< Le vie del peccato
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Villeggiatura
Sei verità La scelta

VILLEGGIATURA.

A Mario Morasso.

Villeggiatura — Quando arriverà? — Alle cinque. Il treno giunge alla stazione di Spoleto alle quattro: così egli sarà qui verso le cinque. Il cavallo di Lorenzo trotta poco. — Perchè gli hai mandato Lorenzo? Non potevi scegliere un altro vetturino? Dopo tutto... arriva un forestiero, e con questa canicola... — Come sei tenera per questo ignoto! – e il marito, un giovane grosso giallo bolso, in maniche di camicia cominciò a tormentarsi i due esili baffi biondi spioventi. Anna divagò: — Vuoi il caffè? — No. Voglio riposare. Dammi un mezzo toscano. Lo trovi nel taschino della giacca, in anticamera, sul canapè di paglia. Anna uscì. Oreste si versò un ultimo bicchiere di vin bianco; scelse su la mensa scomposta pel desinare appena finito un pezzo di pane fresco e lo mangiò dopo averlo immerso nel vino; poi borbottò: – Qui si soffoca... – e si rimboccò le maniche della camicia fino al gomito e si sbottonò la goletta. Attese un attimo, poi impaziente chiamò: — Anna, ci vuol tanto tempo per trovare un sigaro? La moglie rientrò rossa in viso, ansimando. Era grassa e bassa, ma giovane e rosea. Oreste accese il sigaro, Anna restò a fissare su la tavola un bicchiere che scintillava. Quando il sigaro fu acceso, Oreste andò sul sofà, si adagiò tutto lungo comodamente, e, pure aspirando le prime boccate di fumo, senza guardare la moglie, ripetè: — Dunque il forestiero arriva alle cinque. Spiegamoci bene. Anna taceva, fissando il bicchiere che scintillava sulla tovaglia bianca. Oreste voltò un poco la testa così da scorgere lei di traverso: — Anna, stammi a sentire. Non t’addormir su la tavola. Vogliamo andare a letto? — No – rispose Anna recisamente. — Dunque, ascolta bene. Il forestiero andrà subito al villino. Io spero che non verrà a farci una visita perchè mi voglio godere questi due giorni di riposo, in pace perfetta. Egli è un pittore: almeno ci ha detto così quando è venuto. Te lo rammenti anche tu. Anna, di’, te lo rammenti? Rispondi. Ma a che pensi? — Sì, me lo rammento. Ha detto: «Io vengo qui per dipingere; non andrò nemmeno in città.» — Tu ti ricordi tutte le parole di lui. Hai una memoria troppo buona. Basta, tiriamo innanzi. Ha detto che avrebbe con sè un amico, forse... — Sì, è vero. — Dunque, egli andrà a dipingere, ma l’amico sarà libero. Fino a che sono qua io, niente paura. Ma, quando domani sarò tornato a Spoleto, tu devi aver ben cura di te stessa. — Io? — Io, forse? Vuoi che facciano la corte a me? — E credi che la facciano a me? Già sei geloso di questi due? E non ne abbiamo visto che uno solo per due ore sole! — Eh, non si sa mai! In campagna, soli, per passatempo son capaci di far la corte anche a te. — Come «anche a me»? È vero che vengono da Roma, ma dopo tutto non son mica un mostro. — Bene. Vedi che tu già speri... Insomma, patti chiari. Quei due, quando non ci sono io, non dovranno mai entrare qui, mai. Capisci? Quando ci sarò io, vedremo. — Ma come farò se verranno a chieder di me? Il villino è distante appena cento metri. A un miglio di distanza non ci sono che dei contadini. — E lasciali coi contadini! Non vengono qui per dipingere i contadini? Se ci avessi pensato prima non avrei affittato il villino a un pittore qualunque... — Pure te l’ha pagato bene. — E in gran parte il danaro l’hai preso tu, per gli abiti di estate. — Grandi cose! Cento lire per tre abiti di percalle! — Va bene. Li disprezzi? Allora ti proibisco assolutamente di metterti quei tre abiti quando io non sono qui. — E come mi vestirò per escire? — Non escirai. — Allora tanto vale a tornare a Spoleto. — E tornaci. Tacquero, stanchi tra quella caldura. Dopo qualche minuto, poi che il mezzo sigaro toscano era presso a bruciare le labbra di Oreste, egli si alzò di repente in atto di non poter più tollerare quella lite, bevve un altro mezzo bicchiere di vino e se ne andò borbottando: — Perdio, in una domenica di riposo tu mi dài il veleno per tutta la settimana! Anna rimase un momento presso la tavola, poi si accinse a toglier le mense, piegando le salviette, accatastando i piatti usati, riunendo i rimasugli del pane. Sopravvenne la serva, ed ella, interrompendo il lavoro, le ordinò: — Finisci di sparecchiare. Assunta, io vado a letto. Il sole meridiano infuocava i muri esili, entrava per le imposte mal connesse, svegliava tutte le mosche. Nella camera, sul letto matrimoniale alto, Oreste giaceva supino in mutande e senza panciotto, russando, tutto lucido di sudore; per non macchiare con le scarpe la coperta di crocè, aveva messo in fondo al letto il tappettino riverso e vi aveva poggiato i piedi su; l’estrema reliquia del sigaro stava spenta su la pietra del comodino. Gli sportelli eran socchiusi. Anna entrò senza rumore, si tolse la giacca, la veste, restò seduta sul letto a guardarsi così spogliata; poi guardò Oreste. Ridiscese e andò a chiudere meglio uno sportello, chè la luce cadeva proprio sul guanciale suo. Passando davanti allo specchio si guardò e le parole del marito: «Sarebbe capace di far la la corte anche a te.» Perchè «anche a lei?» Ella desiderava che il bell’ignoto le offrisse qualche atto galante, non per merito della solitudine che gli toglieva ogni altra donna, ma per meriti veri della bellezza sua. Ella era una sposina onesta, ma qualche complimento dolce, come a Spoleto le faceva qualche ufficiale della guarnigione, la avrebbe ben lusingata specialmente perchè le amiche lo avrebbero saputo. Si rammentava il forestiero: capelli scuri, barba biondastra, occhi cilestri senza occhiali! «Quanto sarebbe più bello Oreste senza occhiali!» E poi, un pittore! Ella non aveva mai visto dipingere: aveva solo visto un suo maestro, in monastero, disegnare a matita e a pastello; anzi a Spoleto aveva due disegni suoi, una rama di pesche e due garofani. Se avesse pensato a portarli giù in villa li avrebbe mostrati al forestiero perchè vedesse che dopo tutto le provinciali ne sanno quanto le romane e forse più. E corse all’armadio e lo schiuse per guardare i tre abiti di percalle, uno roseo, uno bianco, uno cilestro. Su quello bianco avrebbe una volta messo la cintura di quello color di rosa. L’imposta dell’armadio cigolò, e Oreste di tra il sonno affannoso per quella canicola chiese con voce gonfia: — Che fai, Anna? Non vieni a letto? Ed ella rinchiuse in fretta l’armadio e si gittò sul letto monumentale, facendo stridere tutte le foglie di formentone chiuse nell’alto pagliericcio. E il romore di quelle foglie secche insistè ancora a tratti, come per brividi. Poi tutto tornò quieto nell’afa. Ella guardò Oreste dalle cui gote gialle gocce di sudore scendevano sul guanciale lente, lente, e giacque supina pensando e fissando i travicelli dipinti in turchino sopra il soffitto bianco. Quelle tre o quattro stanze che poche opere di muratore e di imbianchino avevano adattate alla villeggiatura del notaio Oreste Santi e di sua moglie, erano nell’ultima ala della casa colonica. Il villino più lindo e più comodo era lontano duecento metri ed era stato affittato al forestiero. Gli altri anni essi stessi vi abitavano, ma l’avarizia del notaio aveva avuto questa inspirazione per raggranellar due o tre centinaia di lire e non l’aveva abbandonata. In fondo quelle quattro stanze bastavano agli sposi e, se non fosse stato il caldo maggiore per le imposte mal connesse, l’odor delle stalle sottoposte, il continuo bociare dei villani e del bestiame, le zanzare di notte, le mosche e i mosconi di giorno, i furti del cane di guardia, l’assenza del giardino e d’ogni ombra, il mutamento non sarebbe stato dannosissimo... Così quell’anno per separare interamente le due proprietà, il giardinetto che circondava la villetta color di rosa era stato assiepato con pruni secchi, sotto ai quali però la fratta viva già gettava, mostrando che il proprietario intendeva di mantenere quella divisione anche negli anni venturi. In quei giorni che erano scorsi attendendo l’arrivo del forestiero, Anna aveva passato molte ore sia nel giardino che nel villino, col pretesto di preparar tutto per l’ospite, in fondo per pavoneggiarsi in quell’ambiente più signorile. Poi la strada maestra toccava un lato del breve giardino; ed ella spesso, vestita con uno dei tre abiti di percalle, si era messa a ricamar le pantofole rosse e turchine di Oreste nelle ore pomeridiane, dietro la siepe, presso la via, guardando e facendosi guardare dagli spoletini e dai villeggianti che venivano in vettura o in velocipede a diporto fin là giù. Anzi un giorno tre velocipedisti, certo tre forestieri, forse tre romani, erano rimasti più di mezz’ora a volteggiare e a fare gli otto su quel breve tratto di strada che era sotto gli occhi di lei: certamente per farsi notare da lei, che però non aveva mai osato di levare recisamente gli occhi dal ricamo. Ma per sfortuna Oreste veniva da Spoleto in villa, proprio la domenica quando più gente scendeva dalla città giù nella valle; e – quando c’era Oreste – ella doveva restare con lui a far la buona sposina, a parlar di danari e a liticare. Quando furono quasi le quattro del pomeriggio, la voce stridula della contadina che chiamava a raccolta il pollame per gettargli il cruschello e il grano guasto svegliò marito e moglie. — Pulle, pulle, pulle... Pipé, pipé, pipé... Piiipeee... Oreste borbottò sfregandosi gli occhi e la fronte madida: — Anna, sarà tardi? Assunta dà da mangiare ai polli. — Sarà tardi? – domandò Anna precipitosamente levandosi a sedere sul letto. — Eh, eh che fretta! Hai paura di non giungere a tempo a veder l’arrivo del tuo pittorello? Guarda che ora è. — Dov’è l’orologio? – domandò Anna, sdraiandosi nuovamente. — È rimasto nel panciotto. Guarda lì su la sedia, accanto alla finestra – rispose Oreste immobile. Anna si alzò e andò a veder l’ora: — Sono le quattro. — Bene. Io mi alzo. Tu resta pure. Vado giù per la strada incontro al forestiero. Non occorre che tu venga. Così lo condurrò direttamente al villino e non avrà l’idea di fermarsi qui da noi. Dormi, dormi. Anna tacque e si rimise sul letto supina. Il marito si alzò, si bagnò il viso e le mani, si infilò la giacca, e così, senza colletto, senza cravatta e senza panciotto, uscì. Anna attese ancora. La contessa Romei aveva l’estate scorsa tradito suo marito col deputato Rey, e a Spoleto s’era detto che tutto il romanzesco amore fosse stato tessuto nella villa solitaria dei Romei tra Spoleto e Terni. Ella non avrebbe fatto nulla di male, nulla di serio: ma le sarebbe piaciuto che a Spoleto le amiche invidiosette avessero fatto qualche ciarla su quella sua villeggiatura. Tanto non sarebbe stata capace di far nulla di male, mai. La contessa era una donna più debole, una romana abituata agl’intrighi del mondo. Egli la avrebbe incontrata una mattina presso al giardino, e di sopra alla siepe la avrebbe salutata lietamente... Che abito avrebbe ella messo quella mattina? Così ella pensò che era tempo di scendere dal letto e di abbigliarsi; anzi credette tra quelle fantasticherie di essere in ritardo. Guardò l’orologio del marito: eran le quattro e mezza. Aprì l’armadio dei tre vestiti e scelse quello bianco e si strinse la vita nella cintura turchina dell’abito turchino. «Questo percalle a distanza sembra seta,» pensò guardando quel color cilestro vivo nel bianco. E si pettinò e nei capelli mise due forcine di tartaruga lavorata, mentre per lo più ne aveva una sola, poi si dette un po’ di cipria. Si guardò e si riguardò nello specchio e parve soddisfatta di sè. Quando fu su la porta, pensò che, come sempre soleva in campagna, non aveva orecchini. Pure da Spoleto aveva portato gli orecchini di brillanti, tanti brillanti piccoli legati a rosa, così da dar sotto la luce piena l’impressione di due pietre intere. Tornò al comò, li tolse dalla teca. «E se Oreste se ne inquietasse? È meglio lasciarli lì.» E scese senza orecchini, e il cuore le batteva più celere. La strada era bianca di sole e di polvere. Non si vedeva nè un uomo, nè una bestia: un infinito silenzio arido e candido. Anna pensò: «Quel povero giovane, venendo giù dalla stazione con questo caldo e con questa polvere, comincerà a odiare la villeggiatura!» E si sedette sopra una panca che su la strada Oreste aveva fatto mettere presso la siepe nuova. Seduta, si guardò il piede piccolo calzato con le scarpe nuove di finto bulgaro, donde la caviglia usciva snella nella calza nera, sotto la veste candida e leggera. Ella pensò: «Ho fatto bene a metter le calze tessute invece di quelle fatte a mano. Sotto all’abito bianco la trama si vede facilmente.» E nessuno giungeva. Finalmente vide da lontano Oreste apparire allo svolto della via con passo celere; pensò: «Eccolo»; poi nella quiete udì il rumore della vettura in lontananza, quasi attutito dalla polvere alta e dall’aria greve. Poi la vettura apparve: aveva il mantice alto. Da lontano ella vide su la serpa accanto al cocchiere due valige: una gialla, una nera coi fermagli lucenti al sole tra il fumo polveroso. Poi la vettura si avvicinò; ella vide il pittore con gli occhiali neri larghi contro il barbaglio della canicola e accanto... che era quel bianco? L’amico? No, no... Era una donna? Una donna? Sì, proprio una donna, bella, bruna, con una veste e una giacca cenere, una camicetta di batista e un cappello di paglia bianca simile a quello che gli uomini portano e, sotto, una corona di capelli neri alti su la fronte: una donna bella ed elegante che doveva essere anche alta e magra. L’ignota, mentre la vettura passava celermente avvolgendo anche la spettatrice in un turbine di polvere bianca, guardò Anna, e Anna chinò gli occhi, e in un attimo si pentì d’essere venuta lì a vedere e a farsi vedere. «Essi hanno capito che io ero lì ad attenderli. Ella mi ha guardato prima il viso, poi l’abito e mi pare... forse non è vero... ma mi pare proprio che abbia sorriso e si sia chinato su lui a interrogarlo... Adesso rideranno.» E li guardò scendere poi che la vettura s’era fermata più giù davanti al villino. Ella era veramente snella ed elegante, almeno un palmo più alta di lei: così allora Anna credette. Entrò di filata nel villino, ne riuscì ridendo forte e parlando al pittore, chiamandolo dentro. — Ebbene? Che fai li incantata? Hai visto? E tu gli avevi dedicato tutto quest’acconciatura straordinaria? Son contento. Imparerai... Anna si era scossa, guardava il marito in grande stupore. Il suo povero abito di percalle aveva preso sole e polvere invano: il marito ne la sgridava, l’ignota le aveva riso sulla faccia, il forestiero la aveva appena vista... Allora solo si rammentò che egli passando la aveva salutata col cappello e che ella, stupita, non aveva risposto al saluto... «Oltre che una provinciale inelegante, mi crederà anche ineducata.» E tutte quelle illusioni abbattute in un attimo la afflissero tanto, le suggerirono il pianto, e, per difendersene, irruente disse al marito: — Ma non ce lo aveva detto che sarebbe venuto con una donna! Oreste titubò, poi calmo, da buon notaio: — Egli ha il villino per contratto regolare e registrato. Può condurci chi vuole. Poi non aveva detto che sarebbe venuto con un amico? — Ah... questo è l’amico? — E che te ne importa? Piuttosto io non sapevo che egli avesse moglie. — Credi che sia proprio la moglie? — E chi vuoi che sia? — Non so... forse una sorella... una parente... La curiosità occupò e distrasse le due piccole menti. — Chi sarà? La vettura vuota, che tornava indietro, si fermò davanti ai due sposi: — Buon fresco, signor avvocato! — Oh Lorenzo! Come è andata? — Bene. Anzi abbiamo fatto presto. Siamo venuti giù in tre quarti d’ora. E poi erano in due. Voi m’avete detto che veniva un forestiero solo. — Non lo sapevo. — Chi è quella? È la moglie? — Non lo so. — Tu non hai capito nulla dai discorsi che facevano? — Uhm! Lei lo chiama Bebbo... — Già... si chiama Alberto – soggiunse Anna, e Oreste la guardò. — Lei porta una valigia nera piccola e non la lascia mai. Ha una spilla di brillanti fatta come una corona... — Che sia conte il pittore? — Nel contratto non c’è, e nemmeno su la carta da visita – nuovamente interruppe Anna. — Eh... se non lo sai tu... – malignò geloso Oreste. — Dev’essere contessa lei – soggiunse il vetturino – perchè alla serva che li aspettava egli ha detto: «Prendete le valigie della contessa.» — Allora dev’esser conte anche lui. — Eh... in vettura si son baciati due o tre volte... almeno che io abbia udito... perchè ho pensato che era meglio di non voltarsi. Occhio non vede e cuore non dole. — Si son baciati? – domandò Anna. — Già... se son marito e moglie. Che c’è di male? Non ti va? – e Oreste la guardò furioso, e, dandosi l’aria di esperto mondano: – Forse saranno sposi novelli... A proposito, Lorenzo, se alle Tre Madonne incontri l’arciprete Picci, rammentagli che domattina alle nove io sarò a studio per l’istromento dell’oliveto... Oreste rimase a parlare d’affari, mentre Anna sempre più ansiosa e curiosa rientrava a casa. «È la sposa del pittore? Quant’è bella e sopratutto magra ed elegante! Come rideranno a veder me così goffa. Io avevo ben ripetuto mille volte a Cristina, la sarta, di farmi l’abito attillato a vita; l’ha voluto fare a camicetta e m’ingrossa e mi ingoffa.» Così tornò in camera da letto a guardarsi allo specchio, e vide che la cintura turchina stonava volgarmente sul bianco, che su la spalla la stoffa troppo leggera faceva delle pieghe traverse, che la goletta era troppo bassa, che un bottone sul petto era fuor di posto. Tutte queste cose adesso le apparivano fiammanti, ridicole, obbrobriose, visibili come un soldato solo fuori dei ranghi. E voltandosi e rivoltandosi, arrivò a vedere anche un baffo di cipria sotto l’orecchia. Essi, essi l’avevano notato di certo, passandole innanzi! E il dispetto le angosciò così la povera piccola anima che ella ne pianse silenziosamente, gettandosi sulla poltrona senza badare che si sedeva proprio sul panciotto d’Oreste e che spiegazzava tutta la sua veste nuova. E i piccoli singulti le uscivano dalla bocca dolorosa a volta a volta, chetamente, col respiro corto. Udì la voce d’Oreste dall’aja. — Anna, c’è Caterina. Ti vuole subito. Caterina era la serva che ella aveva trovato pel pittore. Scese giù di corsa, nella curiosità scordando l’affanno; perchè Oreste non vedesse i suoi occhi arrossati, chiamò Caterina dentro casa, su l’ultima branca delle scale. Caterina voleva un po’ di caffè freddo, subito, per la contessa che aveva sete. — Di’, Caterina: che fanno? Quant’è bella, lei! — Quant’è bella! – assentì la serva. — Sono marito e moglie? — E che vuole che sieno? Non fanno che baciarsi, accarezzarsi, chiamarsi con certi nomi che sembrano nomi di gatto. — Come si chiamano? — Lei chiama lui Bebè, e lui chiama lei Titì. — Son proprio ragazzi. — Eh, giovani, giovani tutti e due! Quando sono entrata in camera, ho trovato lui in ginocchio davanti a lei, togliendole le calze... — Come erano le calze? Nere? Tessute? — Nere, di seta leggere come una tela di ragno. — Di seta! Per campagna? — Eh, sarà la moda. Dopo avergliele tolte tutte e due, le ha dato un bacio per ciascun piede. — Su i piedi! — Se avesse visto, sor a Nannina mia, che piedini! Parevano di seta... Io mi ci sono incantata... Venne Assunta col caffè in un bicchiere, e sopra, a mo’ di coperchio, un lembo di giornale. — Grazie, sora Nannina. E Anna restò ferma su l’ultimo gradino, appoggiandosi alla maniglia della scala, guardando in fuori l’aja larga, su cui la pula a mucchi luceva com’oro fin sotto i pagliai. Poi si scosse, saettò il piedino fuori della veste, tanto da guardarsi la calza nera di cotone tessuto, lo rinascose subito e fuggì a precipizio su per le scale in camera, e si chiuse dentro. La mattina dopo, assai di buon’ora, Oreste tornò a Spoleto per l’istromento dell’arciprete Picci, e Anna restò sul letto a meditare. La notte, aveva dormito male, aveva sognato il pittore e l’ignota che dormivano insieme nel prossimo villino, e non avrebbe osato di ripetere a nessuno quanti baci nel suo sogno quei due s’erano dati: ella poi conosceva i mobili e le mura di quella camera parte a parte. Era stata la sua camera súbito dopo le nozze; e mai ella poteva a distanza ripensarla senza rivedere lì dentro, presso il letto, Oreste in mutande, nella penombra della luna a traverso i vetri. Che ricordi! Da farsi il segno della croce, volta per volta! Poche volte... «Che farò? Verranno essi da me questa mattina stessa, dovrò io andare da loro per cortesia di padrona? Anche Oreste ha detto che, poichè c’è una signora, io posso riceverli e devo esser gentile. Che abito porterà stamane? Anche ella avrà un abito bianco? E uno turchino? E uno color di rosa? Come mi vestirò per incontrarla? Mi metterò gli orecchini? E il cappello? In campagna non lo porto mai. Ci vorrebbe un cappellino da uomo come il suo. Strano! Fino a ieri quei cappelli di paglia così tondi e semplici mi parevano orrendi per una donna.» E tremava al pensiero di incontrarli e di parlarci. Si alzò, e si sentì tanto debole, e si vide tanto sbianca; pensò che avrebbe fatto una figura molto sciocca, e volle rimettersi a letto. «Ma che diranno loro? Mi crederanno un vero rospo nascosto tra la terra. Già ieri nella confusione non ho risposto al saluto di lui. No, no. Mi alzerò e andrò io da loro. Si alzò e si vesti di turchino, e badò bene che la cipria non le facesse nessun baffo strano sul volto. Quando scese nella camera da pranzo e chiamò Assunta pel caffè e latte, tremava. «Che dirò quando li incontrerò? Andrò io da loro? aspetterò che essi vengano qui? Avrei dovuto domandar consiglio a Oreste. Ma- egli ne sa meno di me. E se verranno qui, li dovrò ricevere qui dentro? È orribile! Subito capiranno che abbiamo affittato il villino e ci siamo ritirati qui per guadagnare quelle trecento lire dell’affitto. È meschino!» E si torturava il pensiero, e mangiava senza appetito, ella che ogni mattina intingeva nel caffè e latte quattro fette ben spesse di pane casareccio spalmate con la conserva di mele cotogne. Ed escì all’aperto, ostentando indifferenza, quasi che i due ospiti stessero a spiarla dalle finestre o di tra i pruni della siepe. Quando fu più vicina al giardino, alzò gli occhi al primo piano della villetta: da quel lato tutte le persiane erano chiuse, e pure le ultime due finestre eran quelle della camera da letto. Allora, incoraggiata da quella quiete, girò intorno alla casa. Tutto dormiva al primo piano. Solo al pianterreno le finestre basse delle stanze da mangiare e della cucina erano aperte. Caterina la scorse e la chiamò: — Sora Nannì!... Anna le accennò di tacere. Caterina escì e cominciarono a parlare di sopra alla siepe. — Perchè non entra, sora Nannina? — No, non voglio che mi vedano. — Quelli dormono. — Ma è di buon’ora? — Di buon’ora, saranno le dieci. — Sono andati a letto tardi? — Macchè! Alle nove erano in camera. Io che stavo in cucina ho sentito rumore fino alle nove e mezza. Poi sono andata a letto, e dalle scale ho inteso che ridevano. — Devono essere sposi da poco? — Non ci si capisce niente. Di bene, se ne vogliono assai. Ma non parlano come noi. — Che intendi? — Parlano in altro modo. — Forse in francese? — Sarà francese. Io iersera volevo, mentre li servivo a tavola, capirci qualche cosa, ma è stato inutile. In quella si udì dal capo delle scale una voce maschile: — Caterina, salite. Anna volle fuggir via, ma la serva la rattenne: — Aspetti, sora Nannina, aspetti. — E se mi vedono? — Ma non scendono mica qui in cucina. E Caterina salì al piano di sopra. Anna rimase nella cucina e si sedette tutta ansiosa come fosse in flagrante peccato; temeva di esser colta lì in cucina a chiacchierar con la serva, a spiare i fatti dei nuovi venuti. A un punto si alzò per andarsene, ma sentì aprire le finestre del primo piano e temè di esser veduta se usciva, e attese. Dopo poco Caterina tornò: — Se li vedesse, signora mia, tutti e due dentro il letto grande! Son due ragazzi così belli! E ridono e parlano in francese... Vogliono la colazione a letto: caffè e latte. Quando ho detto che non c’era burro in casa, essa per la prima m’ha detto: «Non fa nulla, non fa nulla, meglio, così! Anzi... è divertente» e ha riso tanto. Egli solo mi ha detto: «Bisognava pensarci...» ma poi ha riso anche lui. Annetta ascoltò con gli occhi spalancati e le orecchie tese, avrebbe voluto saper tante cose... Caterina mise il latte al fuoco; il caffè era pronto. Anna non sdegnò di preparare ella stessa il vassoio con le tazze, i cucchiai, la salviette, il zucchero e il pane bruscato. Ma mentre ella con un panno lustrava la zuccheriera, tenendo con le braccia tese il cencio ben discosto dal suo bello abito turchino, sulla soglia apparve una figura di donna avvolta in un grande accappatoio bianco. Aveva i capelli arruffati, stretti su la cima della testa con una forcella d’oro; e teneva i piedi nudi in due babbucce rosse fiammanti. Anna la vide, posò in fretta zuccheriera e cencio e arrossì e non potè pronunciare una sillaba. Ma anche l’altra restò confusa e si ritrasse con un piccolo grido acuto, e nascosta dietro lo stipite chiamò Caterina. Caterina accorse e fu un lungo conversare a bassa voce. Anna udiva di quando in quando frasi dette in tono reciso di comando. Capì le ultime parole. — Del resto venite di sopra, che il signor Alberto vi dirà lo stesso. Caterina tornò in cucina tutta confusa. Anna che ancora tremava domandò: — Che c?è? Che c’è? — C’è... c’è... che la trattano come se in fondo lei non fosse la padrona di casa... Dicono che la casa è stata presa in affitto dal signor Alberto e che nessuno ci deve entrare... Ecco quel che ha osato di dire la contessa!... — Ha detto questo? E ambedue tacquero per un istante. Poi Anna, incamminandosi verso la porta, disse: — Svelta, svelta. Il latte si scalda troppo. Essi hanno ragione. La casa adesso è loro. Caterina non si mosse; quando Anna fu presso alla porta, la richiamò, e sorrideva furbescamente: — Sora Nannì, io ho capito il perchè... — E quale è? — Vuole che glie lo dica? Non se ne avrà a male? — E di’, su, dillo; che me ne vado. — La contessa è gelosa di lei. Anna uscì racconsolata. Ma quello fu per lei un giorno di grande sconforto. Ormai ella sapeva l’opinione che i due forestieri avevano di lei: non volevano nemmeno avvicinarla. E il cordoglio fu maggiore dopo tutte le speranze luminose del di innanzi. « In fondo io sono una signora ed ella potrà essere bella, elegante e contessa quanto si vuole, ma qui intorno non troverà nessun’altra donna come me... Ma come era bella, stamane!» Perchè quella figura strana con l’accappatoio bianco, con la forcella d’oro al sommo dei capelli arruffati, con le babbucce rosse sui piedi nudi la stava confitta nella mente, come un raggio di sole negli occhi; ed ella per quanto volesse ribellarsi all’atto scortese, si sentiva vinta di quella bellezza nuova. E pensava scoraggiata ai pallidi mesi di villeggiatura che ella avrebbe passati, vicino alla felicità ella infelicissima, vicino alla eleganza ella goffa e provinciale, vicino all’amore ella moglie al pacifico Oreste. Nè si rammentava più che dopo tutto negli anni scorsi i mesi di estate in quella calma e in quella solitudine, erano per lei stati piacevolissimi. Nulla: ella cominciava a vivere e a soffrire allora. «Non c’è che dire: ella è elegante, bella, e io non ho mai visto un’altra donna così elegante e così bella.» E il pensiero tornava sempre più nitido e sicuro, e ogni volta la percuoteva con maggior dolore. Ella lasciò gli abiti nuovi, e si vestì con le solite vesti usate e ben logore. A pranzo, sola, discinta, mal pettinata, svogliata, mangiò poco e chiacchierò molto con la serva. Poi se ne andò subito a riposare: dalla mattina ella sognava a quelle ore di riposo tra il caldo, come a un paradiso. Saranno state appena le tre e Anna dormiva da un’ora quando Assunta precipitosamente venne a battere alla porta della camera e a chiamare, e tra le parole ansava per la corsa: — Sora Nanni, sora Nanni, c’è giù lui. — Chi? lui? — Sì, il forestiero, il pittore. — Lui? Qui? È solo? C’è la moglie? — No, è solo. Ella destata all’improvviso non si raccapezzava; per un istante credette di sognare. Poi si slanciò giù dal letto: — Assunta, va giù subito. Fallo accomodare... — Dove? — In camera da pranzo. E dove? Digli che mi scusi per un momento. Scendo subito. Poi torna su. E cominciò a vestirsi frettolosamente: non connetteva le idee e non trovava le asole dei bottoni o gli occhielli degli uncini. All’improvviso l’idea che Oreste le aveva proibito di ricevere il pittore da solo, la eccitò a far presto. Assunta tornò su, la aiutò a farsi bella, a darsi la cipria, ad aggiustarsi i capelli, a mettersi le due forcelle. Finalmente, rossa, affannata, ella si presentò ad Alberto e subito vide in volto al giovane un sorrisa di ammirazione un po’ audace, ma certo accettissimo. — Scusi, signora; forse è l’ora del suo sonno. Ma io son voluto venir súbito per spiegarle quel che è avvenuto stamane... — Ma le pare!... — No, no. Bianca è così sbadata... — Bianca? Sua moglie si chiama Bianca? — Mia moglie? Ah, già! Mia moglie è Bianca, ossia Bianca è mia moglie... Anna non vide un sorriso ironico del pittore; solo invidiò alla bella romana il bel nome. Alberto seguitò: — Dunque le dicevo... Bianca è un po’ sbadata, sa, è giovanissima. — Sposini freschi, eh? — Eh, così... così... ossia, già, sposini freschi. Stiamo insieme da appena due mesi. — Dopo un fidanzamento lungo? — Oh, no! Tutt’altro... Ma torniamo all’argomento principale. Bianca... intendo... mia moglie non conosceva lei... non sapeva che ella fosse la padrona di casa. — Eh, capisco! mi ha vista lì in cucina. Volevo far fare buona figura alla casa... — Dunque ella ci scusa? – e Alberto si avvicinò con un sorriso dolcissimo. Anna si scostò istintivamente; prima si sentì superba di quel sorriso, poi si adirò, comprendendo che era un mezzo diplomatico per far la pace. E timida rispose: — Ma le pare... Ella, in fondo, era a casa sua. Piuttosto m’auguro... — Che cosa? — M’auguro di potere un’altra volta far la conoscenza della sua signora. — Ecco... vede... — Scusi, veh! ma io... — Ma anzi, signora mia! – poi proseguendo senza prender fiato, quasi dopo essersi determinato a un passo eroico: – Anzi verremo noi stessi a riverirla. Dovere di forestieri. — Ma io verrò da loro! — No, no. Stasera verremo noi. — Ed usciremo pel fresco. — Benissimo. Bella idea! — Li condurrò fino al torrente! — Ma benissimo! Bianca... mia moglie... la mia signora sarà onoratissima, felicissima... Verso il tramonto, Alberto venne con la sua signora. Bianca era vestita di tela candida, con una veste stretta alle anche e larghissima in fondo, tutta tesa per l’amido: un giglio riverso. Sotto il corsetto, che appena toccava la vita, una cascata di tulle lilla, fresco come se allora fosse stato composto a falpalà. Il gran cappello bianco era tutto a merletti; i guanti di pelle di daino finivano l’abbigliamento perfetto. Anna, anche prima di salutare la nuova venuta, ne guardò l’abito; e anche prima di studiarne l’abito, si meravigliò come ella nei bagagli lo avesse potuto portare così fresco e immacolato. Le parve un miracolo. Anche Anna portava per sua sventura l’abitino di percalle bianco, e intorno alla vita aveva osato di cingere la cintura dell’abito color di rosa. Passata la prima ammirazione, il confronto subito la fece soffrire, le tolse la parola. Alberto già aveva detto: — Bianca, ti presento la nostra cortesissima padrona di casa. E Bianca s’era inchinata con garbo. Anna, tra l’ammirazione e l’invidia, sentì che anche l’altra restava incerta quasi timida, e mormorò: — Signora mia, la ringrazio per esser venuta fin qui. Avevo detto a suo marito... Bianca guardò Alberto. — Avevo detto a suo marito che io sarei volentieri venuta a prender loro. Bianca ruppe a parlare: — Ma le pare possibile, signora! Ella è così cortese con noi... Io e Alberto... io e mio marito siamo così felici d’aver qui vicino a noi una signora così per bene... Alberto interruppe la sua compagna. — Bianca, scusati presso la signora per la tua fuga di stamane. — Già, signora mia. Ella mi deve scusare. Io stavo con Bebbo... — Bianca! — Io stavo con Alberto... Sa, qualche volta lo chiamo Bebbo... Scusi, veh! — Ma lo chiami Bebbo, lo chiami pure Bebbo. Tra sposini novelli... E i due in coro: — Eh, già! — Eh, già! Tra sposini novelli! — Certe cose sono permesse. Anzi, dirò loro una cosa strana. Loro dormono nella camera d’angolo sopra la pianta dei gelsomini... — Sì, nella camera d’angolo. — Ebbene... anche io... anche noi siamo stati lì nella luna di miele... súbito, súbito... la sera stessa dopo la cerimonia... prima del viaggio. E spronata dal ricordo Anna osò: — Il letto sta ancora allo stesso posto. Bianca domandò: — Ella ha bimbi? — No. — Nemmeno noi ne avremo. È vero, Alberto? — Ma, Bianca! Ti paiono discorsi, questi?... Anna invece era tutta rallegrata da quelle domande intime, sperava la bella sposina avesse simpatia per lei e non la disdegnasse, le pareva che l’intimità di una creatura così bella ed elegante fosse per riconfortarla e rabbellirla tutta, e si faceva piccina, cortese, quasi umile per essere meglio accetta. Intanto camminavano verso il torrente Marroggia. Là giù nella valle bassa ogni veduta, fuori che quella dei monti a torno, era tolta. Le viti e gli olmi a coppia a coppia, a fila a fila si perdevano giù per il piano eguale, confondendosi nella distanza. Le viti vicine alla siepe avevano le foglie e i grappoli ancora arcigni macchiati di calce liquida contro l’ingordigia dei ladruncoli. Nelle siepi i grilli cominciavano a cantare, e l’aria nel vespro estivo era immobile. Bianca scoprì delle more tra i rovi d’una fratta, ne colse una, la portò ad Alberto, glie la porse: — Mòrdine la metà, Bebbuccio! Ed egli la morse e Bianca ne mangiò il resto ringraziandolo col sorriso e con gli occhi. Anna non sapeva dove guardare, anche ella cercò delle more, e quando ne ebbe trovate ingenuamente andò da Bianca le disse: — Ne vuole ancora, – e i due capirono che in quell’offerta non v’era ombra di burla. Seguitarono a camminare, la conversazione cadde. — Ma forse lei mangia a quest’ora? – domandò Alberto. E Bianca, lieta d’aver trovato un argomento, aggiunse: — Forse noi la derangiamo? — Che cosa? — Bianca vuol dire se noi la disturbiamo. — Oh no, mangio alle nove. — Ella non parla il francese? — No, pochissimo. Prima del matrimonio, sì. Anche dopo il convento, lo parlavo spesso con mio zio prete che era a casa con noi ed era stato missionario al Giappone. — Ah! Bebbo, ti ricordi quando lo zio prete trovò Teresina nuda? Alberto afferrò il braccio di Bianca la quale confusa si tacque. Anna restò a pensare al racconto interrotto. Nuovamente il discorso cadeva. — Io le imparerò il francese – propose Bianca. — Magari! — Cominceremo domani, – e l’orario e il programma furono subito stabiliti. — Ma ella resterà poco tempo. — Io? Chi lo sa? Tu quanto resterai, Bebbo? — Ma come? non partiranno insieme! — Ossia... sì... partiremo insieme... ma Bebbo... Alberto intervenne dopo aver gettato un’altra occhiata severa a Bianca: — Bianca vuole dire che io forse dovrò andare per qualche giorno a Roma. — Bene. Ella resterà con me. Erano giunti sull’argine del torrente. L’argine era alto e largo come una passeggiata erbosa, limitata da due file di mori gelsi; e sotto, il letto del torrente secco era vastissimo e tutto erboso, così che appena si discerneva tra l’erba l’alveo ghiaioso. Da quella piccola altura si vedeva il piano basso ed uguale tutto a torno fino ai monti vaporosi nella sera. Qualche casa colonica tra le viti occhieggiava, raccogliendo nel color bianco la rara luce. E di faccia, là dove i monti s’incurvavano quasi benignamente, il tramonto estremo si diffondeva roseo e lieto sulla calma immensa un po’ triste. Anna rammentò il sogno del sentimentale amore svanito, e commossa si avvicinò alla sposina quasi che restandole vicino un po’ del languido fuoco d’amore potesse per riflesso avvivarla. — Ella resterà con me e mi vorrà bene. Bianca non rispose ma le cinse la vita col braccio. Bebbo guardava il paesaggio e la piccola provinciale, assetata di romanzi e di sentimento, pensò: «Perchè adesso in questo languore non si guardano nemmeno? Forse io li disturbo.» — Dovranno tornare qui da soli, una sera, senza me. Un’estranea guasta ogni sentimento. — Ma si figuri! Bebbo e io non siamo sentimentali. È vero, Bebbo? Tornarono a casa. Alla sera, sebbene avessero promesso di venire, i due sposi restarono chiusi in casa, e la mattina dopo Caterina narrò che a cena avevano bevuto assai e avevano finito per vietarle di entrare in camera da pranzo così che alle undici si erano chiusi in camera e non avevano fiatato più. Anna soggiunse: — Eh si sa! Sposini freschi! E la serva fece coro. E una nebbia passava davanti alla fantasia di Anna, la piccola amante delusa. All’ora stabilita per la prima lezione di francese Bianca non si fece vedere, e non giunse che un’ora dopo, tutta affannata e discinta, avvolta negligentemente in un accappatoio di crespo giallo chiaro, portando le piccole babbucce di marocchino rosso. Appena vide Anna disse: — Tanto qui nessuno mi vede. Sono appena cento metri di distanza. E si sedette senza complimenti vicino alla tavola da mangiare. — Qua la grammatica e i quaderni. Già io la chiamerò Anna... tout court... — Anna... sì... Anna soltanto. — E lei mi chiamerà Bianca. — Ma allora bisognerà che ci diamo del tu. E le due donne cominciarono a chiacchierare, dimenticando la lezione di francese, quasi per provare la novella intimità. — Dunque tu hai dormito in quella camera proprio súbito dopo le nozze... E Bianca cominciò a tempestarla di domande indiscrete ed argute, sferzandola, obbligandola a svelare i segretucci poveri del suo amore borghese e comune. Dapprima Anna si stupì a quelle domande troppo audaci per una sposina; poi pensò che a Roma le ragazze di dieci anni ne sanno più di una madre di dieci figli, e gustando quelle piccole confidenze vivaci, rispose parte a parte, finì per prevenire le domande, arrivò fino ad inventare qualche particolare a maggior gloria sua e di suo marito. Bianca a volte interrompeva: — Anche noi... Anche io... Anche lui. E Anna godeva, ora che s’era sfrenata a parlar liberamente, e le pareva per riflesso di rivivere sotto la sua breve pallidissima luna di miele. Ma poi nè il pomeriggio nè la sera i due si fecero vedere più. La mattina dopo Bianca entrò senza farsi annunciare nella camera dell’amica. — Ancora non ti sei vestita? Anna, spaventata, era corsa presso il letto, ne aveva ghermito il lenzuolo e se ne copriva: — Scusa, scusa. Ancora non mi sono... — E per questo? Tra donne... eh, via!... Vestiti in pace. Io sto qui su la poltrona... Ho portato delle sigarette. E Anna, spaventata da quella presenza, meravigliata a veder l’amica fumare con un’indifferenza di maschio, non trovava più le sottovesti e gli abiti, e arrossiva e temeva e balbettava. Quando si metteva le calze, Bianca domandò: — E perchè le fermi con un elastico tutto nero? Non si usa più. Guarda – e mostrò i suoi legacci di seta a righe gialle e nere sulla calza color cedrina fissati da un piccolo bottone di Strass «Luigi XVI.» Quando ella si mise la camicia, Bianca domandò: — E perchè porti i bottoni per fermare la camicia sulle spalle? Guarda – e si aprì l’accappatoio e mostrò i nastri che in cima alle braccia serravano i due lembi di batista, e la batista era a fiorellini lilla sul bianco. Altre osservazioni Bianca non faceva, ma Anna sentiva che ella avrebbe voluto dire: — E perchè porti le camicie di mussolo? E perchè porti le calze nere di cotone tessuto? E perchè porti il busto bianco di tela greve? E le tue mutandine perchè non hanno tre palchi di merletti rari? Ma Bianca non osava demolire tutto il presunto buon gusto della sua amica recente, e si contentava di far quelle critiche superficiali. Quando Anna si fu pettinata e si accinse a mettersi la giacca, Bianca esclamò: — E gli occhi? — Gli occhi? Che cosa? — Non ti metti nulla sotto gli occhi? — Ti pare! Si vedrebbe! — Si vedrebbe? Ma tu sei pazza! Guarda un po’ me. Mi si vede nulla? Infatti sotto gli occhi vivaci della sposina non si vedeva nessun segno nero troppo audace; solo una piccola ombra diffusa, lievissima, quasi trasparente, attraverso l’epidermide. — E come fai? — Oh, è semplicissimo. Vestiti e vieni con me in camera mia. — Ma... tuo marito... — Chi? Bebbo? Oh, Bebbo si spoglia e si veste in un’altra camera... E salirono al villino senza incontrare il pittore. Anna fu spaventata alla trasformazione della sua pacifica cameretta di sposa. Tre bauli ingombravano gli spazii vuoti tra il caminetto e il canterano, tra il canterano e il letto; su l’appiccapanni erano vesti, giacche, accappatoi di colori diversi, cappelli piccoli e grandi di paglia, di merletti, di fiori. Sul letto ancora scomposto era una camicia di seta cinese coi nastri rosa. Ma la meraviglia era il tavolino dello specchio, dove si stendeva una fila sterminata di spazzole, e spazzolini legati in argento, in avorio, in tartaruga, e qua e là altrettanti utensili diversi dall’uso ignoto, tutti lucenti e nuovissimi. — E tutte queste cose? — Servono per pettinarsi, acconciarsi, vestirsi. — E quella camicia gialla tutta aperta? — Oh, bella! È la mia camicia da notte in toile d’araignée. E le domande di Anna erano infinite. Ma ella temette di aver mostrato troppo chiaramente la sua ignoranza e si tacque pur girando gli occhi stupiti di qua e di là. Bianca aprì un astuccetto d’argento che conteneva quattro lapis, due rossi e due neri, ne prese uno nero delicatamente con gesto esperto: — Avvicinati. — Che fai? — Ti tingo le ciglia. — Ma no. Lascia fare, lascia fare. Qui è inutile... non si usa. Oreste... — Chi è Oreste? — È mio marito. Oreste mi sgriderebbe. — Tanto meglio. Ma va là! Gli piacerai di più. E con molto garbo Bianca passò la matita sotto le palpebre di Anna, poi la fece lavare, e le presentò uno specchio. Anna dovette accordarle che non appariva nulla di sconveniente e che anzi l’occhio sembrava più vivace e le gote più bianche. — Vuoi anche un po’ di lapis sulle labbra? — Sulle labbra? — Ma sì. Non si vede. Ma Anna resistè. L’amica generosa prese un lapis rosso e un lapis nero, li incartò accuratamente e li donò all’amica. Anna, per mostrarsi disinvolta, pure restando estatica davanti a quel tavolo pieno di utensili misteriosissimi, domandò: — Che profumo adoperi? — Héliotrope blanc. — Sai che non capisco il francese. — Aspetta. È facile. Te ne regalo una boccetta e ti imparerai il nome leggendolo. Me ne ha date cinque il generale. — Il generale? — Ossia, non è generale. Lo chiamiamo così, per ridere. È un sottotenente di cavalleria Genova. — Ma tuo marito?... — Se mio marito lo permette? Figurati il generale è mio cugino... — Ah! – e Bianca guardava i romanzi francesi sul comodino: due o tre portavano, manoscritto di traverso sulla copertina gialla il nome di Alberto Raggi, gli altri avevano un altro nome, Gaspare Montoro. — Guardi i libri? Sono di Montoro, del nonno – e Bianca sorrise. – Anche Montoro lo chiamiamo nonno perchè è vecchio, ma mica mi è nonno. Glie l’ha messo Bebbo questo nome. In uno dei libri Anna aveva letto: Alla mia Titì il suo vecchio. — E chi è Titì? — Sono io. Mi chiamavano così in... monastero. E prima di escire Bianca con una libertà spensierata caricò Anna di regali: i due lapis, un paio di legacci gialli e neri, una boccetta di Héliotrope blanc, un libro di Aurélien Scholl, un pacchetto di carta da lettere color di rosa pallida. E Anna si portò via tutto con un’ingordigia di servetta beneficata, ancora stupita dal mondo nuovo, temendo solo d’incontrare per le scale il pittore. Questi passatempi durarono altri quattro giorni. Bianca appena esciva, correva da Anna e restava con lei molte ore. Bebbo aveva tranquillamente cominciato un quadro a poca distanza: una quercia altissima, sotto alla quercia una siepe di vitalbe in fiore, presso la siepe una via sassosa corrosa dall’acque all’inverno, e, dietro, un campo di grano turco dal verde tenue digradante fino al monte di Poreta tutto verde di ginepri, di ginestre, e di pini. Anna si tingeva gli occhi, si profumava con l’Héliotrope blanc. Una mattina si colorò anche le labbra. A similitudine di un abito di Bianca, con l’aiuto di costei aggiunse tanti nastri neri al suo abito di percalle bianco. Bianca una sera le domandò: — Hai sempre voluto bene a tuo marito? — Che intendi? — Oh Dio mio! Intendo se c’è stata nessuna parentesi. — Oh Bianca! E con chi? — Già, hai ragione. A Spoleto gli uomini devono essere tanti rospi. E Bianca volle andare a Spoleto. Come Bebbo se ne schermiva, ella disse che senza un servitore non poteva restare un giorno di più nella villetta e che a Spoleto avrebbero potuto trovarne uno esperto. Anche Anna li accompagnò. Quel giorno fu il sabato. Anna si vestì di celeste e si strinse alla vita una cintura nera altissima prestata dall’amica. Passarono pel Corso verso le undici quando le spoletine vestite a festa fanno la ruota attorno alle signore romane semplici e dimesse nei chiari abiti estivi. Anna passava accanto all’amica tronfia e orgogliosa. La signora Torelli, una figuretta di cera, dai capelli rari e dagli occhi senza ciglia, salutò Anna con un piccolo cenno di protezione poi che l’avvocato Torelli era da poco assessore anziano: ma una romana che era con lei la tirò per la manica quasi a interrogarla rimproverandola. Più oltre un gruppo di giovani che ella non conosceva, ma dagli abiti le parvero forestieri, al loro passaggio, ammiccarono sorridendo. Ella vide anche che il pittore si trovava a disagio in quelle passeggiate così che rifiutò di condurre Bianca nel caffè Clari tra la folla a prendere un gelato; e come Bianca in voce di capriccio puntiglioso insisteva, ella udì Alberto mormorarle da presso irritato: — Non ci mancherebbe altro! È già troppo! E se ne offese, credendo che i due sposini si vergognassero di mostrarsi attorno in sua compagnia. Il ritorno nel pomeriggio fu triste: ancora era caldo e la strada bianca polverosa parve lunghissima. Bianca osò: — Ti sei annoiata con noi? — No. Voialtri, piuttosto... — Noi? — Sì, me ne sono accorta. Io vi... genavo – disse Anna ripetendo i francesismi posticci imparati nella conversazione dell’amica. — Ma, ti pare!... E poco dopo: — Non conoscevate nessuno di quei romani? — No. Oh, son tutti borghesucci!... E Anna tacque umiliata, e la sera se ne andò a letto presto, senza rivedere gli amici. La mattina dopo, come era giorno di festa, ella si acconciò con somma accuratezza secondo le ultime regole. Sperava di sperdere, con la romorosa ammirazione di Oreste, le ultime nebbie della sua tristezza. Oreste giungeva per lo più all’ora della prima messa; e per la messa la campana aveva suonato tre volte, quando Anna ebbe finito di acconciarsi e si guardò nel piccolo specchio, contenta di sè. La campana suonò la quarta volta, l’ultima. E Oreste non veniva. All’improvviso ella udì un’alta voce irosa nella corte: — Nannina, oh Nannina! – e un minuto dopo Oreste irrompeva furioso. — Stupida, stupida, stupida! Ah, si va in giro per Spoleto con certe donne! Ah sì? – e cominciò a batterla. — Oreste, sei matto? Sta buono! Ah, scellerato! — Ma non sai? Non sai che la moglie del pittore non è sua moglie? — Non è sua moglie? E chi è? – gridò Anna arretrando, sfuggendo i colpi. — Chi è? È una sgualdrina qualunque che tutti conoscono a Roma. E tu l’hai presa per una signora, e tutti ridono alle spalle tue. Se avessi udito la Torelli iersera!... — Ma no, è impossibile! Quella è una signora! Ma i dubbii all’improvviso la assalirono: quei discorsi salaci, quel poco amore pel presunto marito, quel nero sotto gli occhi, quel rosso su le labbra... — Oh dio, dio mio! – e cominciò a singhiozzare. — Fra un’ora partiamo. Torniamo a Spoleto. Qui non ci si può stare. Per una signora dabbene l’aria è ammorbata. Ci ho ben pensato: non è ragione sufficiente per sciogliere il contratto. Dobbiamo andarcene noi. Partiremo tra un’ora, – e se ne andò. Anna si rialzò, corse allo specchio, si guardò gli occhi e le labbra, e cominciò a sfregarsi con l’acqua e col sapone disperatamente, e intanto mormorava: — Meno male che Oreste non aveva gli occhiali, altrimenti avrebbe visto il nero, e chi sa che flagello! Poi si tolse l’abito bianco e cominciò a strapparne furiosamente i fiocchetti neri, gettandoli per la camera qua e là, lontano. Poi fece un bel pacco delle due matite, della boccetta di Héliotrope, e ad alta voce, ancora tremando per l’emozione, chiamò Assunta. Invece venne Oreste. Ella tacque confusa. — Che vuoi? – egli domandò un po’ severamente, ma già rabbonito dalle lagrime della moglie. – Che vuoi? — Voglio rimandar questo... a quella... donna... súbito. — Che cos’è? — Una boccetta d’odore – e tacque delle matite. — Acqua d’odore? Eh! una boccetta d’acqua d’odore... non ne vale la pena... Puoi tenertela! Per quel che le costa...

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