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Euripide - Le supplici (423 a.C. / 421 a. C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Le supplici (Euripide) Personaggi



Per intendere e valutare debitamente le Supplici, e, innanzi tutto, per formarsi un’idea adeguata dell’impressione che doverono suscitare sugli spettatori ateniesi, bisogna aver presente il momento in cui furono rappresentate.

Correva l’ottavo anno della guerra del Peloponneso, e gli Ateniesi, favoriti sino ad ora dalla fortuna, credettero giunta l’ora d’attaccar nuovamente i loro nemici della Grecia centrale. I piú pericolosi, in questo momento, erano i Beoti; e, contro i Beoti, nell’autunno del 424, Ippòcrate e Demostene sferrarono un attacco in grande stile. Ippòcrate, movendo da Oròpo, invase il territorio nemico di Tanagra, e qui, sulla costa del mare, di fronte ad Eretria dell’Eubea, occupò Delio, dove sorgeva un santuario d’Apollo, abbandonato da gran tempo. Ma, contro ogni previsione, gli Ateniesi furono sconfitti, lasciando sul campo lo stesso Ippòcrate, e un migliaio di soldati.

Mandarono allora un araldo, a richiedere i cadaveri dei loro caduti, per seppellirli. Ma i Beoti, sfoggiando ad un tratto una scrupolosissima religiosità, opposero che gli Ateniesi avevano per primi violati i diritti dei Numi, occupando, a fine di guerra, un santuario; e dichiararono che se prima non lo sgombrassero, non avrebbero restituite le salme. Cavilli: perché il santuario era, come dicemmo, abbandonato da lungo tempo, e sconsacrato; e perché presso i Greci, almeno nei tempi storici, anche nel piú furioso e selvaggio scatenamento delle passioni, nessun vincitore aveva mai poste condizioni per la restituzione dei cadaveri. Ma i Beoti tennero duro; e li restituirono solo diciassette giorni dopo, quando, in una seconda battaglia, ebbero sconfitti gli Ateniesi. E così, per diciassette giorni le salme rimasero abbandonate ed esposte alle fiere e alle intemperie. Tutti questi fatti sono esposti da Tucidide (IV, 97-101).

Da questi luttuosi eventi Euripide trasse ispirazione per le Supplici. Ma non seppe né volle, come pure avevano osato Frinico ed Eschilo, portar senz’altro sulla scena i veri avvenimenti; e preferí adombrarli in un fatto mitico, che li ricordava assai da vicino.

Narrava la leggenda che, dopo il vano attacco dei sette duci contro Tebe, i Tebani, vincitori, avevano anch’essi rifiutate le salme agli Argivi. Allora il re d’Argo, Adrasto, si era recato in Atene, a supplicare il re Tesèo. E qui la leggenda si biforcava. Secondo alcuni, Tesèo avrebbe indotti i Tebani con argomenti: secondo altri, li avrebbe costretti con la forza.

Eschilo, nei suoi Eleusini, avrebbe seguita la prima versione, Euripide la seconda: e a ciò, oltre che il desiderio di far cosa differente da Eschilo, dové certo indurlo il momento politico.

E s’intende bene con quale accorata partecipazione il popolo d’Atene dové seguire la rappresentazione di eventi che risalivano all’età mitica, ma che sembravano d’oggi. Quando sulla scena si videro giungere i miserandi avanzi degli eroi tebani, e le loro madri strapparsi i capelli, battersi il petto, lacerarsi le gote, fra alti ululi di doglia, e il re Adrasto levarsi a pronunciare il loro elogio, gli spettatori non pensarono piú di aver innanzi agli occhi eventi remoti ed estranei, ma videro gli stessi loro figli, i fratelli, gli amici miseramente caduti a Delio. Il ricordo dei diciassette giorni che eran rimasti ludibrio degli elementi e delle fiere, mordevano i cuori di doglia insostenibile. E a chi era bastato il cuore di raccoglierli? Tesèo stesso, l’eroe della patria, l’eroe che non muore neppure quando si strugge la sua carne mortale, ma vive eterno, onnipresente ai destini della patria, aveva prestato a quei miseri il doloroso ufficio. Ma che orrore, vederli cosí deturpati! Alle madri non bisognava mostrarli.

     adrasto
     Vuoi che le madri i figli non abbraccino?
     teseo
     Sfigurati cosí? Morte cadrebbero.

In una magica distruzione del tempo, il poeta aveva cosí immedesimato il passato ed il presente della sua patria. La gloria di quello era sicuro auspicio nella desolazione presente. E quali occhi poterono frenar le lagrime, se anche oggi noi, leggendo quelle tragiche scene, sentiamo un nodo serrarci la gola?

Ispirate a questa visione altissima ed austera, le Supplici le rimangono interamente subordinate. Infatti, se si prescinde da qualche dato esterno e non essenziale, si vede che qui mancano alcune delle note piú consuete e speciali del dramma euripideo.

Manca, per esempio, lo studio dei caratteri. Tesèo, Adrasto, Etra, son tipi eroici; ma non come Euripide soleva vedere e rappresentare gli eroi, ciascuno coi suoi segni specifici, in genere paradossali, e sovente antieroici. Sono figure generiche, e quasi verrebbe fatto di dire accademiche. Tutti d’un pezzo, senza nessuna di quelle macchie e di quelle incrinature che negli altri drammi ricordano ad ogni momento che gli eroi — e, verrebbe voglia d’aggiungere, i Numi — sono anch’essi di carne e d’ossa.

Cosí, d’intreccio neppur se ne parla. L’azione è perfettamente lineare, e consta essenzialmente di due grandi quadri: preghiera delle supplici a Teseo: arrivo delle salme e orazione d’Adrasto pei defunti.

Nel complesso, dunque, una grande composizione corale, di tipo eschileo; e protagonista vero, il coro delle supplici, come afferma già lo stesso titolo; e tutti gli altri elementi del dramma, in sua funzione, e subordinati.

Questo piano ideale e solenne, è in qualche modo alterato dall’episodio di Evadne. Tutti i critici osservano che è superfluo, e in qualche modo eterogeneo, perché il suo carattere, oltremodo dinamico, contrasta con la staticità delle scene che precedono.

Però, conviene osservare che nella realizzazione scenica questo carattere d’eterogeneità dové necessariamente riuscir molto attenuato, anzi sparire. Cerchiamo di visualizzare la scenografia, che qui si può raccogliere dal contesto con maggior larghezza che in altri drammi.

Al fondo della scena, il tempio di Demètra. Dinanzi al tempio, un’ara, e di fianco, elemento obbligato, un’alta rupe, che deve essere, come si direbbe oggi, praticabile, perché dalla sua cima Evàdne deve spiccare il salto fatale. Sotto questa rupe, verso il fine del dramma, i servi devono innalzare la pira di Capanèo.

Intorno all’ara, sono prostrate le madri dei sette duci, che gemono e si percuotono con le mani la testa e il petto. Ad un livello inferiore, lo stuolo delle ancelle, che fa riscontro, con lugubre simmetria, a quello delle madri.

Dinanzi alle supplici, si leva alta la veneranda figura di Etra. Alla porta del tempio, anch’egli miseramente supplice, il re Adrasto. D’intorno a lui, i figli dei caduti. E tutti reggono le bende e le palme dei supplici1.

Il quadro è opulento, pittoresco, meraviglioso, già considerato in sé stesso, nella sua staticità. Ora, cerchiamo di rappresentarcelo nei suoi movimenti, le modificazioni, gl’intrecci che assumeva nello svolgersi dell’azione: immaginiamo, per addurre un esempio, il momento in cui le vecchie madri si levano dal suolo, e, sostenute dalle ancelle, si trascinano innanzi a Teseo, per cadere, nuovamente prostrate, ai suoi piedi. E si vedrà che questi quadri, nella loro solennità e apparente staticità, sono pur suscettibili di effetti grandiosi e largamente dinamici. E altrettanto e piú si può dire dell’arrivo delle salme, quando le madri si cospargono il capo di polvere, si battono il petto, si lacerano le gote; e, dopo l’episodio di Evadne, il ritorno dei figli degli eroi, che portano ciascuno l’urna con le ceneri del padre.

Voglio concludere che, in mezzo a questi quadri che nella realizzazione scenica debbono risultare cosí pittoreschi, grandiosi ed efficaci, l’episodio di Evadne non giunge come alcunché di eterogeneo. È assai piú violento. Ma, poiché non turba l’unità di stile, senza la quale nessuna opera d’arte ascende mai troppo alto, risulta pienamente legittimo. E incensurabile è l’architettura del dramma: dove, a due grandi tempi calmi e solenni, ne succede un terzo tutto impeto e furia. È concepito nel medesimo spirito per cui, nella secolare formazione della sinfonia, si stabilisce quasi canonico il principio che l’ultimo tempo deve superare i precedenti per velocità e slancio.

La connessione delle Supplici al momento politico è resa piú stretta dalle digressioni e le allusioni, che in questa tragedia non rimangono sporadiche ed occasionali, come in quasi tutte le altre, ma, come sono piú fitte ed insistenti, cosí sembrano conglobarsi, con una intenzione e un fine evidenti, a formare un sistema. Vediamole un po’ da vicino.

Appena arriva l’araldo degli Argivi, e saluta Tesèo col nome di re, l’eroe si risente di tale qualificazione, e, con un discorso che per il nostro sentimento non può non avere un senso ironico, e che d’altronde è anacronistico, gli ricorda che Atene è retta a democrazia. Ma anche piú strano è che le sue argomentazioni sono un tessuto di luoghi comuni, bizzarramente intempestivi; e quelle dell’araldo, che è l’unico personaggio odioso della tragedia, e doppiamente antipatico ad Euripide per la sua duplice qualità di argivo e di araldo, sono quanto mai precise, efficaci, appropriate al momento politico. Proprio in quegli anni spadroneggiava in Atene il demagogo Cleone. Ora si osservino, nel primo episodio dei Cavalieri di Aristofane, i colori con cui lo dipinge il poeta comico, e si confrontino con quelli che adopera l’araldo in queste Supplici, per dipingere il prototipo del demagogo; e si vedrà che si corrispondono, ad uno ad uno, esattissimamente. Tranne che quanto in Aristofane è esposto in forma paradossale e sarcastica, qui è affermato con serietà appassionata. «Come mai» — dice l’araldo —

           potrebbe il popolo,
          che guidare non sa neppure il proprio
          razïocinio, reggere lo stato?

Dice ancora:

           Malanno grande
          è per gli onesti, quando un uomo tristo
          e venuto dal nulla, acquista credito,
          e con le ciance sue suborna il popolo.

«L’arruffapopolo» — séguita —

           a ciance eccita il popolo,
          per proprio lucro, e qua e là lo volge
          Tutti miele, costor, tutti lusinghe
          son pria, che in danni poscia si convertono.
          E con nuove calunnie allor nascondono
          gli antichi falli, e alla giustizia sfuggono.

Ora, Tesèo ha un bel contraddire, a difesa della democrazia: gli spettatori sentivano che le parole dell’araldo tebano erano sacrosante, sentivano, come noi sentiamo, perché il tòno fa la musica, che esse sgorgavano dal cuore del poeta, e che questi le poneva in bocca ad un personaggio antipatico, per non prender di petto — non era Aristofane — l’ombrosa democrazia dominante. Se su questo punto permanesse un sol dubbio, dovrebbe svanire quando, non piú l’araldo dei Tebani, il nemico d’Atene, bensí l’araldo degli Argivi, narrando come Teseo, vinti i Tebani, trattenne i suoi soldati, che volevano saccheggiare Tebe, soggiungeva:

          Un tale duce eleggere bisogna
          che nei perigli è valoroso, e aborre
          il vulgo senza fren, che, quando prospera
          volge la sorte, per brama d’ascendere
          ai sommi gradi della scala, strugge
          anche quel bene onde gioir poteva.

Mi sembra proprio che non ci sia da rimaner perplessi: qui si stigmatizza Cleone, che, qualche anno prima, nell’assemblea del popolo, aveva fatta la proposta che si sterminassero tutti i Mitilesi: proposta, che, accettata in un primo momento, fu poi revocata, a minor disdoro d’Atene e dell’umanità.

Ma non in questo antidemagogismo si esaurisce l’atteggiamento politico di Euripide nelle Supplici. In piú luoghi del dramma, per bocca di questo o quel personaggio, lo sentiamo far professione di pacifismo. «O miseri uomini» — dice Adrasto —

          perché l’armi impugnate, e gli uni agli altri
          morte infliggete? Or desistete, bastino
          questi travagli, e le città reggete
          in pace, e pace abbiano gli altri.

E altrove:

          E voi, città, che i vostri guai potreste
          con le parole superare, e invece
          non le parole, ma le stragi usate
          a sciogliere i contrasti.

E l’araldo tebano afferma che

          alle Muse la pace è dilettissima,
          odïosa alle Furie, e l’opulenza

          ama e i pargoli belli; e noi gittiamo
          tal bene, o stolti, e la ragion di forza
          e la guerra eleggiamo, onde asserviti
          son lo stato allo stato, e l’uomo all’uomo.

Nessun dubbio, che queste parole rispecchino il sentimento del poeta: ed anche qui è da rilevare la sua concordanza col nemico Aristofane; concordanza che talora si estende — come nell’ultimo brano citato — alle immagini e alle parole.

Ma c’è poi un’altra nota, che, cosí alla bella prima, sembra discordare col pacifismo. Tesèo predica la pace, ma, in sostanza, fa la guerra. E il principio dell’intervento è come teorizzato da Etra, nelle parole che essa rivolge al figlio esitante ad assumere il patrocinio delle supplici madri.

           O figlio, no,
          questo non fare: la tua patria vedi
          che sconsigliata sia qualcun l’offende;
          ma con che fiero piglio essa squadrare
          sa chi l’oltraggia! E trova nel pericolo
          la sua grandezza. Invece, le città
          che nella calma oscuramente vivono,
          velato anche lo sguardo hanno di tènebre
          per la loro prudenza.

Naturalmente, la contraddizione esiste solo in apparenza. Euripide, mente quadrata, sente che all’infuori della devozione alla patria non esiste salute, e ad essa subordina ogni altro interesse, ogni altra idealità. Ma sente anche, con tutta la sua sensibilità di poeta, gli orrori della guerra, e, specialmente, sente fratricida la guerra che per tutta la Grecia spingeva i fratelli contro i fratelli.

Dunque, antidemocrazia, sentimento esasperato della dignità civile e dell’amor patrio, aborrimento della guerra fraterna che funestava la Grecia: le medesime tre note dominanti nello spirito di Aristofane. La passione letteraria separava, in feroce dissidio, il poeta comico e il tragediografo; ma il nostro sentimento vede agevolmente anche Euripide nel consesso dei grandi spiriti che Platone adunò per celebrare la vittoria del giovinetto Agatone, e in cui pose Socrate, senza contrasto, vicino al suo persecutore Aristofane.

E in questo dramma Euripide ci appare in veste anche piú strana ed inattesa: di ottimista. Tesèo, al principio della sua competizione con Adrasto, dice:

          Con altri già contesi, per difendere
          un mio concetto, e faticai. La somma
          dei mali, alcun dicea, per l’uomo supera
          quella dei beni; ma credenza io nutro
          contraria ad essi: nelle umane cose
          stimo che il ben soverchi il male: l’uomo,
          se non fosse cosí, viver potrebbe?

Anche qui, si sente che per bocca di Teseo, parla il poeta. Evidentemente, quando scrisse questo dramma, Euripide era pervaso da una vena di ottimismo. Serve a provarlo anche il fatto che i personaggi, uno per uno, sono tutti simpatici. Non suole accadere, nei drammi d’Euripide. E lo stesso araldo, che fa la parte del tiranno, dice cose giustissime e giudiziosissime, e, in sostanza, non riusciamo a veder di cattivo occhio neanche lui.

Scoprire la causa di tale atteggiamento, non è facile. È ovvia l’idea di ricercarla in qualche fatto della sua vita privata; ma in quale, sarebbe impossibile precisarlo, e le congetture potrebbero essere molte ed inutili. Tuttavia, mi sembra interessante rilevare questa tregua di Dio nell’amara vita del poeta, e proprio in un momento cosí infausto per la patria.

E questo è uno dei tratti piú interessanti e caratteristici delle Supplici. Fra le grandi linee eschilèe, che sembrano a prima vista sollevarci in una sfera superiore, interamente obiettiva, e aliena da ogni interferenza personale, è nascosto un ritratto singolarmente preciso ed intimo di Euripide uomo. D’un Euripide alieno da ogni scetticismo e da ogni amarezza, e che ai problemi civili consacra una passione ardente ed attiva. D’un Euripide ben differente dallo scettico apolitico che ci descrive la tradizione, e che, indiscutibilmente, risulta dalla maggior parte degli altri drammi.

Forse, del piú vero Euripide.


  1. Dal monologo di Etra si rileva che con questo quadro scenico si apriva l’azione. Ma quando era stata occupata la scena, se non c’era velario? Prima che entrassero gli spettatori? Non è verisimile. Dinanzi ai loro occhi? Non se ne vede il come. Per conto mio, non saprei concludere se non con un interrogativo.

Note

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