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CAPITOLO NONO.
Nel Villino delle Spine.
I.
Donna Fedele fece portare Lelia svenuta in una camera a due letti, la fece spogliare e mettere a letto. Intanto la fanciulla rinvenne, si guardò attorno sbalordita, spinse via, con un gemito, le mani della cameriera che la componevano sotto le coltri, si eresse con mezza la persona sui gomiti. Donna Fedele ordinò alle due persone di servizio di uscire e accennò loro che restassero nell’anticamera. Chiuse l’uscio, si avvicinò a Lelia, l’accarezzò, le disse piano: «Hai avuto un accesso di sonnambulismo, ti prego di star quieta perchè mi sento tanto male, ho tanto bisogno di riposare anch’io». Le fece dolcemente forza perchè ripiegasse il capo sul guanciale, spense la luce, si coricò silenziosamente nell’altro letto. Soffriva davvero, tanto che poco prima si era quasi decisa di farsi visitare, finalmente; non per paura della morte ma per uno scrupolo di coscienza. Ora tutta l’anima sua era protesa sopra l’altro letto, sopra l’altro corpo, sopra l’altra smarrita infelice anima che aveva cercato, non ne dubitava un momento, di morire. E la maggiore sua pena era l’umiliazione che Lelia doveva provare del tentativo non riuscito. Spasimava d’ingannarla, di farle credere che nessuno avesse sospettato il vero.
Non una sola parola era ancora uscita dalle labbra di Lelia. Parve a donna Fedele, un quarto d’ora dopo spento il lume, ch’ella si movesse nel letto. La chiamò sottovoce:
«Lelia.»
Nessuna risposta. Chiamò più forte: «Lelia!». Niente. Non osò insistere, alzò e porse un poco il capo dal guanciale, volendo vedere. Le parve che fosse supina e immobile, ma non potè discernere se gli occhi fossero chiusi o aperti. E continuò a tender l’orecchio. Il gran vento di Val d’Astico ruggiva intorno al villino. Discese pian piano dal letto, schiuse l’uscio dell’anticamera per licenziare le cameriere. Al chiarore che un’obliqua lama di luce mise nella camera, vide Lelia voltarsi rapidamente sul fianco, verso la parete. Ritornata a letto, le domandò, non tanto sottovoce, se fosse stata sonnambula anche da bambina. Lelia non rispose. «Certo» disse donna Fedele «devi esserlo stata anche da bambina.» E non udì più, per la intera notte, che movimenti inquieti della sua vicina e il rombo, le urla del gran vento di Val d’Astico. Mortalmente lunga, mortalmente penosa notte! All’alba Lelia si assopì, la sua respirazione diventò affannosa. Donna Fedele scese dal letto, le posò una mano sulla fronte. Bruciava. A quel tocco la dormente trasalì, balzò a sedere sul letto, gemette: questa non è la mia camera, questa non è la mia camera! L’angosciata amica le ricordò con parole tenere ch’era uscita di casa dormendo, ch’era caduta. Sperava, soggiunse, che fosse contenta di averla vicina. Lelia la interruppe: caduta? Come, caduta? No, caduta! In quella mente turbata dalla febbre la parola — caduta — si era confusa colla forma del disegno funesto; ella dubitava di averlo posto in opera senza morirne. Donna Fedele l’abbracciò e se ne sentì alla sua volta abbracciare, baciare, bagnar di lagrime, chiudere, quasi, nella vampa e nell’odore di una febbre ardente. Durò fatica a sciogliersi dall’abbraccio, a ricomporre la fanciulla sotto le coltri. Suonò per la cameriera, ordinò che si mandasse il custode a chiamare il medico.
Si vestì con doloroso sforzo e, quando il medico venne, lasciata la cameriera presso Lelia, gli confidò quello ch’era strettamente necessario confidargli. La ragazza era uscita di notte in un momento di grave agitazione morale, determinata da fatti familiari. Era caduta presso il cancello, aveva perduto i sensi. Le si era fatto credere, per rispettare i suoi intimi sentimenti, che si attribuiva la sua uscita notturna a un fatto di sonnambulismo. Il medico era pregato di regolarsi così nel discorrere coll’ammalata. Questa si rifiutò di prendere checchessia, nè medicine, nè cibo di alcun genere. Era sovreccitata dalla febbre alta e parlava, parlava, quasi continuamente. Parlava sempre di sonnambulismo e di sonnambuli. Non si tradì mai. La sua preoccupazione morbosa era di fornire conferme al giudizio di donna Fedele. Solo una volta cambiò di argomento. Nominò il povero signor Marcello e, guardando l’amica, s’intenerì. La febbre declinò verso sera. Le successe un periodo di taciturnità cupa. Il medico venne a notte, la trovò quasi sfebbrata, cercò di scherzare. Smise subito, tanto il bel viso pallido si fece ostile. Trovò invece accesa in viso, febbricitante, la padrona di casa. La vera causa delle sofferenze di donna Fedele era ignota a lui come a tutti. Egli attribuì il suo stato a stanchezza, le raccomandò di dormire sola, in pace. Ella sorrise e tacque. Non era la pace, per lei, dormir sola. La pace, per lei, era donarsi tutta a quella giovine, non tanto per amore di lei, quanto per la memoria del signor Marcello, per amore dell’amore che il signor Marcello aveva continuato al figlio suo, morto. Si fece ancora preparare il letto accanto a quello di Lelia. Soffriva, beata di soffrire, della coscienza di una vita tanto piena quanto non lo era stata mai.
Aveva l’abitudine di leggere a letto, ogni sera, un capitolo dell’Imitazione, il libro che il venerato padre suo aveva avuto più caro dopo il Vangelo. Domandò a Lelia se la luce le desse noia. Avrebbe fatto a meno di leggere. Dovette ripetere la domanda due volte prima di ottenere risposta. Venne finalmente un no quasi inintelligibile. Allora pensò bene di spegnere. Udito di lì a poco un sospiro, chiamò:
«Lelia.»
Poichè, al solito, non venne risposta, riprese:
«Mi permetti di parlarti?»
Silenzio.
«Di me, sai. Vorrei parlarti di me. Avrei da farti una preghiera che riguarda me. Mi permetti?»
Stavolta venne un sì doloroso. Quella voce pareva dire: non posso negare, ma perchè tormentarmi?
«Scusa» ricominciò l’altra voce, dolce e grave: «Vorresti dormire?»
Lo stesso gemito di prima:
«No.»
Donna Fedele tacque alcuni istanti, ordinandosi nella mente un discorso pensato per un fine di gran valore e per esser detto nelle tenebre. Forse la luce le ne avrebbe tolto il coraggio.
«Mi dai la tua parola» diss’ella «che non ripeterai a nessuno quanto ti dirò?»
L’altra voce, triste ancora ma non flebile:
«Sì.»
Nuova pausa.
«Tu non sai» cominciò lenta lenta donna Fedele «e nessuno sa, nessuno deve sapere che sono condannata a morire presto; credo molto presto.»
Aspettò una parola, un moto di sorpresa, di protesta. Niente; silenzio. Continuò.
«Sono ammalata da più di un anno. Mi è ripugnato sempre di farmi visitare e forse adesso sarebbe troppo tardi. Soffro molto. Ma le mie sofferenze non sono solamente fisiche, ne ho anche una morale.»
La voce lenta si abbassò.
«Vi è stata nella mia vita un’ora terribile. Mi sono innamorata, a diciotto anni, di un uomo che non era libero. Tu hai già indovinato chi era. Non l’ho amato di un amore puramente ideale, no. L’ho amato con tutta la mia anima e con tutto il mio sangue. Fortunatamente egli non ricambiò la mia passione, mi chiese silenziosamente la rinuncia. Allora pensai a morire. Studiai un modo di morire che non paresse suicidio, perchè il dolore di mio padre non fosse troppo amaro. Una corsa in montagna, un passo difficile, uno sdrucciolone. Fortunatamente ancora, mio padre ammalò. Non aveva che me, perchè mia madre morì quando avevo tredici anni. Il mio amore per lui, che si era alquanto assopito durante l’altra passione, si risvegliò. E si risvegliò anche il mio sentimento religioso. Non posso dire se mio padre avesse letto qualche cosa nel mio cuore. Certo egli mi parlava, durante la sua convalescenza, di Dio, di Cristo, dell’anima, del dolore, dell’amore, senza severità di ammonimenti, ma con una grande dolcezza, con una tenerezza che mi rivelò tutto il male della mia passione e dei miei propositi di suicidio. Le monache del mio collegio non mi avevano data che una vernice di religione. Fu mio padre che mi fece credere col cuore e amare la mia fede. Povero papà!»
Donna Fedele tacque, commossa dalla mesta riconoscenza che, a parlarne, si riaccendeva. Dall’altro letto nessun segno di vita. Ella domandò:
«Ti stanco?»
Il «no» che venne stavolta non era nè flebile nè triste. Era un no sommesso, breve, tronco; un no avido, quasi.
«Il più doloroso viene adesso» riprese la narratrice. «Quando mio padre morì, avevo ventisette anni. Vivevo a Torino con una dama di compagnia che mio padre mi aveva presa perchè mi accompagnasse in società e mi aiutasse a ricevere. Vedevo molta gente. Fui amata da un ufficiale più giovine di me, povero, di molto ingegno, di molto valore morale. Mi era simpatico, ho creduto di poterlo riamare ed ebbi il torto immenso di non sapergli nascondere il mio sentimento. Così lo aiutai a illudersi. Mi domandò di sposarlo e allora, troppo tardi, intesi che potevo avere con lui un legame d’anima, un altro legame no. Gli risposi così. Egli prese congedo senza una parola, andò a casa....»
«Si uccise?» mormorò Lelia.
Donna Fedele non rispose. Si accorse di una piccola mano che strisciava sulla sponda del suo letto, la cercò, la prese, sentì la propria esser tratta verso l’altro letto, essere sfiorata da due labbra calde. Era un premio del grande sforzo che aveva fatto per aprire il suo cuore a quella persona quasi straniera. amata di un affetto riflesso.
«Cara» diss’ella sottovoce. Per qualche momento non fu in grado di riprendere il suo racconto.
«Era figlio unico» proseguì, finalmente. «Aveva la madre e una sorella. Restarono quasi nella miseria. Mi odiarono perchè credevano che io l’avessi prima adescato e poi respinto. Mai non avrebbero accettato soccorsi da me. La madre morì. La sorella vive a Torino, sola. Ti darò il suo indirizzo. Io la soccorro senza ch’essa lo sappia. Se le lasciassi qualche cosa per testamento, non vorrebbe accettare. La mia preghiera è questa: quello che vorrei lasciare a lei lo lascerei a te e tu continueresti a soccorrerla come faccio io adesso. E ti pregherei anche di vederla, quando sarò morta; di persuaderla che io non l’ho adescato, suo fratello, che ho solamente creduto, ingannandomi, di poter corrispondere al suo sentimento e che il dolore del mio fallo l’ho portato con me fino alla morte. Lo farai?»
Stavolta fu donna Fedele che stese una mano alla sponda dell’altro letto. La mano fu presa e stretta come in una morsa. Risposta non venne Donna Fedele ripetè: «lo farai?».
Sentì premersi il dorso della mano, a due riprese, sopra due occhi umidi, udì un sussurro:
«Lei non deve morire, Lei deve guarire.»
«Ma, se non guarisco, lo farai?»
La mano prigioniera patì una stretta violenta.
«Non mi costringa a rispondere subito!»
A queste parole di Lelia, donna Fedele ritirò la mano, che non fu trattenuta, e tacque. Lelia esclamò, di soprassalto:
«Lo so...!»
E non andò più avanti.
«Cosa?» chiese donna Fedele.
«Niente» diss’ella.
Tacquero ambedue, per un minuto. Poi Lelia, piano piano, discese dal letto, stese le braccia intorno al capo dell’amica, le posò il viso sul petto.
«Lo so» diss’ella con un fil di voce «perchè vuol dare quest’incarico a me. Lo so, perchè mi ha fatto cambiare di camera. Lo so...»
«Zitto!» fece donna Fedele cercando alzarle colle mani il viso e chiuderle la bocca. E perchè l’altra ricominciava «lo so...», le impose con forza di tacere e di ritornarsene a letto.
«Mi risponderai domattina» diss’ella.
Lelia non espresse nè un rifiuto nè un assenso, ritornò, sospirando, a letto. Dopo un poco, udendo l’amica muoversi le domandò se avesse prima spenta la luce per causa sua, la pregò di riaccenderla per leggere, secondo la sua abitudine. Poichè l’amica, infatti, accese e si mise a leggere, desiderò sapere cosa leggesse. E l’amica, senza dirle il titolo del libro, ne andò sfogliando le pagine, lesse ad alta voce:
«Ora spesso gemo e porto con dolore l’infelicità mia, perchè molti mali incontrano in questa misera valle onde sovente mi turbo, mi attristo, mi rannuvolo, e, preso nei loro lacci e stretto e tratto, sono impedito di venire liberamente a Te.»
Qui si fermò.
«A chi, a te?» chiese Lelia.
«A Gesù Cristo.»
Lelia non parlò più. Donna Fedele continuò silenziosamente la lettura per pochi minuti e spense.
Verso l’alba donna Fedele ebbe dolori acuti che le strapparono un lamento. Lelia, ancora insonne, balzò dal letto accese la luce, assistette come potè la sofferente, che, vedendola angosciata di pietà, le sorrideva pur non valendo a ringraziarla colla voce. Si quietò solamente a giorno fatto.
«Dunque» diss’ella «non mi darai quella consolazione? Vedi in che stato sono.»
«Mi prometta prima Lei» rispose Lelia «di farsi visitare, a Padova o a Torino, e di curarsi.»
«E poi, tu, prometterai l’altra cosa?»
La risposta, pronta e decisa, fu:
«Sì.»
Donna Fedele promise e, stese le braccia, raccolse Lelia in un lungo abbraccio. Nella giornata si sentì molto meglio, sperò, anche per esperienze passate, in un periodo di calma e fece i suoi piani per l’adempimento della promessa. Ragioni d’interesse la consigliavano di recarsi a Torino dove dimorava il suo agente. Pensò che si farebbe visitare da Carle e poi, se Carle lo permettesse, andrebbe un poco al fresco, o verso il Rosa o in Val d’Aosta. Chi sa se il signor Camin avrebbe permesso a sua figlia di accompagnarla? Lelia dichiarò nel solito suo modo tronco, sfidante, che andrebbe senza permesso. L’amica le diede, sorridendo, della bambina, le disse che suo padre aveva il diritto di farsela ricondurre a casa dai carabinieri. «Non oserà mai!» rispose Lelia, pensando alle tante lettere umili ch’egli le aveva scritte, ai denari che tante volte gli aveva spediti. Donna Fedele alzò un poco le sopracciglia e tacque. Poi scrisse, per proprio conto, a Camin. Il custode portò la lettera alla Montanina e riferì che il signor da Camin era atteso per la mattina seguente. Lelia dichiarò, prima ancora di venire interrogata, che se suo padre capitasse al villino, non intendeva di vederlo. Lo disse con tanto risoluta fierezza che la sua prudente amica credette bene di non farle, in quel momento, alcuna osservazione. Mise l’argomento da parte per la conversazione intima della notte. Aveva offerto a Lelia la sua camera di prima e Lelia aveva rifiutato, desiderava poter assistere l’amica materna, se ne avesse bisogno. L’amica materna ne fu assai contenta, parendole poter lavorare quell’anima più facilmente nella notte.
Infatti, la sera stessa, appena spento il lume, la interrogò.
«Dunque, se tuo padre viene?»
«Se mio padre viene, non sono ancora ben guarita, ho mal di capo, non sono in grado di vederlo.»
Donna Fedele osservò con dolcezza, sottovoce, che non era possibile. Era contro le convenienze, era contro il suo dovere filiale, era contro il suo interesse. Lelia protestò che non le importava di convenienze nè d’interessi. Ma il dovere? ribattè donna Fedele. Che dovere! Verso un padre simile? Gli aveva dato denaro, gliene darebbe ancora, se ne avesse; ma basta. Tanto, egli non desiderava che denaro. Affetto no, certo.
«Tu sei religiosa» si arrischiò a dire donna Fedele.
«Questo non c’entra.»
«Oh sì, c’entra!»
Lelia tacque.
«Ma io non so» esclamò a un tratto «se sono religiosa!»
«Non lo sai?»
Donna Fedele aveva messo il discorso in quel campo, non tanto per ricordare a Lelia il carattere religioso dei suoi doveri filiali, quanto per saggiare la religiosità di una donna che aveva tentato il suicidio. Lelia rispose asciutta:
«No, non lo so.»
«Ma preghi, però.»
«Adesso non prego più. Almeno come insegnano i preti. Li detesto.»
«Oh perchè?»
Lelia non rispose.
«Ho avuto una cameriera» disse donna Fedele «che non volle più bere vino perchè una volta sbagliò bottiglia e bevette inchiostro.»
Lelia tacque un poco e poi uscì a domandare:
«Lei, in religione, che idee ha?»
«Te le ho già dette. Sono una cattolica all’antica e non confondo i preti cattivi colla religione.»
«Credevo che avesse le idee...»
La fanciulla non rispose, neppure poi che donna Fedele le ebbe domandato: «di chi?». Allora questa indovinò.
«Ma cosa ne sai tu» diss’ella, «delle idee di quella persona?»
«Già!» esclamò Lelia, sdegnosamente. «Con Lei non si può toccarla!»
Donna Fedele scattò, dimentica dell’usata prudenza:
«Se non hai capito il suo sentimento, cara, tanto meno puoi capire le sue idee!»
L’altra mormorò: «Il suo sentimento! Non si è mica suicidato, lui».
Le parole che toccavano storditamente, senza necessità, una corda tanto dolorosa per donna Fedele, la ferirono nel vivo.
«Non si è suicidato!» rispose. «Tu non capisci cosa sia religione e Alberti lo capisce.»
Dopo di che nè l’una nè l’altra parlarono più, neppure per darsi la buona notte.
II.
Poco dopo le undici della mattina dopo, il sior Momi spinse lentamente, riguardosamente, il cancello grande del villino delle Rose. La sua onesta intenzione era di spingere avanti con eguale dolcezza, con eguali riguardi, qualche paroletta che suonasse desiderio di avere la figliuola con sè, ma di non insistervi e sopra tutto di rendersi gradito all’amica e consigliera di Lelia. Non gli passava per la mente di sfoderare con lei i diritti paterni sfoderati coll’amico Molesin. Poichè gli restavano pochi mesi di governo, il suo piano era fatto: appropriarsi in questi pochi mesi il più possibile dei valori mobili della sostanza; fare l’umile e il contrito perchè Lelia, diventata maggiorenne, gli concedesse un largo trattamento; dare a bere al caro sior Checco quanto importasse per ottenere a buoni patti il concordato coi creditori. Comprendeva che Molesin mirava a fargli tirare la figlia in casa collo scopo che tenendovela, dominandola, impedendole un matrimonio qualsiasi, egli diventasse di fatto padrone della sostanza Trento, e poi scendesse ad altri patti coi creditori per la paura che gli lavorassero contro la ragazza. Le sue proprie mire non andavano a quella piena conquista. Tenersi insieme in casa la figlia e la Gorlago non era possibile. Lelia lo avrebbe piantato subito e male. Licenziare la Gorlago gli era meno possibile ancora. Avara come lui, energica più di lui, ella lo appassionava colla propria sensualità zotica e violenta. Nè l’uno nè l’altra si erano fedeli. Eppure, a modo loro, si volevano bene. Litigare, talvolta infernalmente, sì; separarsi, mai.
Il sior Momi s’inoltrò pian piano per il viale dei tigli che parte dal cancello, fece il giro del villino, non sapendo quale ne fosse l’entrata ufficiale, se la veranda della facciata o la porticina del lato opposto. Battè molto le palpebre e infine preferì, per istinto, porgere il capo, umilmente, dentro la porticina. Al suo «con permesso» seguito da una gran soffiata di naso, la cameriera discese correndo le scale, lo introdusse in salotto, andò ad avvertire la signora.
All’opposto del dottor Molesin, il sior Momi, davanti a persone di riguardo, s’irrigidiva. Al vederlo così stecchito, con quel muso di cartone e le palpebre rosse battenti sugli occhi vitrei, donna Fedele si domandò ancora se fosse un volpone o proprio uno stupido. Mentre gli ripeteva, presso a poco, le cose scrittegli, egli emetteva delle frasi rotte, dei ringraziamenti senza oggetto, degli «eh capisco» inintelligenti, dei «lascio libera, lascio libera» monchi di sostantivo e di pronome. Quando la signora accennò al carattere un po’ eccentrico della figliuola per disporlo al possibile rifiuto, da parte di lei, del colloquio ch’egli certo desiderava, mise fuori anche qualche «aho aho» d’ilare consenso. Poi approvò espressamente il viaggio di Torino. «Contentissimo, poi. Eh contentissimo, sissignora. Un onore poi, un onore.»
Finalmente pronunciò anche lui il suo discorso autonomo. «Se non disturbo... se non disturbo... pregherei... se non disturbo.» Più di così non gli uscì di bocca. Donna Fedele intese che quella era la domanda ufficiale di vedere Lelia. Era questo ch’egli desiderava? «Ecco, per ubbidirla, sissignora.» Ella disse che Lelia non stava ancora troppo bene ma che l’avrebbe fatta avvertire. Le aveva imposto, prima, con tanta energia di ricevere suo padre s’egli chiedesse di lei, che la fanciulla piegò.
Lo ricevette in piedi, ferma, con una faccia sepolcrale. Egli le si avvicinò premuroso, non più stecchito, balbettando «ciao, ciao, ciao - come stai, come stai, come stai?» La baciò sulle due gote. Ella ebbe un brivido ma si lasciò baciare, rigida come una statua. Non gli disse di sedere. Egli sbirciò una sedia e non osò pigliarla. Lodò il viaggio di Torino. Brava, brava, contentissimo, contentissimo. Poi cavò il portafogli, disse che avendogli la signora scritto di questo viaggio, egli le aveva portato «i cosi.» Tolse dal portafogli e le porse un pacchetto di biglietti da dieci lire.
«Cambiate le cose!» diss’egli «Aho aho! - Eh, ma roba tua, roba tua! Pochi mesi ancora, renderò conto!» Un’altra risata cretina e il sior Momi cambiò ingenuamente il suo ammirativo in interrogativo: «Vero? Renderò conto?».
«Non importa!» rispose Lelia con piglio sprezzante, senza misurar molto il valore della parola. Il sior Momi la trovò ghiotta, la ingoiò lentamente, se ne beò nello stomaco, perdonando a Lelia di tenerlo lì in piedi come un servo.
«Sei stata poco bene, vero?» diss’egli poi, con tenerezza patetica. «Cosa? Febbre? Influenza? Indigestione? Anemia?»
Tirò tutte queste interrogazioni di seguito come affrettati colpi secchi di rivoltella.
«Una reumatica» rispose Lelia.
«Ecco, reumatica. E quando ritorni da Torino, vieni a casa?»
«No»
«Ben ben ben ben ben» fece il docile umile genitore, continuando lo sdrucciolone nel dialetto dall’italiano usato sempre colla figliuola, dopo il collegio. Avrebbe voluto prender congedo con un altro bacio ma non osò. Il sior Momi era un furbo realmente timido. Il suo parlare impacciato e tronco, i suoi goffi — aho aho — i suoi irrigidimenti davanti a persone di riguardo erano veramente fenomeni di certa timidezza nervosa, altro dono, prezioso quanto il viso cretino, che serviva come un grosso colore di verginale innocenza sopra le linee fini dei suoi disegni. Anche la superiorità intellettuale e morale, il contegno altero della figliuola gli mettevano soggezione.
«Scriverai?» borbottò nell’uscire.
La risposta di Lelia fu: «addio». Il sior Momi discese le scale, non dimenticò donna Fedele, le si presentò, duro duro: «complimenti, complimenti, contentissimo, felice viajo, desidero.»
E infilò la porta, meditando già di riferire al caro Molesin che aveva dovuto cedere, che la figliuola gli era stata ostilissima, che non c’era da godere alcun pezzo di quella torta, a meno, Gesummaria di rubarlo.