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La città dell’amore Il mare

Virgilio



Oggi, domenica, festa degli Ulivi. Cristo entra in Gerusalemme portando in mano il ramoscello della pace. Oggi, buon lettore, si fa la pace. Vi è chi ha litigato con l’amico e chi con l’innamorata: vi è chi ha litigato con la persona indifferente, chi con quella che odia, chi con quella che ama di più: l’impiegato ha litigato col suo capo di ufficio, il marito con la moglie, l’artista ha detto molti improperi all’arte, lo scrittore si è accapigliato con la forma, il portinaio ha litigato col padron di casa. Tutti sono in bizza con qualcuno. Ma oggi una fogliolina, un ramoscello di olivo e la pace è fatta. Anche io ho litigato, e da tanto tempo, con una carissima persona, mentre ho continuato ad amarla piamente, nel segreto del cuore, mentre la sua assenza ha resa deserta e triste la mia casa, mentre la mancanza del suo alito soave ha reso arido e secco come la pomice quanto ho scritto. Questa carissima persona, la poesia, è da tanto tempo che non vuole saperne di me, quando io la desidero ardentemente e per orgoglio mi taccio. Oggi che l’orgoglio si smorza in una infinita tenerezza, voglio tentar di far la pace con la poesia mandandole una fogliolina di ulivo.

Dopo Parthenope, mito e donna, vergine e sirena, misto singolare di fantastico, di ideale, di umano e di divino, cui Napoli deve la sua poetica origine; dopo la poesia di Parthenope, quasi-Dea, creatrice, sorge la poesia di Virgilio, creatore, quasi-Divino. Noi conosciamo Virgilio il poeta delle «Egloghe», delle «Georgiche» e dell’«Eneide»; conosciamo Virgilio, il grande maestro di Dante, ma conosciamo poco Virgilio Mago che ha prodigato alla città diletta fra tutte i miracoli del suo potere magico. Noi siamo ingrati verso colui che esclama:

Illo Virgilium me tempore dulcis alebat Parthenope…

eppure molte cose che allettano ed incantano noi moderni e c’incatenano nella indolente ammirazione di questa bella ed oziosa città, molte cose la cronaca attribuisce alla magia di Virgilio. La cronaca è ingenua, semplice ed in buona fede. La cronaca farà sogghignare gli scettici, poiché essi non hanno più la consolazione di sorridere. La cronaca sarà qualificata una sciocchezza — e tira via. Ma l’oscuro traduttore e commentatore della cronaca gode specialmente di queste ingiurie e di questi sogghigni. Sentite dunque quello che la cronaca dice. Virgilio veniva di lontano, dal nord forse, dal cielo certamente; egli era giovane, bello, alto nella persona, eretto nel busto, ma camminava con la testa curva e mormorando certe sue frasi, in un linguaggio strano che niuno poteva comprendere. Egli abitava sulla sponda del mare dove s’incurva il colle di Posillipo, ma errava ogni giorno nelle campagne che menano a Baia ed a Cuma; egli errava per le colline che circondano Parthenope, fissando, nella notte, le lucide stelle e parlando loro il suo singolare linguaggio; egli errava sulle sponde del mare, per la riva Platamonia, tendendo l’orecchio all’armonia delle onde, quasi che elle dicessero a lui solo parole misteriose. Onde fu detto Mago e molti furono i miracoli della sua magia. In allora Parthenope era molestata da una grande quantità di mosche, mosche che si moltiplicavano in così grande numero e davano tanto fastidio, da farne fuggire i tranquilli e felici abitatori. Virgilio, per rimediare a così grave sconcio, fece fare una mosca d’oro, qualmente egli prescrisse — e dopo fatta, le insufflò, con magiche parole, la vita: la quale mosca d’oro se ne andava volando di qua e di là ed ogni mosca vera che incontrava faceva morire. Così in poco tempo furono distrutte tutte le mosche che affliggevano la bella città di Parthenope. Altro miracolo fu questo: le molte paludi che allora si trovavano nella città, erano dannose, e perchè i miasmi che esalavano guastavano l’aria producendo febbri, pestilenze ed altre morie, e perchè erano infestate da pericolosissime sanguisughe, il cui morso feroce produceva la morte. Fatto un potente scongiuro, Virgilio fece morire le sanguisughe, asciugò le paludi dove sorsero case e giardini e l’aria vi divenne la più pura che mai respirar si potesse. Così, giovandosi del suo potere che era infinito, un giorno egli salì sopra una collina e chiamò alla sua obbedienza i venti ed ordinò al Favonio che spirava nella città nel mese di aprile e col suo caldo soffio abbruciava le piante, i fiori, di mutare direzione: e la flora primaverile crebbe più bella e più rigogliosa. Laggiù nel quartiere che noi moderni chiamiamo Pendino, annidava un formidabile serpente che era lo spavento di ogni uomo avendo già morsicato e strozzato bambini e fanciulle, e quando si mettevano in molti per combatterlo, esso scompariva rapidamente nelle viscere della terra per poi ricomparire più terribile che mai. Chiamato Virgilio in soccorso, egli si avviò tutto solo, ricusando ogni compagnia, al luogo dove s’annidava il mostro e con le sue formule magiche l’ebbe subito domato e morto. Anzi è da notarsi che, sebbene la città fosse eretta sopra un’altra città, nera e malsana, fatta di caverne, sotterranei e cloache, dove potrebbero allignare simili rettili, da quel tempo sinora, mai più ve ne furono.

Quando un morbo fierissimo invase la razza dei cavalli, Virgilio fece fondere un grande cavallo di bronzo, gli trasfuse il suo magico potere e ogni cavallo condotto a fare tre giri intorno a quello di bronzo, era immancabilmente guarito, non senza molta collera di maniscalchi ed empirici che si vedevano superati e sbugiardati. Certi pescatori della spiaggia napoletana e propriamente quelli che dimoravano nel punto chiamato in seguito Porta di Massa, andarono a Virgilio, lagnandosi della scarsa pesca che vi facevano e chiedendo a lui un miracolo. Virgilio li volle contentare e in una grossa pietra fece scolpire un piccolo pesce, disse le sue incantagioni e piantata la pietra in quel punto, il mare fruttificò mai sempre di pesci innumerevoli. Virgilio fece mettere sulle porte di Parthenope, verso le vie della Campania, due teste augurali ed incantate, una che rideva e l’altra che piangeva: onde colui che capitava a passare sotto la porta dove la testa rideva ne traeva buon augurio per i suoi affari che sempre riuscivano a bene ed il contrario colui che passava sotto la testa piangente. Fu Virgilio che in poche notti fece eseguire da esseri sovrannaturali la grotta di Pozzuoli, per facilitare il viaggio agli abitanti di quei villaggi che venivano in città; fu Virgilio che, per la sua virtù sorgere un orto di erbe salutari per le ferite ed ottime come condimento alle vivande; fu Virgilio che insegnò ai giovani i giuochi delle melarance e delle piastrelle che s’ignoravano; fu Virgilio che di notte incantò le acque sorgive della riva Platamonia e della riva di Pozzuoli, dando loro singolare potenza per guarire ogni specie di malattia; fu Virgilio che applicando certi suoi rimedii e proferendo gli scongiuri, sanò molti e molti ammalati; fu Virgilio che volendo salvare la campagna del suo discepolo Albino, svelò il mistero dell’antro cumano dove i sacerdoti ingannavano il popolo coi responsi falsi, prodotti da una naturale combinazione di suoni. La cronaca soggiunge che Virgilio Mago fu amato, rispettato, idolatrato quasi come un Dio, poiché giammai rivolse la sua magia a scopo cattivo, sibbene sempre a vantaggio della città e dell’uomo. La cronaca non dice quando e dove morisse Virgilio: molti allora credettero alla sua immoralità; qualcuno alla sua morte su quel colle presso Avellino che chiamasi Montevergine, dove s’era ridotto a studiare ed era diventato vecchissimo. Ad ogni modo gli abitanti di Parthenope gli eressero un grande monumento che poi fu distrutto; quello che sorge all’imboccatura della grotta essendo un semplice colombario. Ma non ebbero alcuna sicuranza di fatto il sito e il modo e l’epoca della sua morte.

Ebbene poc’anzi ho errato dicendo che noi non conoscevamo Virgilio Mago. Non vi è che un solo Virgilio: quello che la favolosa cronaca delinea nelle ombre della magia è proprio il poeta. Invero egli non ha avuto che una magia sola: la grandiosa poesia del suo spirito. Nella cronaca è il poeta. Il poeta con le sue lunghe peregrinazioni per quella orrida, bella e straziata campagna che sono i Campi Flegrei, donde egli fantasticava dell’Averno e dello Stige; con le sue lunghe peregrinazioni nella Campania Felice, dove egli ha acquistato quell’amore profondo della natura, l’amore dei campi ubertosi che si stendono all’infinito sotto il sole, dei prati verdeggianti dove pascola quietamente il bove dai grandi occhi nei quali il cielo si riflette, l’amore dei boschi oscuri e silenziosi dove l’anima si calma e s’assopisce nella pace, l’amore dei colli aprichi, dove i liberi venti fanno ondeggiare tutta una coltivazione di fiori; l’amore dell’uccello che canta e vola via, dell’insetto dorato che ronza, della foglia che il turbine si porta, della forte quercia che nulla scuote: quell’amore profondo della natura che è il sentimento più alto del suo poema, che è la magia per cui ancora c’incanta, che è — con una parola troppo moderna, ma vera — la nostalgia del suo cuore che lo fa esclamare… «fortunatos agricolas,» che dà alla sua descrizione tanto colore, tanta luce, tanta vita. È il poeta che cerca ed interroga ogni angolo oscuro della natura; è lui che parla alle stelle tremolanti di raggi nelle notti estive; è lui che ascolta il ritmo del mare, quasi fosse il metro per cui il suo verso scandisce; è il poeta che conosce la virtù dei semplici, è lui che ha scoverte certe leggi naturali, ignote a tutti; è il poeta civile che uccide le bestie, fa rasciugare le paludi e fa sorgere a quel posto palagi e giardini; è il poeta che insegna ai giovani i giuochi dove il corpo si fortifica e l’anima si serena; è lui, sublime fantastico, che stabilisce l’augurio della buona o della mala ventura; è lui che come calamita fortissima attrae a sè l’amore, l’ossequio, il rispetto; è Virgilio poeta. E nulla si sa della sua morte. Come Parthenope, la donna, egli scompare. Il poeta non muore.

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