< Le supplici (Euripide)
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Euripide - Le supplici (423 a.C. / 421 a. C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1928)
Quarto episodio
Terzo stasimo Quarto stasimo


teseo
Interrogar, mentre lamenti alzavi
per le schiere perdute, avrei bramato;
ma freno posi alle parole; e interrogo
adesso Adrasto. Come mai costoro
tanto per il coraggio insigni furono
fra i mortali? Tu dillo a questi giovani
atenïesi, ché tu ben lo sai,
ché sei facondo. L’ardimento ond’essi
prender Tebe credean, lo vidi, piú
che non si dica, fu grande. Una sola
cosa non chiederò, per non far ridere
a le mie spalle: contro chi ciascuno
d’essi stie’ nella pugna, e da che mano
il colpo s’ebbe che l’uccise. Fatui
sono tali discorsi, a farli, a intenderli;
come di chi nella battaglia, quando
fitte dinanzi a lui volano l’aste,
dire vi sa precisamente chi
si comportò da valoroso. Simili
particolari non saprei richiederli,
né se qualcun narrarli ardisse, crederli.

Chi sta di fronte agl’inimici, appena
quello che giova a lui potrà distinguere.
adrasto
Ascolta allor: ché pronunciar m’è caro
l’elogio che m’affidi; e il vero e il giusto
m’udrai parlare degli amici miei.
Vedi costui trafitto da un alato
impetuoso dardo? È Capanèo.
Molto ricco egli fu; ma non mai gonfio
di sue ricchezze, né superbo piú
d’un poverello. Ed aborria chi troppo
la mensa impingua, e sprezza il viver parco.
Il ben, soleva dire ei, non consiste
nell’impinzare l’epa; e il poco basta.
Ed amico sincero era agli amici
presenti ed agli assenti, e non ne trovi
molti, fatti cosí, senza menzogna.
Labbro a benignità pronto; e parola
ai suoi concittadini, ai suoi famigli
non diede mai, che poi non la compiesse.
Or del secondo parlo, Etèocle. Furono
altre le doti sue. Negli anni giovani
visse in povero stato, e molti onori
in Argo riscoteva. Ed oro spesso
gli offrian gli amici; ed egli, in casa accoglierlo
non volle mai, ché poi, costretto al giogo
delle ricchezze, non rendesse schiavi
i suoi costumi; e non Argo, ma quanti
fallivano, odïava; e non ha colpa,
diceva una città, per la tristizia

di chi la regge; e pur n’ha mala fama.
Ippomedonte è il terzo. Ei, da fanciullo,
subito rinunciò con fermo cuore
delle Muse ai piaceri, al viver molle.
E pei campi abitando, esercitandosi
a dura disciplina, e compiacendosi
d’ogni opera viril, cacciando fiere,
agitando cavalli, archi tendendo,
rendeva alla sua patria utile il corpo.
È d’Atalanta cacciatrice il figlio
l’altro, Partenopèo, che fu garzone
bellissimo di membra. Era d’Arcadia;
ma su l’Inaco venne, ed allevato
in Argo fu. Qui fu nutrito, e mai,
come s’addice agli ospiti, non fu
oggetto d’ombra o di fastidio, mai
le liti non amò, che inviso rendono
piú d’ogni cosa il cittadino e l’ospite.
Parte facea di nostre schiere, come
fosse un argivo, e difendea la patria.
E, se fortuna ci arridea, gioiva,
nei tristi eventi era crucciato. Molti
per lui d’amore ardeano, e maschi e femmine:
solo ei badava a non cadere in fallo.
Con brevi motti di Tidèo farò
un grande elogio. Insigne egli non fu
per l’eloquenza: la sua gran dottrina
era nell’armi; e qui molte scoperte
ingegnose faceva. A Meleagro
fratello suo cedea per senno; ma
nell’arte della lancia uguale nome
s’era formato; ché sottile artefice
era, ed era lo scudo la sua cétera.

Cuore vago d’onor; ma la sua mira
volgeva ai fatti, e non alle parole.
Or che ho parlato, non meravigliare,
Tesèo, se questi innanzi a Tebe ardirono
affrontare la morte. Egregi sensi
l’esser cresciuto a egregia scuola ispira.
Chi crebbe a nobili opere, si pèrita
di mostrarsi codardo: anche il coraggio
s’insegna: ascolta il pargolo, ed apprende
quello che ignora; e quanto allor s’apprende,
poi si mantiene sino ai piú tardi anni.
Dunque, bene educar conviene i figli.
coro
Il vitale alimento,
figlio, io t’ho dato, misera,
in grembo io t’ho portato, io delle doglie
ho patito il tormento.
E adesso, l’Ade accoglie
le mie fatiche, o povera
me, né mi resta chi sostegno dia
alla vecchiaia mia.
teseo
Il figlio d’Oïclèo1 prode, nei bàratri
del suolo, vivo ancor gli Dei rapirono
con la quadriga, e assai d’onor gli fecero.
D’Edípo il figlio, Poliníce, dico,
esaltar lo potrei senza menzogna,
ch’egli ospite mi fu, pria che partisse

da Tebe, volontario esule, e ad Argo
fuggisse. Or, sai che vo’ far di costoro?
adrasto
Sola una cosa io so bene: ubbidirti.
teseo
Capanèo, che colpito fu da Giove...
adrasto
Vuoi, come sacro, seppellirlo a parte?
teseo
Appunto. E gli altri tutti in un sol rogo.
adrasto
Dove porrai questo solingo tumulo?
teseo
Qui sorgerà, vicino a questo tempio.
adrasto
Tale fatica ai servi spetterà.

teseo
Ma questi a noi: s’appressino le salme.
adrasto
Presso ai figli venite, o madri misere,
teseo
Non sono, o Adrasto, i tuoi detti opportuni.
adrasto
Vuoi che le madri i figli non abbraccino?
teseo
Sfigurati cosí? Morte cadrebbero.
adrasto
Sí: piaghe e sangue sono amara vista.
teseo
Perché vuoi dunque la lor doglia accrescere?
adrasto
Hai vinto. E a voi con pazïenza attendere
conviene: ché Teseo bene ha parlato.

Quando li avrem posti sul rogo, allora
l’ossa raccoglierete. O miseri uomini,
perché l’armi impugnate, e gli uni agli altri
morte infliggete? Or desistete, bastino
questi travagli, e le città reggete
in pace, e pace abbiano gli altri. Il termine
di vita è breve, e meglio vai trascorrerlo
senza crucci, affrontarlo agevolmente.


  1. [p. 300 modifica]Il figlio d’Oicleo è l’augure Anfiarao, che non voleva seguire Adrasto alla guerra di Tebe, prevedendone l’infelice esito. Indotto dalle lusinghe della moglie Erifile a parteciparvi, fu inghiottito in un baratro che il fulmine di Giove aprí sulla sua fuga, sottraendolo cosí a morte ignominiosa.

Note

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