< Le solitarie
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Mater admirabilis
L'appuntamento Il denaro

MATER ADMIRABILIS.

— Sono a buon punto le mie calze, Assunta?...

— Certo!... Guardi. Ho incominciato il calcagno della seconda, signorina.

— Che brava Assunta!... Un tesoro. Mi raccomando. L’ufficio del “Pronto Invio„ ha sempre fretta, e non dà tregua d’un giorno....

E la svelta personcina, impellicciata fino alla punta del naso impertinente, scomparve sotto l’androne.

— Assunta!... Vorrei mi terminasse lei un paio di ventriere di lana, da consegnare fra tre giorni alla “Pro-Esercito„. Può?...

— Per lei sempre, signorina. Oggi stesso finisco le calze per donna Eva Carminati: mi porti stasera la lana ed i ferri. O preferisce che salga io?...

— Figurarsi!... Le mando giù Carlotta. E grazie!... Finita la guerra le faremo un monumento di lana!...

La seconda personcina, modestissima in un mantello quasi monacale di buretta color caffè, stretto da un cordone alla cintura, scomparve anch’essa sotto l’androne.

Noncurante del freddo, Lucetto giocava nel piccolo cortile, col suo cavallo di legno. Brandiva un vecchio mestolo carpito a nonna Assunta: aveva inforcato il cavallo e gridava, movendo contro un esercito immaginario:

— Morte ai tedeschi!... Nonna, vieni a vedere!... Ne ho ammazzati cinquantacinque!...

Il perchè di quel cinquantacinque era misterioso. Per Lucetto quella cifra rappresentava il massimo, equivaleva al migliaio, al milione, al miliardo. Uccidere cinquantacinque tedeschi!... Era la guerra vinta, il nemico in rotta, il babbo di ritorno, senza una graffiatura e col petto tappezzato di medaglie d’oro e d’argento.

— Nonna!... Vieni dunque a vedere!... Sono tutti per terra e non si muovono più!...

Assunta non lo udiva nemmeno. Sferruzzava quieta quieta, nell’angolo più chiaro della portineria, sotto un raggio obliquo di luce invernale che le accarezzava la dirizzatura troppo larga dei capelli bianchi.

S’era alzata alle cinque, prima dell’alba: aveva aperto il portone, scopato le scale e l’atrio, rimesso in ordine il suo bugigattolo, lucidate le maniglie d’ottone, ricevuta e distribuita la posta; e preparato il caffè-latte per sè e pel bambino, che aveva sempre fame: che, appena sveglio, apriva il becco come gli uccelli di nido. Si erano, come al solito, impacciate e smarrite un poco, le sue mani lente di sessantenne, nell’infilare i vestiti al diavoletto che le sgusciava fra le dita, serpentino, una vera anguilla; nell’allacciargli i bottoni — e ne mancava sempre qualcuno. Ma il piccino era adorabile, di carni sode e candide, di cuore allegro e pieno d’amore per la sua nonna. E non parlava mai, neppur per isbaglio — guidato dall’infallibile istinto che è la sapienza dei bambini — della madre, fuggita tre mesi prima con un operaio di vent’anni più vecchio di lei (e dove i due si fossero rifugiati nessuno sapeva): sempre, invece, inesauribilmente, del babbo, da un anno in trincea, sul Carso.

Assunta aveva raccolto il fanciullo. Alla notizia della fuga di sua moglie, scrittagli dalla vecchia con trepidante circospezione, il soldato, dalla linea di combattimento, non aveva risposto che con poche asciutte parole, dietro le quali, forse, si barricava il suo vero stato d’animo:

“Cara madre, non vi date pensiero di me. Io sto benissimo e non ho in mente che di compiere il mio dovere e di uccidere i nostri nemici. Chi non mi vuole non mi merita. Vi raccomando il bambino. È così intelligente che potrà aiutarvi in portineria, per le piccole commissioni. Fategli dire tutte le sere un’avemaria per l’Italia e pel papà....„

L’Italia?... Il Paese?... Assunta non vi aveva mai pensato. Sapeva leggere quel poco che bastava per decifrare gli indirizzi delle lettere da consegnare agli inquilini, e gli scarabocchi di suo figlio dalla trincea; e scrivere in proporzione. L’Italia?...

Bisognava fosse una ben grande terra, un tesoro assai più ricco di quello della Madonna d’Oropa, se tanti bei giovanotti pieni di sangue sano e tanti uomini maturi già carichi di famiglia eran partiti allegramente per la guerra, cantando evviva a quel nome. E molti non sarebbero più tornati indietro: i giornali portavano intere colonne listate di nero: anche qualche compagno del suo figliuolo era rimasto lassù, e le madri e le vedove non avevan più lagrime per piangerli. — Per l’Italia. —

Non lavorava anche lei, un poco, per l’Italia, terminando umilmente, silenziosamente, tutte quelle calze di lana, quelle ventriere di lana, e caschi e colletti e gambali color di ferro e di ruggine, che la contessina del primo piano e la maestra comunale del terzo e le due sorelle del quarto, impiegate alla Banca di Sconto, incominciavan con ardente e rumoroso entusiasmo pei soldati alla fronte, e non riuscivano mai a finire?... Per Assunta, lavorar di maglia era come respirare: sembrava nata coi ferri da calza in mano: gli indumenti morbidi e caldi le si foggiavano in grembo, perfetti, come soffiati lì da un buono spirito di maga.

E pensava: qualcuno ne sarebbe forse giunto anche a suo figlio. E se non fosse?... Pazienza. Povere creature di mamma!... Tutti belli e cari ad un modo, tutti esposti all’ira di Dio delle tormente e degli acquazzoni, con le gambe nella neve o nel fango fino alle ginocchia.... Ah, se le madri fossero al governo!... Di guerra non se ne parlerebbe più....

Tic e tic, tic e tic, i lucidi ferri d’acciaio: tic e tac, tic e tac, il vecchio pendolo di legno posto sul caminetto, fra l’oleografia di Carmen e quella di Mignon. Non ha mai fatto altro che questo, non ha mai vissuto in altra stanza che in questa, l’umile donna insaccata nel giubbetto nero, curva nelle spalle non tanto per vecchiaia quanto per lunghissima consuetudine d’obbedienza e di rassegnazione?...

A tratti l’uscio a vetri si socchiude.

— È in casa il signor Cerri?...

— Secondo piano, uscio a destra.

— Ho un pacco per la signorina Fiorilli.

— Va bene. Lei non c’è; ma c’è la domestica. Quarto piano, uscio a sinistra.

— La posta.... Un telegramma....

— Va bene.

Un soldato entra: indossa la divisa grigio-verde: ha una carta in mano.

Assunta non capisce. Non capisce, perchè è proprio di lei che quel soldato domanda. È per lei, quella carta. Gliela mostra, gliela fa decifrare. Al Comando?... Sì, deve presentarsi, nella stessa giornata, al Comando Militare, per una notizia d’urgenza.

— lo?... ma come?... ma perchè?... mi spieghi....

Il soldato ha, invece, una gran fretta d’andarsene: lascia il foglio sul tavolo, mette la mano al berretto e scappa.

Assunta rimane sola nel bugigattolo. Il calzerotto le è caduto dalle mani tremanti. Anche le labbra tremano, e il mento fa un po’ di groppo. Non osa cercar di comprendere.

Verso le undici, esce. Lucetto è stato affidato alle cure d’una buona vicina, che farà le veci di Assunta nella portineria, fino al suo ritorno.

S’è fatta insegnare diligentemente la strada. Ha messo la sua più bella sciarpa, a frange, e i guanti di filo. È andata, è scomparsa dietro l’angolo. Oh, così piccola, così china verso terra, così niente!...

Tornerà presto: lo ha promesso a Lucetto, che tornerà presto e gli porterà due soldi di cioccolatini.

È di ritorno due ore dopo. Che mai ha potuto fare, per la città, tutto questo tempo?... La sciarpa nera a frange le nasconde quasi la faccia: quando la toglie, scopre una misera maschera di vecchiaia e di disfacimento. Gli occhi incassati, di un grigio d’acqua sporca, rossi agli orli, non vedono più. Hanno fissato qualcosa che li ha resi ciechi.

La buona vicina comprende, e non osa parlare in presenza del bambino: vorrebbe mandarlo in cortile con qualche pretesto; ma il piccoletto s’è aggrappato alle gambe di Assunta, e grida:

— Nonna, nonna, me li hai portati, i cioccolatini?...

Sì, glieli ha portati, la nonna. Cerca, cerca penosamente in tasca il cartoccetto, fin che lo trova; e il bimbo, senza neppure dir grazie, raggiante di gioia fugge in un angolo, per allineare davanti a sè i suoi tesori: rosso, verde, argento. La bandiera.... — Viva l’Italia!... —

Allora soltanto le due donne possono guardarsi in faccia. Le labbra di Assunta disegnano, più che non dicano, le parole che l’altra ha già lette sul suo volto:

— È morto.


Verso le cinque del pomeriggio (è già notte fitta, le lampadine elettriche fasciate di violetto immergono lo scalone in una penombra livida e quasi paurosa, un diaccio nevischio mulina nella via intorno ai fanali azzurri, solo nella chiusa portineria splende il faro giallo d’un becco a gas) la vecchia, come se nulla fosse avvenuto, prepara la cena su un fornelletto.

Il fanciullo ha fame e sonno: frigna, piagnucola, inquieto, stanco, attaccato alle sottane della nonna. Ha in cuore il papà, non sa parlare che del papà, vuole il papà.

— Nonna, quando il papà sarà tornato, avrà la medaglia anche lui, come l’ufficiale che va sempre a trovare la signora contessa?...

— Sì, caro.

— E se io ammazzo cinquantacinque tedeschi, tornerà presto il papà?...

— Sì, caro.

La pazienza della nonna non si affievolisce. Ella imbocca, cucchiaiata dopo cucchiaiata, il bambino pallido di stanchezza, che le lascia cadere la testolina su di una spalla: lo spoglia, lo mette nel suo lettuccio, gli fa con l’indice, sulla fronte, un segno di croce: come le altre sere, come domani, come sempre, sino a quando sarà più grande.

Poi si mette al tavolino, e, fra uno squillo e l’altro di campanello, fra una domanda e una risposta, e il passare e il ripassar della gente dinanzi alla vetrata (è la vetrata, o è un vertiginoso schermo cinematografico?...) sferruzza maglie di lana pei combattenti: come ieri, come domani, come sempre, sino alla fine della guerra.

Alle dieci, chiuderà il portone. All’alba, si alzerà per riaprirlo. Nulla nella sua vita è mutato. Solo, il suo figliuolo è morto: in poche ore, per lo scoppio d’una bomba, sul letto d’un ospedaluccio da campo. Ella non ha potuto nè vederlo, nè curarlo, nè benedirlo. Ma non ha il tempo di piangere, di abbandonarsi al dolore. Non ha mai avuto il tempo di piangere, nella vita: null’altro ha potuto, null’altro può che tacere, curvarsi, lavorare, lavorare, lavorare.

La sua testa di un giallo avorio, intorno alla quale ha annodato, in segno di lutto, un fazzoletto nero, rassomiglia, china così sulla lana e sui ferri, a certe teste di vecchie madonne che cullano sulle ginocchia Gesù Cristo morto.

Dove glielo avranno messo, il suo figliuolo?... Chi sa se sulla fossa avranno posta una croce, sia pur rozza e piccolissima, che ne segni il posto?... Quante, quante!... Tutte croci per figli di mamma. L’Italia, ora, per lei, non è che un grande camposanto nel quale il suo ragazzo sta sepolto con tanti altri.... Perchè, perchè?... Sì, ci deve essere un perchè, che una povera donnicciuola non comprende: un perchè ancor più grande di quel campo di morti. Se così non fosse, come farebbero tante madri a tacere?...

Gli ultimi cali della punta sono a termine, e il paio di calzerotti è finito. Assunta lo piega, lo mette accuratamente da parte. Poi prende fra mano la ventriera color di ruggine. Veglierà, stanotte, lavorando.

Una dolcezza che ella stessa non cerca di spiegare le viene da quest’atto di tacita rassegnazione, di attiva obbedienza alla forza superiore che l’ha premuta ma non fiaccata.

Ad una sola cosa non si rassegnerà.

Se un giorno la nuora le ricomparisse in portineria, con quel portamento spavaldo, con quello sguardo nero, con quella bocca sprezzante che il sorriso torce verso sinistra in una smorfia provocatrice che piace troppo agli uomini, — e pretendesse di portarsi via Lucetto, — Assunta si drizzerà tutta d’un pezzo sulla curva schiena, leverà con rigidezza inflessibile le pazienti mani, e dirà di no, di no, di no.

E il figlio di suo figlio dovrà restare con lei.

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