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L’ALTRA.
A Diego Angeli.
L’altra
Paolo Giustoli aveva promesso di raggiungermi al Bauer verso le otto ed eran già le otto e mezza. Egli conosce tutti e tutto di tutti, cosicchè tra amici e amiche e amiche dei suoi amici mezz’ora dopo il suo arrivo in una città, anche se prima ha giurato di non voler vedere nessuno, egli è fermato da cinque o sei persone, invitato a colazione, a pranzo, in carrozza, in villa, interrogato su tutti gli altri amici comuni, sul sarto che gli ha fatto quell’abito e sull’amante che di recente ha tradito un suo amico celebre. Egli ha ormai un repertorio di sorrisi e di frasi acconce a tutti i casi, anche a quelli nei quali egli non si rammenta nè il nome, nè gli amori di chi con sorriso largo e braccia aperte viene a incontrarlo; egli chiama quelle cerimonie ambigue e prudenti che permettono e non promettono, i sorrisi en tout cas a simiglianza degli ombrelli atti a parare il sole o la pioggia. Così di tutte le città d’Italia e di molte città eleganti di Francia, d’Austria e di Germania egli conosce più gli abitanti che i monumenti o le idee, e a qualche mia domanda curiosa risponde:
— Amico mio, lo sai: a furia di conoscere tutte le persone, ho dimenticato di conoscere una sola cosa.
Dunque io aspettavo pazientemente al Bauer sicuro che qualche ignoto si era preso Paolo Giustoli, il mio prezioso e inesauribile narratore.
Eravamo agli ultimi di ottobre e Venezia era piena di stormi di stranieri discesi allora allora dall’Alpe a correr con piedi veloci e occhi chiusi l’Italia. Il Bauer aveva già chiuso le vetrate per una nebbia pigra e umida caduta verso sera su la laguna improvvisamente, come un velario; ma dentro l’ampia sala era una nebbia di fumo più torpida e fastidiosa.
I piccoli camerieri tedeschi correvano reggendo i cinque regolamentari schoppen per mano; accanto a me un pingue tedesco dalla barba biondastra ispida, dagli occhiali d’oro, e dal cappelluccio verdognolo buffo ornato dietro da un’ala di gallo selvatico, beveva birra e fumava con bell’aria di ebete felicità; dall’altro lato alcuni veneziani nel dialetto garbato dicevano lietamente male di qualcuno, ridendo poco, precisando più e più le malignità come una matrigna che pizzichi con metodo le braccie del piccolo figliastro. Ma soprattutto mi occupava una giovine che sedeva dall’altro lato della sala, di faccia a me.
Era abbigliata con un’eleganza troppo accurata, troppo francese, di nero e lilla e teneva, rovesciata sulla sedia dietro le spalle, una cappa di lontra foderata di raso bianco e nero. Parlava col compagno, un biondo magro e impomatato, con la lente senza laccio e il volto senza significato, e parlando gli rideva e non gli guardava, mostrando i denti belli e battendo quasi sopra pensiero la palma della mano sul tavolino, ritmicamente.
Erano alla fine del pranzo ed ella sorseggiava un kümmel e anche fumava una sigaretta. Una volta o due, senza curiosità, con l’occhialino scrutò attorno attorno la sala stringendo le palpebre come per acuir la vista contro il fumo greve.
Io ero assorto nella contemplazione quando vidi sedermisi incontro Paolo Giustoli che si scusava del ritardo.
— Ho fatto una visitina alla Samueli, sai? la moglie del deputato ebreo, quello che si fece mobiliare tutto il palazzo sul Canal grande da Guggenheim, sperando che la regina andasse a una sua festa l’altro maggio, e invece la regina partì per Racconigi tre ore prima, quando già i servi, accendevano i lumi. Poi sono andato da Churchill, quel pittore americano di Rio Marina, il quale dipinge le rose che gli dipinge un povero scolaro dell’Accademia. Poi....
— Basta. Mangi?
— Mangio – e si volse a chiamare il cameriere: – Came....
Fece un salto su la sedia, si rivolse a me, si lustrò gli occhiali, si rivoltò di sghembo verso l’ignota vestita di lilla e nero, poi tornò a guardarmi fisso, quasi risoluto a non muoversi più per timore di chi sa quali terribili eventi:
— L’hai vista?
— Chi?
— La contessa Barchi.
— E chi è?
— Quella di faccia a te, in lilla e nero.
— Bellissima! E con chi è?
Giustoli ancora si voltò di sghembo poi tornò a me:
— Lui è di Milano. Non so chi sia, ma te lo dico subito, – e si alzò e andò a due tavolini di distanza a parlottare con alcuni giovanotti eleganti che bevevano tè. Ancora tornò:
— È il tenente di Vara, che l’altr’anno lasciò il reggimento per debiti e adesso vive a Montecarlo. Lei adesso fa bella vita. Sembra una cosa impossibile. Me l’avevano detto ma, dopo la catastrofe, non la avevo incontrata mai. Con un marito così giovane, così ricco, così intelligente....
Sentivo il bell’aneddoto:
— Racconta, racconta.
— Ma devo anche mangiare.
— Mangia e racconta, e metti molta senape nel roastbeef e nella narrazione.
E dopo due bocconi di carne e un sorso di Gratz, cominciò:
— Lei è di Milano, figlia della marchesa di Pianoro, di cui si narrava che Napoleone III....
— Non ti distrarre. Va innanzi.
— No per dirti che l’ha nel sangue.... Dunque lei sposò, a diciannove anni, quattro anni fa, il mio amico intimo...
Io sapevo che tutti erano «amici intimi» pel buon Giustoli collezionista di amicizie.
— Il mio amico intimo Giangiacomo Barchi, sai, i Barchi di Stresa....
— So, so. Avanti.
— Barchi da quattro anni aveva una passione continua....
— C’è contraddizione tra aggettivo e sostantivo.
— Adesso m’interrompi tu. Dunque, diremo, era legato con la Nina Salvi, quella bruna che era stata attrice.....
— So, so.
— Un bel giorno, abbasso Nina, evviva la Pianoro. Com’era venuto il passamano? Restò un mistero per tutti. La Nina se ne accorò poco e partì per la Baviera con Von Stiehle, quello rosso macchiato dal vaiolo....
— So, so, avanti.
— E i due si sposarono: una coppia più bella non la avevo veduta mai. Anche la Corte mandò un dono alla sposa....
— Ricordi di Napoleone III....
— Appunto.... e i due partirono per Stresa. Qui venne la crisi. La contessa era innamorata di suo marito, e fiera di averlo tolto pubblicamente e rapidamente a quell’altra che ella conosceva di vista e di fama. Ma nella villa solitaria il trionfo era poco soddisfacente ed ella cominciò ad essere gelosa del passato. Per quanto, come figlia di tanta madre e come signorina elegante, ella anche prima di entrare in chiesa sapesse il rito della messa, dall’Introibo all’Ite missa est, pure la realtà la scosse e la appassionò più di ogni previsione: ed ella si sapeva e si sentiva inesperta e forse sciocca in confronto a quella Nina del passato. A Giangiacomo non rivelò lì per lì i suoi tormenti, ma fiduciosa cercò di entrare in gara con l’antica amante di lui.
— Come lo sai?
— Lo supposi una volta che col Barchi e con altri facemmo nell’estate di quel primo anno un’ascensione al Monte Mottarone da Gignese; egli aveva quel tal soffio rapido e quel tal pallore che non inganna. Sua moglie poi già si atteggiava a Nina....
— Infatti adesso guardandola m’accorgo della somiglianza.
— Una somiglianza acquistata giorno per giorno, mossa per mossa, parola per parola, per amor del marito. Il fatto si è che una mattina Giangiacomo si accorse che sua moglie si tingeva gli occhi, e ne sorse una lite violenta nella quale la povera contessa per coprirsi scoprì il suo segreto. Giangiacomo rise, e tutto fini lì. Qualche tempo dopo egli trovò nello scrittoio di sua moglie dieci fotografie della Nina e le sequestrò, e la contessa urlò dicendo che egli se le prendeva perchè egli amava ancora Nina. Un po’ più tardi (già eran tornati a Milano per l’inverno) ella cominciò a ordinarsi la biancheria e gli abiti da certi fornitori di Parigi che Giangiacomo conosceva bene per aver loro pagati in altri tempi conti interminabili per la Nina. Nell’inverno questa venne a Milano per un mese e la si vide sempre attorno con un ufficiale di cavalleria Foggia che sarebbe poi quel di Vara che è là con lei; e la contessa al teatro, al passeggio, nei negozi sempre era pronta a guardare, a osservare, a studiare, a imitare la Nina. Giangiacomo, che allora ci rideva, una volta domandò alla moglie: – Se l’imiti tanto, la invidii forse? – E la moglie pianse tanto e giurò che egli non la amava più, che egli amava sempre la Nina che ella non sapeva farlo contento, che il pensiero e il desiderio della Nina era sempre tra lui e lei. E non si accorgeva che era lei a ficcarcelo. La Nina finalmente partì non senza essersi molto divertita (piccola vendetta di tanti torti) alle spalle di quella sua onesta imitatrice; e il tenente di Vara restò e come amico di Giangiacomo cominciò a frequentare casa Barchi nel bel periodo dei divertimenti milanesi, tra marzo e maggio. Allora si vociferava anche che Giangiacomo con l’aiuto di lui fosse riuscito ad allontanare la Nina di Milano con la speranza di calmare la mimomania della moglie. In fondo in fondo certi ardori di costei non gli dispiacevano e, quando ella un bel giorno timidamente gli si presentò tutta profumata con l’odore preferito da quell’altra, egli tacque lusingato e incendiato dalla fiamma dei ricordi e della presenza. Il culmine di quella ascensione....
— O meglio il fondo di quel precipizio.
— Scusa, tu sai che per me la donna modello, la donna col D maiuscolo è la donna libera. Anche perchè nella scelta è più severa, poichè non si dà soltanto per amore. Ma seguitiamo. Il culmine all’ascensione fu raggiunto quando Barchi, che era andato per affari a Stresa, si vide arrivare una lettera della moglie scritta con l’inchiostro rosso, con cui scriveva la Nina e con una calligrafia simile. Tace, torna a Milano, fruga nella camera della moglie e trova tutto un pacco di lettere della Nina indirizzate a lui ai bei tempi e restituitele poco prima del fidanzamento. Chi le aveva procurate alla contessa? Egli ancóra non osava sgridarla severamente, frenarla, punirla, un po’ per la fatuità di ogni uomo troppo amato, un po’ per quell’ingenua aria di sua moglie che a ogni nuova imitazione arrossiva e cercava sorprendere in lui la maggior vampa dell’affetto. Ma quando trovò anche alcune lettere della Nina al tenente di Vara, scoppiò. La contessa fu mandata, sola, a Stresa; il tenente non comparve più a casa Barchi. Ma la manìa della contessa cresceva e la catastrofe avvenne l’altro inverno quando una sera Giangiacomo sorprese a casa sua la moglie troppo vicina al tenente di Vara. Si batterono; di Vara fu ferito e un po’ per quello scandalo, un po’ per i troppi debiti fu pregato di lasciare il reggimento. Anche lasciò Milano, ma prima divulgò il grido che la contessa sorpresa in quella somma imitazione della Nina aveva lanciato al marito con una ingenua tenerezza ineffabile: «E pensare che io lo facevo per farti più contento, dopo.»
— Ma tu come sai tutte queste cose?
— Le so un po’ dallo stesso Barchi, un po’ da di Vara, un po’ da una amica della contessa; un po’....
— Basta, per carità.
Paolo Giustoli si voltò ancora senza fissare la coppia e tornò a dirmi sottovoce:
— Guarda. Ella ha lasciato cadere una scarpetta e tiene sotto le vesti il piede libero.
Io verificai.
— Era un’abitudine di Nina Salvi.
Ma i due lo avevano visto e lo fissavano, e io lo avvertii così che egli si alzò e andò a salutarli brevemente. Quando si sedette nuovamente davanti a me (i due si avviavano per uscire) mi narrò ancora:
— Sai? Io per prova le ho detto: «Contessa, non vi avevo riconosciuta.» Ed ella súbito ha soggiunto ansiosa: «Per chi mi avete presa?»
— Dovevi rispondere: «Per Nina Salvi.»
— Eh lo so! Ma era impossibile. Sono amico intimo del marito.