato alle regine da fiaba, con Nanna e Ninna, nel giardino. È stato ieri, solamente ieri. Poi la mamma è morta. Ma perchè non dovrei continuare il mio sogno?... Solo nel sogno io posso vivere.
Paolo Màspero le si era avvicinato, fin quasi a toccarla. Coi piccoli occhi incassati sotto ispidi cespugli di pelo grigio mattone, e che andavano iniettandosi di sangue, le fissava la gonfia bocca giovine, ignara del proprio fascino, e la vena jugulare pulsante di commozione a fior del collo ambrato. Che storie di sogni e di principesse gli andava raccontando quella zingarella bizzarra?... Gli piaceva, la voleva.
— Cara!... Ma lei non deve più tornare alla fabbrica, all’ufficio. Non è sola, senza parenti, senza nessuno che le comandi?... Venga a star con me. Mi voglia un po’ di bene, Veronetta!... Sono vecchio per lei; ma non importa. Ho salute per cento. Sono un colosso. Mi piaci. Ti sposerò, se vorrai.
— Ma che dice?... Se ne vada, per carità.
— No. Non me ne vado, se non con te. Non è forse la miseria, che ti rende infelice?... Ebbene, sono ricco, io. Guarda!... — e trasse il gonfio portafoglio, e glielo spalancò sotto gli occhi. — Non avrai più bisogno di lavorare per vivere. Scriverai fin che vorrai, se questa è la tua passione; ma via!... troverai di meglio da fare: essere una donna, essere bella, adorata. È perchè ne sei priva, che tu odii il denaro. Vedrai, vedrai l’agiatezza come è dolce, piccola cara, piccola bella....
E la fanciulla si sentì presa per la vita, stretta alla cintura da ferree braccia: con l’odore ferino del maschio nelle narici, con quell’alito di fuoco sulla bocca, con quella carne madida incollata alla carne.
La sua chiusa ed aspra verginità si armò d’un balzo di mille punte, trovò in se stessa la più artigliata difesa. Graffiò, morse, lacerò, si strappò da quelle tanaglie, balzò, gatta elastica e minacciosa, contro la parete. I suoi occhi fosforescenti, tutti pupilla, mettevan paura. La voce le usciva quasi afona dalla strozza, rotta dall’ansimo.
— Se ne vada. Ha capito?... Crede di comperarmi?... Non sono una balla di stoffa, io. Si guardi, è vecchio!... Tenga per sè i suoi biglietti da cento e se ne vada. Mi fanno orrore. Sono come quelli della fruttivendola di via Roma; ma ancor più nauseanti. Ah!... io so, io so. Vada, o mi metto ad urlare, che tutti sentano.
Avvilito, tutto in sudore, con qualche goccia di sangue sulla mano sinistra, Paolo Màspero indietreggiò verso la porta. Era cieco d’ira, di quell’ira sensuale che rende folli gli uomini pletorici.
Bofonchiò:
— Frena la lingua, bambina. Te ne potresti pentire. Bella superbia, scribacchiare sciocche fantasie che non ti procurati neanche da mangiare!... Portali dunque ad un editore, i tuoi preziosi fogli, che te li paghi e te li pubblichi. O intendi scrivere pe’ tuoi begli occhi?... farai poca strada se sei di razza così selvaggia: te lo dice Màspero, bambina.
— Non me ne importa niente. Se ne vada.
Nella penombra crepuscolare, carica di forze magnetiche vibranti e cozzanti, gli occhi senza palpebre non cessarono di rimaner fissi, puntati verso l’uomo come coltelli, fino a quando egli non ebbe varcata la soglia. Il passo risuonò pesantemente lungo le scale. Allora soltanto le palpebre si riabbassarono, il corpo si abbiosciò, in un fascio, sul pavimento. Singulti ed urli spasmodici lo scrollarono, lo sollevarono, lo appiattirono, parvero romperlo a pezzi, frantumarlo. Poscia cessarono di schianto. Fu notte, e fu silenzio.
★
La sera seguente, a pena tornata dall’ufficio (dove era comparsa con una faccia di dissotterrata e aveva compiuto il suo lavoro con l’impassibilità meccanica d’un automa) Veronetta, senza quasi concedersi il tempo d’ingoiare un boccone, ricopiò molti fogli del manoscritto, li mise in una busta e vi unì una lettera. Scrisse, sulla busta, il nome di un celebre critico, direttore della più diffusa rivista letteraria di Milano. Portò il plico alla posta, il mattino; ed attese.
La lezione di Paolo Màspero aveva portato il suo frutto.
Tre settimane, lunghe più di tre anni, tardò la risposta a giungere; ma giunse, quando già Veronetta ne stava perdendo la speranza. Il critico — uomo probo, di sana coscienza, di largo intelletto, di fiuto infallibile, che nell’arte dei giovani amava ed esaltava le generose forze dinamiche — s’era, senz’altro, avveduto che quella giovanissima era qualcuno: aveva intravisto tutto l’oro che si poteva estrarre da quella ganga.
Nella sua lettera, la lode parca ma convinta illuminava l’ammonimento severo. Diceva un sì; ma tartassava dove c’era ragione di critica, trovava il nòcciolo del difetto essenziale, indicava la strada giusta, colpiva per incitare.
Veronetta gioì, tremò, sofferse con delizia, si scavò il cuore per prenderne a due mani il coraggio. Tornò sul manoscritto, cancellò, rifece, rinsanguò. Furono le sue sere regali. La corrispondenza con l’amico, che ella già chiamava “il buon Maestro„ divenne la sua ragione di vivere. Il libro — non romanzo, non favola, non lirica, ma l’una e l’altra cosa insieme, fuse in quel divino crogiuolo che è l’originalità d’una vera tempra d’artista sbocciata in solitudine, — pubblicato in parte, a puntate, nella rivista che il “buon Maestro„ dirigeva, colpì il pubblico in pieno petto. Voci contradditorie si levarono, curiosità morbose si acuirono sulla sconosciuta scrittrice che s’incarnava nella bizzarra figura della principessina dattilografa. E la “Principessa Olivia„ incominciò a divenire un personaggio di leggenda.
Finalmente, un giorno, l’amico le scrisse:
“Mia cara selvaggia, ho scoperto per voi due gemme. Un editore (grande) che vi pubblicherà il volume: un posticino (piccolo) qui, nella redazione della mia rivista: che vi permetta, quantunque modestissimo, di porre il piede sul campo di battaglia. Conosco una brava donnetta che vi terrà a pensione. Finora avete combattuto nell’ombra: venite a combattere in piena luce. Vi attendo„.
Discretamente accluso nella lettera era un vaglia: compenso alla sua collaborazione, che durava da parecchi mesi. Esigua somma. Ma a Veronetta non bruciò le mani. Fu, quel denaro, il primo che non l’umiliasse, che non la fustigasse con la brutalità d’un nemico. Tutto il suo essere si componeva finalmente in armonia con le necessità della vita.
Ed ella si preparò in silenzio alla partenza, assorta nel religioso raccoglimento delle supreme vigilie.
Andò a salutare donna Carla, che aveva per i libri il più convinto disprezzo e le sfiorò appena la punta delle dita, soffiandole in viso il fumo del suo eterno sigaro. Si congedò, con indifferenza, dai compagni d’ufficio. A nessuno ed a nulla era legata: non aveva radice che in sè. Ma a Paolo Màspero, che dalla sera della scena brutale, vergognoso del proprio eccesso, non aveva quasi più osato avvicinarla, strinse la mano con franco sorriso, dicendogli: Grazie. — Ed egli non comprese il perchè di quella parola; e tacque, confuso, ispido, bieco.
In un’alba marzolina vivida di vento lasciò la piccola città nativa, senza volgersi indietro. Le piaceva quel vento che verso il cielo tagliente come un cristallo sollevava nembi di germi. Ella portava con sè una vecchia valigia troppo gonfia, irta di gibbosità, la memoria di sua madre e la visione del giardino.
Pensava: Non tornerò più. —III.
Vi ritornò, invece. Molti anni dopo, per un solo giorno, con Fausto Mori.
Ella aveva, durante tutto quel tempo, tenacemente affrontata, superbamente vinta, estraendo dal proprio midollo materia sempre più viva di resistenza, una fulgidissima, formidabile nemica: la celebrità.
La stampa dell’epoca aveva discussa, commentata, vivisezionata a sazietà la scrittrice non ancora ventenne rivelatasi d’improvviso col libro “La Principessa Olivia„, del quale le edizioni e le traduzioni s’erano rapidissimamente moltiplicate.
In quelle dense, magnetiche pagine di confessione tumultuava invero, trascinando nella propria furia di torrente in piena una quantità di scorie, l’eterno contrasto fra il sogno e la realtà; ed il sogno era illuminalo di tanta poesia e la realtà scolpita con tale durezza di linee e incavatura d’ombre, che le anime ne eran rimaste stupefatte e scosse.
E la cronaca ed il pubblico s’erano impadroniti di Veronetta Longhena.
Senza sforzo, senza sorpresa ella era balzata in piena crudità di luce. S’era trovata in una casa di vetro, esposta all’avida e non sempre benevola curiosità di tutti gli occhi: non un velo le era stato lasciato, perchè l’anima sua potesse coprirsene. Troppo ella aveva dato di sè in quella prima opera, perchè qualcosa avesse a rimanerle di chiuso e di geloso.
Ma il raffinato supplizio le era parso magnifico.
Non per vana febbre di esibizione, in donna così semplice e fiera. Ma perchè ogni alba, svegliandola, le dava la certezza di trovarsi di fronte ad una nuova battaglia, ed all’obbligo strenuo di armarsi. Aveva imparato a castigare, a disciplinare la propria arte, a penetrare il fondo dei cuori e dei caratteri per estrarne con forza e con dolore il sanguinante nòcciolo della verità, e per esprimerlo con la parola più aderente, con la sola necessaria. La guida del “buon Maestro„ che aveva su di lei l’autorità d’un padre, le era stata preziosa per l’indirizzo della vita, per la serietà degli studi ai quali egli l’aveva sottoposta. La libertà senza limiti di cui, giornalista e romanziera, godeva, le aveva aperta la strada a esperienze importantissime per arricchire il suo tesoro di osservazioni. La fama le era stata frusta che riga le spalle di rosso e incita alla corsa, non falsa illuminazione di palcoscenico, che dà ai belletti ed alle biacche apparenza di carni vive.
I suoi romanzi possedevano il calore e il movimento naturale dei muscoli nel corpo, del sangue nelle vene, delle linfe nella terra.
Maneggiava e riplasmava la materia vitale con una schietta brutalità che molti chiamavan maschia; e che rispondeva invece perfettamente al sano vigore della sua natura femminile.
Era appunto quella nuda e nerboruta umanità che la rendeva più d’ogni altro bersaglio alle aggressioni della pseudo-critica, all’odio-amore di tanti, al complicato sadismo intellettuale che le sputava addosso, pure riconoscendola.
Ed ella aveva adottata, per sfida, una superba divisa: “Senza nemici scema il coraggio„.
E col passare laborioso degli anni aveva guadagnato in elasticità ed in freschezza: poichè la madre l’aveva inconsapevolmente costruita di quell’incorruttibile sostanza nervosa che più spende di se stessa meglio in se stessa si riproduce.
Mai le era nato in cuore il desiderio di riveder la città dov’erano trascorse la sua miserrima infanzia, la sua smorta e spinosa adolescenza: dove nulla e nessuno poteva attirarla, e dalla quale era fuggita come una reclusa dal carcere di cui abbia segate le sbarre. Ricordando il tempo e il luogo della vigilia, la donna che aveva tutto superato compiva istintivamente l’atto di portarsi le mani alla gola, per strapparne un cappio che gliela strozzasse.
Pure, una domenica di piena estate, ella ritornò.
Col suo compagno.
Compagno, amico, amante: tutto questo insieme, e più: il suo uomo, e così lo proclamava, nell’intimo, con un largo sorriso felice.
Lo aveva incontrato tardi, a trentotto anni, quando gli occhi inquieti cercano già nello specchio i primi capelli bianchi, i primi accenni di ruga. A qualche altro amore, prima, nel corso della sua esistenza di libertà ch’ella non aveva mai voluto irretire in vincoli convenzionali, s’era data, s’era tolta: fuggevoli inganni del cuore o dei sensi, che le avevan lasciata la bocca amara, e la certezza di un destino di solitudine.
Un solo tenerissimo affetto, di nobiltà e di fedeltà senza pari, era bastato, fino alla comparsa di Fausto Mori, a riempir la sua vita gelosamente dominata dal travaglio dell’arte: l’amicizia pel critico che l’aveva tenuta al battesimo della lotta: pel possente vecchio dalla calva fronte a forma di torre, dalla candida barba di patriarca, dinanzi al quale ella talvolta s’inginocchiava baciandogli le mani, chiamandolo infantilmente “papà„.
Ma Fausto Mori era venuto.
Messi alla presenza l’uno dell’altra, si erano riconosciuti all’istante.
“Eccola„ — “Eccolo„ — aveva detto loro, dal profondo, la voce senza suono che ha maggior potenza d’ogni altra voce.
In un teatro, dopo un tempestoso comizio. Atmosfera rovente, satura d’elettricità. L’oratore aveva appena finito di trascinare il popolo nel turbine della sua travolgente eloquenza: vibrava tutto ancora della propria battaglia. Era l’avvocato Fausto Mori.
Un saluto: un “bravo„: una stretta di mano. Egli, altissimo, con petto e spalle tali da sostenere l’urto di una folla. Ella, piccola, con l’apparente fragilità delle donne dai nervi d’acciaio. Le due forze s’eran fuse senza che le due volontà ne avessero parte. Solo da allora, quell’uomo e quella donna avevan sentito quale smisurato godimento sia il vivere.
La veemenza con la quale s’eran gettati l’un verso l’altra non li aveva delusi: ognuno dei due, nell’impeto, s’era scavata nell’altro la propria impronta. E tale era la passione, che alcune volte, in una stretta folle, essi avevan creduto di entrar nella morte come in una seconda esistenza di maravigliosa perfezione.
★
— Veronetta, — egli le diceva, seduto di faccia a lei, nel treno, presso il finestrino, in quel meriggio festivo bianco di calore e di luce, stringendo fra le sue grandi mani tutte muscolo e nervo le manine pallide piene d’abbandono — Veronetta, oggi siamo due scolari in vacanza. Sei contenta?...
— Sì. Ma che capriccio il tuo, Fausto!...
— Perchè?... Noi andiamo a sposarci, senza cerimonia e senza testimoni, nella città dove tu sei cresciuta. Io voglio così. Voglio che tu mi mostri con queste care dita i luoghi e le cose della tua infanzia. Lo so: hai già tutto raccontato, tutto descritto, nel libro. Ma non importa. Ti voglio veder là, amare là. Devi essere mia tutta, dal principio.
— Sì.
Ella rispondeva — sì — con la stessa naturalezza ch’egli aveva nel dire: — voglio. — Bastava a lui parlare, guardarla, toccarle una spalla, perché ella non avesse più volontà. E ciò le era dolce come il sonno quando si è stanchi.
— Credi forse ch’io sarei tornata, se tu non fossi?... Ho sofferto troppo, Fausto, laggiù. Ma con te!... Con te, vado anche a morire.
— A morire?... No, a rivivere. Cerca di ricordarti. D’ogni più piccola circostanza ti devi ricordare. Siamo vicini, abbiamo già oltrepassata l’ultima stazione. Un’ora e venticinque minuti di viaggio!... Un’inezia.
Le liberò il viso dal velo, glielo prese — poi ch’eran soli nello scompartimento — fra le palme, con uno de’ suoi gesti rudi; e fece, ridendo, l’atto di morderla.
— Guai se non ti ricordi!... Ti mangio.
Gli occhi di Veronetta si velarono di voluttuoso languore; un brivido le discese dalla nuca alla schiena.
Fu nient’altro che una cosa sua, una sensibilità tutta aperta ch’egli poteva far vibrare a suo capriccio.
— Mi ritrovo, adesso. La fabbrica, fuori porta: guarda. Quei padiglioni larghi e bassi, quelle due ciminiere. La povera mamma morì là dentro. Dorme là dentro, per me. Quanto tempo!... La mamma!... Mi pare un secolo. Non l’ho compresa, non l’ho amata come meritava. È il destino di tutte le mamme, forse.... Dio, che sole!... E come son bianchi i muri, quando il sole li arroventa!... Adoro il sole. Sono felice, Fausto.
Il treno rallentò fischiando, ebbe due o tre scossoni, si arrestò sotto la tettoia plumbea. Balzato a terra, l’uomo erculeo, d’una solidità di quercia, in un’esplosione di gioia che lo fece ridiventare fanciullo, accolse Veronetta fra le braccia, la tenne per qualche secondo sollevata da terra; ed il sorriso che illuminò la bocca virile e la bocca femminea fu ugualmente trionfale.
Più tardi, nella carrozza che da un albergo vicino alla stazione li conduceva in città, egli le chiese:
— Riconosci i luoghi?...
— Sì — no. — I giardini pubblici colle magnolie fiorite.... come mi sembran piccoli, ora!... I bastioni colle due file d’ippocastani.... Il teatro diurno.... via Santa Maria degli Orti.... casa Ghislandi.... Ma che mi fa, ora, tutto questo?... Non è più la stessa cosa. Non sono più Veronetta. È passato, è morto. Mi hai fatta nascere ieri, tu. Mi chiamo Vera, la tua donna.
Gli si strinse addosso, aderendo a lui col tepore della spalla e del braccio, mentre la vettura passava nel solleone per viuzze deserte, strette, pietrose, ove la vampa piombava a perpendicolo su antichissimi palazzi anneriti dal tempo, che avevan chiuse tutte le imposte per respingere la calura.
La certezza della presenza amata, l’ardente plenitudine dell’ora le davano un senso di dolcissima vertigine. All’ombra della semplice tesa di paglia nera, il suo volto s’illanguidiva in un’espressione di sofferenza: la sofferenza della gioia.
Mai, prima dell’amore di Fausto, ella era stata bella così. Ogni movimento rispondeva in lei alla grazia d’un’interna, felice armonia: e i piani e le linee e i colori del forte viso s’eran fusi in un culminante splendore di vitalità.
Un mantello a pieghe morbide, di raso nero a grandi risvolti grigio perla, avvolgeva la sua fluida snellezza sino alla magra caviglia, calzata di seta trasparente. Nulla ancora tradiva in lei l’età non più giovine. Ella era giovine perchè era amata ed amava.
— Dove siamo, Vera?... Come puoi aver perduta la memoria dei luoghi?... Sarai passata di qui, chi sa quante volte, con la tua cartella di scolaretta sotto il braccio. Ogni sasso dovrebbe avere per te una parola....
— Taci. Santa Barbara!...
Allo sboccar della via in una quieta piazzetta, un miracolo di bellezza s’offerse ai loro occhi.
Scesero.
Il tempio dominava lo spazio con la semplicità della facciata di puro stile lombardo: intagliato nell’azzurro, penetrato di sole, nel suo slancio alato pareva, più che una forma, un pensiero. Era piccolo, e sembrava immenso. I vani delle due snelle ogive laterali ridevan di cielo. Folta era l’erba, ed umile, e silenziosa, fra le pietre della piazzetta. L’onda del ricordo sopraffece la donna, le piegò il cuore verso la sua terra.
— Oh, nella chiesa c’è tanta frescura!... Ci venivo sempre, nelle ore meridiane in cui non v’era nessuno, dominata da un bisogno di raccoglimento mistico. Non pregavo: pensavo. La mia madonna!... La mia madonna dipinta a fresco, lunga lunga, con gli occhi obliqui, che regge il bambino Gesù con una mano che ha sei dita!... Vuoi che io t’offra l’acqua benedetta nella chiesa dove un giorno ho pensato di farmi suora missionaria?...
Nel riposante silenzio delle navate immerse in una nebbia violetta, fra colonnati coperti di preziosi affreschi alla maniera di Giotto, ella intinse la mano in una pila enorme, scavata in un solo blocco granitico; e volle inumidirne le dita di Fausto; ma egli portò quelle di lei alla bocca, per suggerne l’acqua benedetta, e l’amore.
Risollevata la pesante portiera di cuoio, di nuovo il sole li schiaffeggiò, la vibrazione del calore li rese ebri. Licenziarono la carrozza. Veronetta poteva ora servir da guida. Ritrovava, con piccoli gridi di gioia, le vie, i crocicchi, le fontane, i nomi che la memoria credeva perduti. Un’impazienza febbrile precipitava le sue parole, le rendeva volubili e mulinanti; e l’amico alimentava, incitava con sapiente volontà quel fremito, quel riso, quell’emozione che faceva di lei un solo palpito vivente.
— Così, così ti voglio. Hai quindici anni.
E il ponte sul fiume li accolse in trionfo. Gente vestita a festa passava e ripassava presso gli alti parapetti a spranghe di ferro: essi non videro alcuno, respirarono solitudine e spazio. La brezza del largo temperava l’afa pomeridiana, entrava, carezzevole, nei capelli e nei pori. Gusci di noce rapidissimi, canotti-frecce pieni di spalluti giovanotti seminudi, barche canore e lente solcavano le onde. Gioia animale della vita, negli esseri: vibrazioni innumerevoli di movimento e di splendore, nell’aria e nell’acqua.
Pianure verdi, grasse e morbide di pascoli, di là dal fiume apparivano anch’esse in trasparenza, sciolte dalla materialità del volume, fatte etere e luce.
— Tutto oggi si è liberato, Fausto: io e le cose. Sciolgo il voto. Ho passata la riva. Quel che ho sofferto non è più nulla. Lo scorgo in lontananza, simile a quelle isole verdi sospese fra due azzurri. Le lezioni a mezza lira l’una, la macchina Remington, la donna dalle matasse, il denaro vile e sporco.... Il denaro?... Fu l’incubo ossessionante della mia adolescenza. Si parava davanti a me, muraglia senza porte. Sibilava davanti a me con la lingua velenosa, mostro a sette code. Per passare — pensavo — debbo abbatterlo. Che follia!... Non era, no, il denaro in se stesso. Era il bisogno, che mi torceva dalla mia vera ragion di vivere, che mi disonorava costringendomi ad una fatica che non era in armonia col mio spirito. Quando potei aprirmi la strada, l’incubo svanì.
Rimase assorta, con quella sua caratteristica ruga scavata verticalmente fra le sopracciglia, con le forze del pensiero concentrate nella ricerca di una soluzione che mettesse in pace la sua coscienza; e tormentava intanto con la punta del parasole le due sbarre fra le quali, un giorno, la selvaggia bambina dai riccioli rossi era scivolata per guardar senza paura l’abisso.
— Non penso più al denaro. Non lo odio, nè lo amo. Non me ne accorgo. È un elemento naturale di vita, che viene a me, a te, come è naturale ch’io scriva romanzi e novelle, che tu difenda gli accusati in tribunale.... Ma difenderli è la tua gioia, scrivere è la mia gioia.... E poi, ci amiamo. Il denaro che c’entra?... Fausto!... Chi me l’avrebbe detto, quando attraversavo questo ponte ogni mattina per andare all’ufficio, malvestita, brutta, rasentando le spranghe come una gatta arruffata?... E mi rodevo nell’angoscia della miseria e non sapevo che sarebbe venuto l’amore, il tuo amore, Fausto!...
— Principessa Olivia — egli rise, inclinando verso di lei la testa leonina già canuta alle tempie, ma che s’illuminava di un radioso sorriso infantile. — Principessa Olivia, il principe Azzurro vi prega di accoglierlo nel giardino della vostra reggia.
— Benvenuto voi siate, signore — ella rispose, subitamente docile al fresco gioco.
E mossero verso la via del sogno. Il tempo col suo logorio, il mondo con le sue realtà era abolito. Ogni atomo intorno a loro rispondeva alla bellezza dell’illusione. Non era più vita, era musica.
Borgo Fiume: San Luca: via della Fontanella: una casa: un numero. Quella?... Sì; ma rimpicciolita: basso il portone vegliato da due cariatidi: buia la stanza del custode: trascurato, selvatico, in balìa di se stesso il giardino.
Incerti non rimasero che un attimo. Troppo bello era il gioco, per rinunziarvi. L’illusione riversò sulle cose invecchiate la sua allucinante copia di raggi.
— Principe Azzurro, benvenuto ne’ miei regni. Oh, non è questa la maga Tessiluna?...
Dal portico, una vecchia sdentata e quasi calva mosse loro penosamente incontro. Malgrado la maschera del decadimento senile, Veronetta la riconobbe.
— Maria Luisa, non si ricorda più di me? Sono la figlia di Anna Longhena, la tessitrice che è morta qui.
— Santissima vergine degli angioli!... Veronetta?... Veronetta Longhena?... Quella che se ne andò tanti anni or sono, e chi s’è visto s’è visto?... Ma è divenuta una gran donna, a quanto dicono: e il suo nome è stampato nei giornali. Gesù benedetto!... E questo bel signore è suo marito?... Sa, i mobili della povera Anna buon’anima, che lei lasciò qui, donna Carla li ha regalati a me.
— Donna Carla ha fatto benissimo. Ma qui non abita più nessuno?... Pare un convento di clausura.
— Sa, pasticci, dispiaceri: donna Ninna è sposata a Roma: gli altri, tutti in campagna. Il palazzo si venderà. Nel giardino crescono le ortiche....
— Possiamo andare, Maria Luisa, nel giardino?... e rivedere le mie stanze?...
— Certo che possono. Nelle stanze abita ora la mia Teresa, che è rimasta vedova e m’aiuta in portineria. Oggi è a passeggio perchè è domenica. Vuole la chiave?... eccola. Dio la benedica!... Pare una madonna.
La maga Tessiluna non aveva ancor voltate le curve spalle, che la principessa Olivia ed il principe Azzurro ritrovarono, intatta, la gioia della lucida finzione. E celebrarono la festa delle loro nozze fra gli alberi e le edere folli, pomposamente, come stava scritto nel libro.
Mancava la principessa Maria per reggere lo strascico della sposa; ma un intricato cespuglio di rosette gialle la sostituì. Morte erano le regali ortensie, morti i gladioli a lama di spada, gli ireos fierissimi color d’acciaio punteggiati di nero; ma piante selvatiche, arbusti spinosi, felci dentate si trasfigurarono, al tocco della bacchetta magica di Veronetta Longhena, in paggi, dame e cavalieri.
E l’uomo dalle tempie già grigie e la donna che stava per varcare il più alto limite della giovinezza ridevano come fanciulli. E il riso della donna aveva la pienezza, il calore, la musicalità delle cose intorno.
Un’ora da venti anni trascorsa si ripeteva intanto, identica, nel tempo. Calava il torrido tramonto. Un ultimo raggio di sole traeva sangue e porpora dai comignoli d’un tetto. Frenetico garrire di passeri veniva dall’ombra del pino turchiniccio. Rondini rondini rondini roteavano in cerchi di rapidità e di veemenza felice nell’azzurro, stridendo di amore e di ardore.
Non era salito un altro uomo, venti anni prima, in quella stessa ora, per quelle stesse scale, a fianco della piccola principessa?... Brutalità del maschio, brutalità di biglietti di banca gettati a tentazione sulla faccia, vergogna, sofferenza della quale ancora le rompeva le ossa la spasmodica contrattura: e che pure ella adesso benediceva.
L’ingiuria di Paolo Màspero, dandole l’aspro coraggio di avventurarsi sulla sua vera strada, aveva chiamato a lei, con le vittorie della volontà, l’amore di Fausto Mori.
Che altro ormai le restava da ottenere?...
Sulla soglia tacquero, pallidi. Parlavan le pareli, il balconcino di ferro, le pietre sconnesse del pavimento. Chiedevano a Veronetta:
— Sei tu?... — Ma ella era un’altra.
Fausto le prese il braccio, le bisbigliò all’orecchio:
— Ti amo. Non c’è che questo.
E il sogno floreale svanì.
Nelle stanze non più sue, ingombre di cose ignote, Veronetta non tentò nemmeno di ricostruire quel ch’era stato e non poteva più essere. Si sentì di carne, piegò su se stessa, si rannicchiò, piccola e trepida, nell’ombra del suo uomo. Non ricordava, non sapeva più nulla, fuor che di essere vivente in lui. E in lui parve voler penetrare, quasi non esistessero le barriere della materia. Fausto se la schiacciò tutta sul petto, le ferì la bocca con un bacio imperioso, la tenne come egli voleva, fanciulla e donna, col suo passato e il suo presente costretti in un fascio di fibre e di vene, offerto all’amore. Ed entrambi desiderarono di essere eterni, per essere sempre avvinti.
FINE.