Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo VII | Capitolo IX | ► |
CAPITOLO OTTAVO.
Sante alleanze.
I.
Tre giorni dopo, un venerdì, il ragioniere Girolamo Camin, il dottor Francesco Molesin e Carolina Gorlago, governante del Camin, arrivati insieme ad Arsiero col primo treno, si acconciarono alla meglio, con borse e ombrelli, in una delle carrozzelle che sempre abbondano in quella stazione per trasportare viaggiatori al paese di Arsiero, a Tonezza, a Lavarone. Il dottor Molesin, all’atto di salire, fece qualche complimento colla Carolina; ma poi, incoraggiato dall’amico Momi, l’amico Checco salì nell’interno. La Carolina, una robusta donna sui trentacinque anni, dalla faccia volgare e dalla voce grossa, si arrampicò imbronciata a fianco del vetturale che frustò il cavallo e prese la via della Montanina.
Il ragioniere Camin, che si faceva chiamare da Camin in onore della celebre famiglia antica di quel nome, era brutto di una bruttezza particolare, non tanto disegnata nei lineamenti come puzzante, dalle tumidezze, dalle cisposità, dai colori falsi di quel viso giallognolo, di quegli occhi rossi, di quel collare di barba, mezzo tinto e mezzo stinto, misto di grigio, di rossastro e di violaceo.
Portava un cappello di paglia, un lungo zimarrone color oliva, vecchio di un secolo, una sciarpa, sulle spalle, di seta rossa e gialla, pronta a riparare il collo padovano dai temuti aliti delle montagne iperboree di Val d’Astico. Per consiglio dell’amico anche il dottor Molesin, chiuso in un soprabito marrone, portava intorno al collo una pesante sciarpa bianca e nera. Il dottor Molesin non somigliava per niente all’amico. Più vecchio di lui, pareva più sano. I piccoli occhi cisposi del sior Momi avevano una fissità vuota di qualsiasi espressione. Quelli del sior Checco, piuttosto grandi e bruni, spiravano, sotto il decoroso cappello di feltro, certa gravità malinconica. Erano malinconici anche nel sorriso. Molesin non portava che baffi, due baffetti fra biondeggianti e grigi sotto le narici selvose. La donna grandeggiava accanto al piccolo vetturale, un ragazzo, sotto un modesto cappellino nero, un boa mezzo spelacchiato, un mantelletto nero, una sottana cenere. I due viaggiatori dell’interno parevano alquanto preoccupati dell’età giovanile del cocchiere. Il dottor Molesin, particolarmente inquieto, non osava abbandonare il dorso allo schienale della carrozzella, perseguitava d’interpellanze, con detrimento della propria gravità abituale, il ragazzo: « - Ciò, digo! - A pian, digo! - Perchè i me par siti da romperse el colo, digo!» L’altro non era certamente un viaggiatore intrepido ma forse il timore di una ribaltata non era, nel suo cuore, la inquietudine più grossa. Aveva notato il broncio della Carolina e le blandiva spesso le spalle poderose con parole di affettuosa premura: «Se tienla? - La se tegna! - La se tegna, sala!» La grossa Carolina stringeva forte colla sinistra il ferro del serpe, ma non degnò mai rispondere. Passato il ponte del Posina, che fece rabbrividire Molesin, la carrozzella si mise al passo.
«Signor, Ve ringrazio» mormorò il sior Checco.
Udito che la Montanina era vicinissima, considerata l’andatura flemmatica del ronzino, riprese coll’amico la conversazione di affari che avevano interrotta lasciando il treno. Il vetturino, curioso come un giornalista, udendo che i due discorrevano animatamente di cose da lui non capite, cercò di far cantare la sua vicina. Chi era il signore che stava dietro a lui? La donna rispose asciutta:
«So minga.»
«E Ela, xela parente de quell’altro sior che xe de drio de Ela?»
«So minga.»
«Maledeta!» pensò il ragazzo linguacciuto. E si divertì a tormentarla con un’altra domanda:
«No la xe miga de sti paesi, Ela?»
«Sonto di un paese più meglio.»
Quegli non si attentò a domandarle altro.
Era di Cantù. Un capomastro comasco l’aveva conosciuta serva di osteria e, sposatala, se l’era portata a Padova. Divisasi dal marito, ell’aveva preso servizio presso il sior Momi, prima come cuoca, poi come governante. Infatti serviva e governava. Da giovine, Momi Camin era stato ascritto al partito clericale. Poi, avendo arrischiata la prigione per certi imbrogli, n’era stato escluso. Dopo un breve passaggio al radicalismo anticlericale dove, allora, c’era poco da rodere, aveva preso a servire, agente elettorale apprezzato e disprezzato, i moderati. Le necessità di un’alleanza clerico-moderata lo avevano messo nuovamente in relazione cogli amici antichi, alcuni dei quali, brave persone, lo ritenevano calunniato, gli concedevano una stima che nessun altro, a Padova, gli concedeva più. Egli aspirava a ritornare in grazia del partito. La Carolina era una difficoltà, benchè quelle brave persone si ostinassero a credere ch’egli peccasse, a tenersela in casa, d’imprudenza e non d’altro. I capi del partito erano meno babbei. Davanti alla chiesina di Santa Maria, il dottor Molesin si toccò rispettosamente il cappello. Camin se lo toccò pure, ma in ritardo. Allora Molesin fece una smorfia quasi impercettibile.
«Parcossa?» disse il sior Momi, con un sorriso stentato.
«Gnente gnente» rispose l’altro.
Si erano intesi benissimo. Molesin aveva voluto dire, pensando alla Carolina: non basta toccarsi il cappello. E il sorriso del sior Momi era stato mezzo di smentita e mezzo di confessione soddisfatta.
«Xela questa, sta Montanina?» chiese Molesin alzando gli occhi lungo il pendìo verde di cui la carrozzella radeva il piede. Considerato il gran cappello aguzzo della villa, i piccoli sparsi cappelli aguzzi della cucina, della scuderia e della chiesa, ricordò i cosidetti casoni del piano, capanne dal tetto di paglia, e pronunciò il seguente giudizio memorabile:
«Un cason che gà famegia.»
Il sior Momi rise di un suo riso particolare - aho aho - a bocca spalancata.
«Bela bela bela» diss’egli. «Un cason, aho aho.»
La finezza del dottor Molesin gli si leggeva in viso. Quella del sior Momi era molto più recondita, portava una perfetta maschera d’insulsaggine. Momi Camin pareva un insulso timido che sapesse soltanto far eco, ridacchiando, alle parole argute dei suoi interlocutori. Soleva poi risuggerirle all’autore, per adulazione. Quel giorno, perchè Molesin si scandolezzava della strana casa, ebbe a ripetergli due volte, guardandolo cogli occhi stupidi:
«Cason, aho aho. Cason che gà famegia, aho aho aho.»
Teresina e Giovanni ricevettero i nuovi arrivati all' all'entrata di mezzogiorno. Giovanni, a vedere quel carico di zimarroni e di sciarpe eteroclite, per poco non scoppiò a ridere. Teresina invece aveva un viso funebre. Ella accompagnò la governante del nuovo padrone nella stanza del secondo piano, che le aveva destinata. Per via la governante le annunciò che sapeva com’ella fosse la cameriera della «popòla», della «süra Lella». Forse perchè «el Lella» è un personaggio popolare in Lombardia, la Gorlago non seppe mai nominare Lelia che così.
«Andaremo d’accordi» diss’ella nel suo lombardo macchiato di padovano. Poi le fece gli elogi del suo «sciòr», proprio un buon omaccio, di cuore.
«Però» soggiunse con un sorriso degno dell’originaria osteria, «che La se guarda, perchè ghe pias minga mal i bej donnett.» «Eh ben» rispose Teresina rossa rossa «no l’è discorsi per mi no, questi.» E pensò: «Gèsu, che compagnia!» La Gorlago fu poco soddisfatta della camera ch’era spaziosa e alta ma prendeva luce da un abbaino. Prese possesso, senza cerimonie, d un’altra camera, sulla fronte della villa, sopra il salone in casa la chiamavano la camera delle rondinelle, pe certa decorazione. Il povero signor Marcello aveva detto a Teresina, molti anni addietro, quando suo figlio era ancora un ragazzotto: «nella camera delle rondinelle andranno i bambini di Andrea. Teresina lo ricordava bene e quando la Gorlago, con quell’aria di donna mal ritirata dagli affari sporchi, entrò lì dentro da padrona, si sentì venir le lagrime agli occhi e andò a sfogarsi nella sua camera. Vi capitò subito Giovanni. Il padrone la voleva. «Che padrone! La padrona è la signorina» diss’ella, irritata. «Io credo» rispose Giovanni «che non ci pagherà mica la signorina. Sarà lui che ci pagherà. E allora io lo chiamo padrone.»
Il sior Momi si era scelta la stanza d’angolo al primo piano, che guarda la cucina. Poco gl’importava della vista, a lui; quella camera lì era buona per la vigilanza sui domestici, per spiare e origliare. Domandò se il caffè e latte fosse pronto anche per la governante e quale camera avesse occupato costei. Udito che non era stata contenta di quella preparatale, la sua maschera barbuta di vecchia cera non fece una grinza nè gli occhi cisposi espressero un sentimento qualsiasi; ma la bocca disse con una voce di automa: «male male male» per l’abitudine antica di blandire, nelle prime, chiunque gli parlasse. Finalmente domandò di Lelia. Teresina aveva una lettera, per lui, di donna Fedele. Gliela diede e si ritirò, dicendo che andava a portare il caffè e latte in sala da pranzo. Appena uscita rientrò, esitante. Anche la governante avrebbe preso il caffè e latte in sala da pranzo? Stavolta la maschera barbuta di vecchia cera e gli occhi cisposi ebbero un lieve sorriso.
«No no no, con Ela con Ela con Ela.»
A Teresina quell’uomo pareva un vero cretino. Se non era per l’affare dei gioielli, le sarebbe bisognato un atto di fede a crederlo il furbo disonesto il cui solo nome era stato insopportabile al signor Marcello.
Il dottor Molesin aveva un interesse speciale per gli affari dell’amico Momi e Momi era pieno di riguardi per l’amico Checco. Il sior Momi aveva trovato modo di mangiar quattrini, con mille pasticci, a una quantità di gente e d’ingolfarsi, in pari tempo, nei debiti. Un bel giorno, dichiarando di non poterli pagare, aveva offerto ai creditori il venti per cento. I creditori, riunitisi e consultatisi, si erano rivolti, per la tutela dei loro interessi, a Molesin. Alquanti dei poveretti infinocchiati e mezzo rovinati dal sior Momi erano sacerdoti, e nel mondo ecclesiastico le abilità forensi e finanziarie del dottor Molesin godevano di molto credito. Costui, che avendo studiato leggi due anni e assai frequentate le preture si faceva passare per dottore in giurisprudenza, accettò l’incarico a patto di prelevare il trenta per cento sul soprappiù che gli riuscisse di spremere da Momi oltre la sua proposta. Momi, invitato a trattare con lui, non seppe di questo patto e credette potersi guadagnare l’avversario con l’offerta di un buon regalo se la proposta venisse accettata. Molesin, convinto che l’amico avesse quattrini nascosti, pieno di speranza nell’attesa eredità di Lelia, la quale, venuta in possesso degli averi Trento, vorrebbe certo salvar l’onore del suo nome, fece lo scrupoloso. Lo fece mollemente perchè gli sorrideva l’idea di condurre le cose in modo da pigliarsi tutti e due gli zuccherini. Il sior Momi, dal canto suo, non dubitò un momento che quegli onesti scrupoli non si potessero tradurre in cifre.
Siccome il morto l’aveva e grosso, si riservò di regolarsi, colle cifre, secondo il vento. Intanto spillava denari alla figliuola con piagnistei, celava, quanto poteva, la buona cucina e la buona cantina di cui era solito attenuare le proprie sventure coniugali e quelle della Carolina, consociate a mutuo conforto. All’annuncio della eredità conseguita da Lelia, tuttora minorenne, Molesin affilò, gongolando, le unghie. Adesso era il momento di sorvegliare Momi, un «macaco» che mirerebbe certamente a inghiottire il più possibile e a sputar fuori il meno possibile. Adesso era il momento di sorvegliare anche la figlia. Della figlia egli si era già occupato, ma da lontano. Coetaneo, condiscepolo, amico dell’arciprete di Velo d’Astico, teneva con esso una corrispondenza discretamente attiva, collo scopo dichiarato di avere notizie della signorina Camin da comunicare all’amico Momi, cui erano interdette le relazioni colla Montanina. L’arciprete credeva in buona fede che le curiosità del vecchio amico Checco non avessero altri fini e scriveva. Scrisse anche dell’arrivo alla Montanina del famoso giovine modernista. Molesin si spaventò, poco del modernista e molto del giovine. Un matrimonio di Lelia avrebbe facilmente mandate a male le sue speranze maggiori. Egli trovò modo d’informare la signora Camin, che faceva dire molte messe a Sant’Antonio e mandava da Milano quattrini a sacerdoti di Padova per opere di pietà e di beneficenza. La sera stessa che morì il signor Marcello, l’arciprete scrisse a Molesin che quel famoso modernista era fuggito, e che forse certe notizie poco edificanti sul suo conto, venute da Milano, avevano condotto a questa soddisfacente soluzione. Poi l’astuto dottore sollecitò, senza troppi complimenti, dal padre dell’erede, un invito alla Montanina. L’invito fu fatto immediatamente secondo lo stile del sior Momi: «certo certo, sipo, un piacere, aho aho».
E lì su due piedi, in casa Camin, presente la Carolina che il suo padrone era venuto a prendere, fu combinato il viaggetto per l’indomani mattina. Quella notte l’onesto dottore dormì poco. Sapeva di andar a giuocare una partita d’impegno col «macaco», un avversario sopraffino. Non lo stimava però suo pari. Ne conosceva una tara. Lo definiva da mercante di cavalli: «fin, ma debole de zenoci». Molesin disprezzava ogni debolezza per le donne. Lì peccavano, secondo lui, i «zenoci» del sior Momi; il quale, altrimenti, col gran dono fattogli dal Signore di quella faccia da cretino, non avrebbe avuto eguali. «Se no ghe fosse la doneta, oooh! Ma ghe xe la doneta.»
Il non avere ancora veduto Lelia, nè udito chiederne da suo padre, lo turbò un poco. Ne chiese a Giovanni salendo con lui alla camera destinatagli: «la signorina?». Giovanni rispose: «è fuori» e Molesin credette che fosse a passeggio. Scendendo per il caffè e latte, incontrò Teresina sulla scala e domandò anche a lei: «la signorina?»
«No la gh’è no.»
«Come no la ghe xe?»
Teresina lo guardò, colpita dal suo accento.
«Non signor. L’è dalla signora Vayla.»
«E Momi che no parla!» pensò Molesin, avviandosi alla sala da pranzo. Mentre egli vi entrava da una parte, la Gorlago ne usciva, scura scura, dall’altra, mentre il sior Momi le brontolava dietro:
«Gala capìo? Da brava!» L’aveva chiamata per dirle di levarsi dalla camera delle rondinelle e di andare dove aveva prima disposto Teresina.
Molesin non sapeva nè chi fosse nè dove abitasse questa signora Vayla. Il suo fiuto gli diceva un cattivo odore di guai fra padre e figlia. Gli venne in testa, prendendo silenziosamente il caffè e latte, che la ragazza non volesse trovarsi colla Gorlago. Voleva sapere. Aveva necessità di sapere. Se padre e figlia vivevano come cane e gatta, visto che fra pochi mesi la ragazza sarebbe diventata libera dispositrice delle proprie sostanze, il sior Momi avrebbe cercato di arraffare in quei pochi mesi quanto poteva, danaro, titoli, gioie, tutto ciò che può sparire senza lasciar traccia e poi... chi s’è visto s’è visto, si sarebbe al punto di prima, con una speranza di meno.
«La senta, caro Momi» diss’egli, prendendo pacificamente il caffè e latte, «quando se podarà riverir la putela?»
Momi rispose ch’era ammalata.
«Oh, povareta povareta!»
Molesin s’intenerì. «La gavemio disturbada?» Momi rassicurò l’innocente amico. Lelia non era in casa. Era presso una signora di Arsiero, una vecchia amica del signor Marcello. Aveva voluto andare presso questa signora subito dopo la disgrazia. L’amicizia fra la Vayla e sua figlia era una spina per lui. Lelia, testa falsa, testa bizzarra, era stata sempre aizzata contro suo padre; prima da sua madre, poi dai Trento. C’era da scommettere che l’amica di Arsiero facesse con lei la stessa parte. Anzi, una lettera della signora, ricevuta in quel momento, ne forniva quasi le prove. Il sior Momi si levò di tasca la lettera e la porse candidamente a Molesin. Questi la prese, pensando che, se gli si faceva leggere, doveva essere una carta nel giuoco avversario.
Lesse:
Villino delle Rose, 6 luglio.
Egregio Signore,
Ho il dispiacere di comunicarle che la notte fra il 4 e il 5 Sua figlia fu presa da una febbre forte. Il medico la qualificò reumatica. Ora è quasi sfebbrata ma le è rimasta una prostrazione di forze assai sensibile. Il medico vuole che le si eviti qualunque emozione e perciò non crederei opportuna, per il momento, una Sua visita.
Mi permetto di soggiungere che le scosse morali di questi ultimi giorni hanno sicuramente male influito sulla salute di Lelia. Tanto il medico quanto io siamo persuasi che sarebbe utilissimo di portarla, almeno per qualche giorno, in un altro ambiente. I Suoi affari non Le permetteranno senza dubbio di allontanarsi per ora. Io ho necessità di recarmi a Torino e Le offro ben volentieri di prendere con me Lelia che mi sarebbe una compagna preziosa. In attesa di Sua cortese parola di consenso, La prego a credermi
Dev.
Fedele Vayla Di Brea.
Mentre il dottor Molesin stava ancora leggendo, il sior Momi si tenne in dovere di metter fuori il suo sorriso cretino e la sua voce di palato:
«Eh ma vado istesso, ah? - Vado, no? - Son papà - gò dirito - patria potestà - no? - Ah? - Vado? - »
Ora pareva affermare un proposito, ora chiedere un consiglio, e quel tono e questo e le parole e il sorriso non erano che un automatico blandire al gattone; il quale, posata la lettera, durò a covar il sorcio cogli occhi, in silenzio, anche quando le voci della bestia inferiore cessarono. Finalmente gli uscì, con una lieve scossa di spalle e di ventre, questa parola profonda:
«Benon.»
Il sior Momi comprese la parola profonda, come aveva compreso la smorfia per la sua levata di cappello e ne diede segno eguale:
«Parcossa?»
«Benon, digo» ripetè l’altro, stavolta con un tono incoraggiante.
«Intanto» diss’egli, alzandosi, «andemo a veder el cason.»
Si alzò anche Camin ma battendo e ribattendo le palpebre sugli occhi cisposi, unico abituale segno esterno delle sue interne inquietudini. Insistette nel chieder consiglio, stavolta con una voce di gola, blandamente grave.
«No, no, andemo, jà, el diga. Ca vada?»
«Quando che ghe digo - benon!» ripetè Molesin. «El vada, el staga, tutto benon.» Soggiunse che se il sior Momi si risolvesse a quella visita, egli andrebbe intanto a trovare l’arciprete.
Stavolta fu il sior Momi che disse «benon» ma non lo disse troppo di buona voglia. Sentiva le diffidenze del formidabile ospite a proposito di quella lettera e del suo commento, si domandava quali macchine potesse montare coll’arciprete per venire in chiaro del suo piano ch’era quello appunto di far credere fredde le proprie relazioni colla figliuola e di conquistarsela invece segretamente. Battè ancora due o tre volte le palpebre prima di saperle contenere, e poi intraprese, coll’ospite, l’ispezione della villa, applicando regolarmente il solito riso adulatorio alle osservazioni di Molesin. Le scale del salone, il camino, le policromie dei soffitti, il testone della terrazza, il fresco del Beato Alberto Magno sulla facciata di mezzogiorno, tutto era giudicato dal Dottor Sottile colle stesse parole: «mato ingegner, mato pitòr, mato paron». E Momi faceva eco: «Mati mati, aho aho». Solamente le soffitte ebbero un grugnito di approvazione. Il sacco della Carolina era ancora nella camera delle rondinelle. Molesin lo notò e il sior Momi se ne accorse. La Gorlago stava visitando la villa per proprio conto. I due la incontrarono sulla scala del salone, nel discendere.
«Ohe» le disse Camin con un fare da padrone duro, «quel sacco, a posto!»
La donna gli diede un’occhiata rabbiosa e tirò via. Molesin la seguì cogli occhi fino al pianerottolo superiore.
«Caro Momi» diss’egli, posando una mano sulla spalla dell’amico e articolando lentamente le parole per farne sentire il doppio fondo, «go paura che i carateri, digo i carateri, de so fiola e de sta siora qua no i se convegna.»
«Aho, parcossa?»
«Gnente.»
«Aho aho! Òl d’un!» Il sior Momi, pratico di doppi fondi e solito renderli innocui colle sue risate cretine, vi aggiungeva, nei casi più gravi, questo «òl d’un!» questo ridente smozzicato «fiol d’un can!» giocoso insulto ammirativo di una malizia canagliesca.
II.
Verso le undici l’ottimo Camin, dopo una breve conferenza, nello studio, con Teresina, annunciò all’amico la propria partenza per il villino delle Rose e lo invitò a uscire con lui se intendesse recarsi a far visita all’arciprete. Al trivio dove la stradicciuola della Montanina muore nella strada maestra, gl’indicò il campanile di Velo posato elegantemente a chiudere nell’aperto sole lo sfondo della via, oltre un alto arco di ombre. E, congedatosi, prese la via opposta. Il Dottor Sottile, fatti piano piano pochi passi, ristette, si guardò alle spalle e, non vedendo più Momi, ritornò indietro. L’eccellente sior Momi non avrebbe mancato, scorgendo questa manovra, di mormorarsi nella gola, intero e sul serio, coi denti stretti, quel «fiol d’un can!» che aveva prima messo fuori smozzicato e burlesco, e si sarebbe applaudito così: «no son po miga Marco Paparèle gnanca mi». Marco Paparèle è un leggendario tipo veneto di scimunito. Il sior Momi, prevedendo che, nella sua assenza, Molesin avrebbe cercato di far cantare Teresina come a lui non piaceva che cantasse, l’aveva istruita per bene.
Molesin ritornò alla Montanina in cerca della sua sciarpa, artificiosamente dimenticata nel vestibolo. Presa la sciarpa, andò fiutando le orme di Teresina e, trovatala, spiegatole il perchè del suo ritorno, la pregò di fargli vedere la chiesina, non ancora visitata. Nello scendere colla cameriera per il giardino, le domandò, tutto amabile, le sue impressioni del nuovo padrone. Teresina si schermì. Allora Molesin: «gran bon omo, gran bon omo! Disgrazià, disgrazià! Disgrazià nella mojer, disgrazià nei afari! E come xela, mo, co sta fiola, come xela mo co sta fiola? Xela contenta mo, povareta, de star col papà, adesso? Tanto, m’immagino, vero? Tanto, vero?».
La faccia malinconica, la voce dolce dolce del Dottor Sottile non toccarono Teresina. Il sior Momi aveva studiato fin dal primo momento di guadagnarsela, le aveva promesso un aumento di salario e mostrata la massima fiducia, ma non fu per far piacere al sior Momi ch’ella si chiuse in un riserbo diplomatico; fu perchè la faccia, la voce, i blandimenti di Molesin le ripugnavano. Rispose che non sapeva niente, che non poteva dir niente. Molesin entrò in chiesa, si fece devotamente il segno della croce coll’acqua santa, s’inginocchiò un momento prima di andar toccando e fiutando altare, candelabri, lampade, pilette. Egli credeva tutto che la Chiesa crede, così a fascio e senza averne notizia chiara, praticava nella misura esterna che la Chiesa esige; e poichè non pigliava il denaro altrui proprio dalle tasche nè dai forzieri, poichè il mentire era per lui un elemento costitutivo di qualunque affare e gli affari non sono proibiti dalla Chiesa, non si era figurato mai che fra le sue pratiche religiose e le sue pratiche civili ci fosse una stridente contraddizione. Anzi, quanto più s’infervorava nelle seconde, tanto più s’infervorava nelle prime. Quando aveva meglio imbrogliato e spennacchiato il prossimo, si studiava d’imbrogliare anche Domeneddio con qualche pater, ave, gloria, con qualche messa di più. Solamente, a lui non pareva d’imbrogliare nè il prossimo nè il Signore. Non si credeva un ipocrita. Teneva sul serio a un posticino in paradiso. Ascritto al partito clericale, n’era mal tollerato per la sua dubbia riputazione, ma fingeva di non avvedersene. Si appoggiava molto a qualche amicizia, da lui vantata e gonfiata, di preti che lo conoscevano poco. Uno di costoro era l’arciprete di Velo d’Astico, suo coetaneo e compagno di scuola.
«E quel giovinotto?» diss’egli uscendo di chiesa. «Quel giovinotto di Milano ch’è stato qui! Buon giovine, vero? Mi sarei figurato che si potesse intendere colla signorina. Buon giovine, sa. Bravo giovine. Uh! E non s’intendevano? Peccato! Proprio, dico; non s’intendevano?»
«Cosa ne sai tu del giovinotto di Milano?» pensò Teresina. Stavolta rispose risentita. Che poteva saper lei di queste cose che non la riguardavano?
Molesin riprese la via di Velo a capo basso, simile al giuocatore di bocce che si è illuso di aver fatto il punto, è corso a vedere e ritorna mogio mogio, colla seconda boccia nelle mani, mulinandoci su come gli convenga tirare il nuovo colpo. Si rodeva anche per la sciarpa, inutilmente ripresa, che gli pesava sul braccio, ridicola nel sollione delle undici.
«Maledetta anche questa!» si disse, sudando come un uovo. L’altra maledetta, naturalmente, era Teresina.
Non trovò l’arciprete in casa. Era in chiesa. Domandò della cognata. Era in chiesa. E il cappellano? In chiesa.
«Il Suo nome, di grazia?» fece la fantesca, vedendolo seccato. Udito il nome venerabile - dottor Molesin — s’illuminò tutta. Lo sapeva tanto amico del signor arciprete, aveva portato alla Posta tante lettere del padrone per lui! Lo trattenne. Andrebbe subito a chiamarlo, il signor arciprete. Prese quindi un’aria misteriosa e, in gran segreto, in gran confidenza, trattandosi di un amico del padrone, gli spifferò che il cappellano aveva ricevuto allora allora una lettera dello zio Cardinale coll’annuncio che l’arciprete sarebbe fatto Vescovo. Il padrone si era tanto commosso; molto per il vescovado, un poco anche per l’idea di essere forse mandato «in quel de Napoli che i xe paesi tanto bruti.» Padrone, siora Bettina e cappellano erano subito andati in chiesa e ci stavano ancora.
«Allora La diventa un poco vescovessa anca Ela» disse lo scherzoso dottore. E pensò: «saprà qualchecosa, costei? Sarà cagna come quell’altra? La pregò di non avvertire, di non incomodare nessuno. Era disposto ad attendere. Magnificò la virtù di don Tita, che meritava, meritava! La serva lo fece entrare nel salotto di ricevimento. Colà, seduto sul canapè, raccontò aneddoti del tempo in cui egli e l’arciprete facevano il ginnasio insieme. «Bela elezion!» esclamò finalmente. «Gran bela elezion! Sala cossa? Vado in ciesa anca mi. Ma prima La me cava una curiosità.»
Le domandò se conoscesse la signorina Camin, quella che stava col vecchio Trento. La fantesca fece il viso brutto. Lo sapeva bene, il signore, quello ch’era successo? No, non sapeva niente. «Madre Santa, la ga tentà de scapare.»
«De scapare?» fece Molesin, sbalordito. Udite voci di fuori, la fantesca esclamò «eccoli!» e corse via. L’arciprete e i suoi due compagni erano di ritorno dalla chiesa. Confabularono colla serva fuori della porta e il solo arciprete entrò nel salotto.
Egli lesse nel viso di Molesin un tale stupore che non dubitò nell’interpretarlo: «la ciacolona ga ciacolà». Sentiva trasfigurato il proprio stesso viso dall’emozione interna. Non aveva bisogno, lo sentiva, di parole per confermare la notizia data dalla fantesca. Disse solamente «caro» e abbracciò, colle lagrime agli occhi, l’amico del quale non aveva mai voluto credere che fosse un ipocrita, un disonesto. Erano lagrime sincere, pregne di sensi diversi. Vi era il senso trepido del suo innalzamento, per volontà di Dio e del Vicario di Cristo, a una dignità onde a lui, uomo di ferrea fede, appariva, non lo splendore esterno e mondano, ma l’importanza religiosa. Vi era il senso tenero della fiducia dimostratagli dai Superiori. Vi era un ravvivamento profondo del suo fervore religioso, una tensione della volontà verso la vita semplice austeramente, esemplarmente pia, di un degno Pastore di pastori. Vi era il senso dolente della fine prossima di una parte della sua vita, la penultima, che si allontanerebbe da lui per sempre, insieme a tante lunghe consuetudini di luoghi e di persone. Il dottor Molesin, benchè sbalordito dalla bomba della fantesca, intese il granchio pigliato dall’arciprete e approfittò dell’abbraccio, lo prolungò tanto da rimettersi bene a posto, da potere sfoderar poi, anch’egli come l’arciprete, un metro di fazzolettone turchino e stropicciarsene con zelo gli occhi.
«Bela elezion!» esclamò ripiegando il fazzolettone «Gran bela elezion!» Intanto si era riordinato anche l’arciprete. Supplicò Molesin di essere discreto; e perchè il dottore gli domandò, titubante, il nome della diocesi, gli troncò le parole: «no se sa gnente, no se sa gnente, no se sa gnente». Lo richiamò ad altro argomento con uno di quei «dunque?» che si gettano a uncinare il prossimo come ami legati a un filo, invisibile sì ma ben conosciuto dall’uncinato, che ne sperimenta subito il tirar forte.
«Dunque» disse Molesin parlando italiano per aggiungere importanza al discorso «il gran modernista ha dovuto levare i tacchi; come il prete suo amico, mi hanno detto.»
L’arciprete rise.
«Storie vecchie, queste» diss’egli. «Storie vecchie, caro. Parliamo del presente.»
Lo sapeva bene, Molesin che il «dunque?» dell’arciprete era stato un uncino gittatogli per tirarlo al torbido presente: anch’egli voleva venire al presente ma non tiratovi a forza con pericolo d’inciampare. Voleva mettere i piedi dove piaceva a lui. Cosa poteva egli dire del presente che l’arciprete non sapesse già? La morte del vecchio Trento, il suo testamento, Momi Camin alla Montanina...
«Fin che no vien Spazzacamin.»
L’arciprete non sapeva quanto la sua freddura fosse atroce per Molesin, il quale la sostenne imperturbato. Disse che Momi lo aveva invitato a vedere la villa. Era venuto principalmente per il piacere di visitare l’arciprete. Però gli era stato gradito anche di accontentare Momi. E qui fece prudenti elogi di Momi, disgraziato, sì, nella famiglia e negli affari, uscito forse un po’ fuori di strada in cose politiche, ma buon diavolaccio, in fondo, e buon cristiano poi; oh, questo sì, buon cristiano, di quelli all’antica.
«A pian a pian» fece don Tita. «I me dise che in casa, a Padova, ghe sia del sporcheto.»
Molesin aggrottò le ciglia, strinse e porse le labbra con un lungo mugolio sordo, interrotto di scatti negativi: — no — no — no — che finirono in un dubitativo: «proprio no credaria — apparenze!» E continuò a dire dei buoni principii, delle buone pratiche del suo amico. Si teneva sicuro che sarebbe un eccellente parrocchiano, un parrocchiano generoso per la chiesa, generoso per i poveri; mentre se per disgrazia, un giorno o l’altro, la Montanina capitasse in mano di quel tale, di quel signor Alberti...
«Pur troppo, fiôlo» disse don Tita. «La ghe capita.»
«Da bon?»
Molesin perdette un momento il suo equilibrio.
«La ghe capita» confermò don Tita. E raccontò la fuga tentata da Lelia.
«Combinà, capìo» diss’egli. «Tutto combinà.»
Secondo lui, la ragazza non voleva assolutamente saperne di vivere con suo padre. Donna Fedele la protegge, ma non può tenersela se il padre la vuole. Pochi mesi ancora, e la ragazza è maggiorenne, diventa libera.
Si tratta, per loro, di far passare questi pochi mesi. E si è pensato il bel colpetto. Una notte la ragazza scappa. È una ragazza ardita, anzi sfacciata, e l’arciprete dice di averne le prove. Piglia un treno in qualche parte, come aveva fatto don Aurelio, e va in Piemonte. In Piemonte la sua protettrice ha un nuvolo di parenti. La ragazza si nasconde un po’ qui un po’ lì, fino a che passano questi benedetti mesi. Intanto l’altra lavora per il signor Alberti, suo protetto anche quello. Lo ha già fatto venire a Seghe, da Milano, dopo la sua fuga. Sono stati veduti insieme in un luogo solitario, sulla riva dell’Astico, a far complotti. Ma c’è la Provvidenza. La Provvidenza si serve di un eretico, di un birbante, per rompere le ova nel paniere di quell’altro. La Provvidenza lo conduce a dormire, una notte di pioggia, dove la ragazza non credeva certo di trovarlo. E succede il patatrac.
Don Tita descrisse il patatrac e venne alla morale. La commedia si ripeterebbe certo e il signor Camin o da Camin doveva pensare al riparo se non voleva che arrivasse Spazzacamin.
Tutta questa industriosa architettura non era farina del sacco di don Tita. Era farina del sacco di don Emanuele. Il sacco di don Emanuele era un sacco a doppio fondo. Don Emanuele aveva informazioni che comunicava e informazioni che non comunicava a don Tita. Gli comunicava quanto reputava utile o almeno indifferente che fosse poi ripetuto dall’arciprete senza prudenza. Non gli comunicava ciò che, conosciuto segretamente da lui, gli procacciava un monopolio di sapienza direttiva e la coscienza gradevole di tale superiorità. Ma, sul conto di don Tita, egli s’ingannava. Don Tita pareva più grosso di lui ed era invece più fine. Don Tita si era accorto del giuoco e fingeva di lasciarsi giuocare. Non credeva, per esempio, nella storia raccontata a Molesin, credeva soltanto che fosse utile raccontarla. E lo capiva. Capiva perfettamente che fosse utile di seminare discordia fra la Vayla, tanto avversa a lui e al cappellano, e il nuovo padrone della Montanina, il quale avrebbe potuto far molto per la chiesa, bisognosa di riparazioni, di panche, di pavimento. Capitatogli fra i piedi l’amico Molesin, aveva intuito come quello fosse un canale buonissimo da versarvi le parole che avrebbero posto in guardia Camin contro donna Fedele e preparata, fra il clero di Velo e il sior Momi, un’alleanza vantaggiosa per la chiesa e per i poveri della parrocchia. Non credeva che donna Fedele avesse fatto fuggire la signorina di notte a quel modo pericoloso, mentre le sarebbe stato tanto facile di farle prendere il treno ad Arsiero come lo aveva preso altre volte, sola, per andare a Seghe o a Rocchette; ma don Emanuele gli aveva asseverata la cosa ed egli credeva quindi poterla dare, in coscienza, per vera. E si era interdetta qualunque indagine. «Se don Emanuele» pensava «sa una cosa e ne dice un’altra, buon pro gli faccia. A me va bene questa.» Infatti don Emanuele sapeva che le persone di servizio del villino credevano a un tentativo di suicidio, per certi pezzi di carta scritta che poi le avevano trovato in camera. Supponevano che la ragazza intendesse appiattarsi nel bosco, sotto la chiesa del Camposanto di Arsiero, per aspettarvi il treno delle quattro e gittarsi sulle rotaie, o saltare nella roggia che taglia la strada di Seghe volgendo verso la Pria.
Molesin ascoltò molto attentamente il racconto. Se le cose stavano a quel modo e se ora Momi consentisse a lasciar viaggiare sua figlia colla Vayla, bisognava aspettarsi il peggio. Colei farebbe scappare la ragazza e bravo chi la scova dopo. Pochi mesi ancora e arriva Spazzacamin. La ragazza assegnerà una pensione a suo padre; più di così, probabilmente, non vorrà concedergli e sarà come nulla. Bisogna ch’essa ritorni alla Montanina, bisogna che Momi voglia e sappia riguadagnarsene l’animo. Brutto affare.
«Povero Momi!» diss’egli, malinconicamente. E, senza fiatare delle lettere di donna Fedele, passò a un altro discorso. Domandò se Momi avesse fatto celebrare un ufficio funebre nel giorno settimo dalla morte del vecchio Trento. No, nessuno ne aveva parlato. In circostanze ordinarie, l’arciprete avrebbe fatto interrogare in proposito la famiglia. In quelle circostanze, il signor Camin essendosi impensatamente allontanato la mattina del quattro, sua figlia non trovandosi a casa, non se n’era fatto niente. Ignorava se il cappellano ne sapesse qualche cosa di più ma non lo credeva.
«Adesso sentiremo» diss’egli. E suonò per far venire il cappellano.
Molesin si era incontrato una volta con don Emanuele a Padova. Lo aveva fiutato avverso. Si era sentito a disagio come se quell’occhio acquoso, gelido, lo spogliasse di tutte le morbide pelli finte che portava sulla dura pelle vera. Aveva fiutato bene. Don Emanuele la sapeva lunga sul suo conto; lo aveva tenuto a distanza, pensatamente. Molesin avrebbe fatto volentieri a meno d’incontrarsi ancora con lui. Ma quando il cappellano entrò nel salotto e salutò l’ospite, questi si accorse tosto, con recondita dolcezza, che l’occhio acquoso era meno gelido dell’altra volta. Infatti l’occhio acquoso vedeva ora nell’onesto Molesin l’uomo che aveva fatto conoscere alla pia signora Camin, e quindi agli ecclesiastici suoi amici e consiglieri, la pericolosa presenza di Massimo Alberti alla Montanina. Nel salutarlo, il suo volto si atteggiò a un lieve sorriso, parve dire tacendo: «ah, è Lei!» Udito che neppure don Emanuele aveva parlato con alcuno di quel tale ufficio funebre e che d’altra parte, per certe ragioni di rito, non sarebbe stato possibile di celebrarlo nel giorno settimo, ciò cui l’arciprete non aveva ora pensato, dichiarò che si prendeva la responsabilità di ordinarlo a nome dell’amico. Per l’ora si sarebbero intesi. E a nome dell’amico pregò che lo si aiutasse a trovare un sacerdote per la messa festiva nella chiesina della villa. L’arciprete avrebbe risposto con effusione cordiale se non lo tratteneva un’ombra sul viso del cappellano. Così rispose un vago «vedremo». Allora Molesin, cui non era sfuggita l’ombra, fece intravvedere daccapo, attraverso una nebbia di mezze parole, le belle cose che Momi Camin potrebbe fare se trovasse simpatia e se avesse la pace in casa. Non specificò nè le belle cose nè altro; e l’arciprete, contento che non specificasse, che non proponesse una specie di contratto, accompagnava i suoi giri e rigiri di frasi con certi — ben — ben — ben — che, per l’oratore, erano tante gocce di balsamo.
Ma don Emanuele, temendo evidentemente, per i suoi reconditi fini, che il principale si compromettesse con parole poco misurate, gli ricordò certe faccende urgenti da sbrigare insieme, per cui Molesin fu costretto a levare il campo. L’arciprete gli domandò se intendesse partire quel giorno stesso. Rispose di essere venuto da Padova con quest’idea. Ma il paese era troppo bello e l’amico Momi gli faceva tanta violenza perchè restasse! Restava. Proclamato enfaticamente questo fantastico atto di sottomissione, prese congedo, trottò verso la Montanina, ora meditando il racconto dell’arciprete e l’ombra enigmatica sul viso di don Emanuele, ora struggendosi di sapere come fosse andato il colloquio di Momi con quella signora Baila, o Balia, o il diavolo che la porti. Quando arrivò alla meta, il sior Momi non era ancora ritornato. Ritornò poco dopo. Molesin, che stava informandosi della colazione in cucina, lo udì chiamare per la casa: dotòr! Sior Checco! Sior Checco! Dotòr! Criticata l’opera della cuoca circa un baccalà che stava preparando, e istruitala secondo i proprii gusti, rientrò in casa, vociferò alla sua volta: «Momi, Momi! Son qua, son qua!» S’incontrarono, naso a naso, nel vestibolo.
«Male — male — eh male» borbottò il sior Momi, battendo molto le palpebre.
La ragazza non aveva voluto vederlo, la signora gli aveva fatto intendere che, se facesse valere il suo diritto di condursi la figliuola a casa, gli sarebbe accaduto di peggio. Il sior Momi si era visto costretto a permettere il viaggio. Aspettare — sperare — ripeteva il falso cretino, colla sua voce di palato, col suo muso di vecchia cera dipinta stupidamente levato all’aria: — aspettare — sperare.
Il primo pensiero di Molesin, nell’apprendere ch’egli aveva permesso il viaggio colla Vayla, fu di dirgli: «Bravo el mamo.» Il secondo fu diverso. «Sì sì sì» diss’egli, come se non valesse la pena di turbarsi per quell’argomento. «Sentirì che bacalà! Merito mio.»