< Leila
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Capitolo XVI. Notte e fiamme
Capitolo XV Capitolo XVII



CAPITOLO DECIMOSESTO.



Notte e fiamme


I.


Salita rapidamente in una carrozza di prima classe, Lelia trattenne il facchino con pretesti. Non si trovava il portamonete, il bagaglio non era collocato a dovere nella rete. Il disgraziato ebbe appena il tempo di saltare a terra e non ci fu pericolo che prima della partenza del treno egli si abbattesse nella Fantuzzo se per caso ella fosse uscita dal caffè in cerca della sua compagna. In quello scompartimento viaggiavano altre quattro persone, una vecchia signora con una signorina sui trent’anni, un giovane viaggiatore di commercio e una specie di canzonettista malamente elegante. Lelia si sentiva ardere il viso e il collo, non dubitava che il suo rossore, il suo turbamento non fossero notati. Tremò che le si facesse qualche domanda. Nessuno le aveva badato, il giovine continuò a parlare colla signorina, la canzonettista continuò a succhiare caramelle e a odorare una boccetta di profumo. E il treno correva, oh correva lontano da Vicenza lontano dalla Montanina, verso lui! Il cuore di Lelia batteva col ritmo precipitoso del treno.

Ella vedeva torbido. Le pareva avere un velo torbido anche sul pensiero. Guardava ogni tanto, involontariamente, i suoi compagni di viaggio. La signorina tradiva, parlando col giovine, una rara effervescenza di temperamento amoroso. Ella sfoggiava la sua cultura di romanzi e di commedie e poichè il giovine aveva parlato di un suo futuro viaggio in Egitto, cercava farsi promettere il dono di uno scarabeo. Il giovine sarebbe stato più contento, pur troppo si vedeva, di promettere scarabei alla canzonettista, la quale, però, non si curava delle sue oblique occhiate e invece guardava molto Lelia. Lelia osservava tutto ciò come attraverso una nebbia ardente e solo di tratto in tratto, per brevi momenti, rientrando subito nel suo delizioso segreto di fuoco. La canzonettista cercò di attaccar conversazione, le offerse caramelle, che non furono accettate, le chiese il permesso di vedere l’anello che portava all’anulare della mano destra onde aveva levato il guanto per togliere il denaro dal portamonete. Lelia, seccata, stese la mano senza rispondere, guardando dal finestrino. La maleducata ragazza, non contenta di vederglielo al dito, glielo levò addirittura, con un atto rapido. «Prego!» fece Lelia, sdegnata. L’altra, che vi aveva già letto dentro «A Leila» lo restituì scusandosi. «Che bel nome» diss’ella «che ha Lei!» Il giovine viaggiatore, che aveva seguito, senza parere, la mimica e il dialogo delle due signorine, sgombrò l’Egitto e lasciò gli scarabei al loro destino nella irragionevole speranza che il bel nome venisse fuori. Perchè ora Lelia lo tentava più della canzonettista. I begli occhi avevano dato un lampo tale di fierezza, il «prego» delle labbra era stato sommesso sì, ma tanto altero e vibrante, ch’egli la scoperse ad un tratto elegante e bella. La signorina degli scarabei se ne avvide, fece il muso lungo e non gli parlò più.

La canzonettista discese a Verona. Le altre due signore, che andavano a Bergamo, discesero a Rovato. Poichè nessun altro era salito mai, il viaggiatore di commercio restò solo con Lelia. Ella neppure se ne accorse. Da Verona in poi il suo stato d’animo era venuto più e più mutando. La fiamma ardente dei primi momenti di libertà, quando immaginava già le braccia e le labbra dell’amato, aveva preso, dopo Verona, a discendere, a lasciar trasparire in fondo al cuore punti scuri di dubbii e d’inquietudini, sempre più grandi, sempre più neri. Durante la prima ora della fuga Lelia vedeva chiare davanti a sè, nel paese lontano, le maggiori linee dell’evento voluto, un incontro di due amori, una gioia, un’ebbrezza, e poi nebbia, quello che vorrà il destino. Più sentiva di avvicinarsi all’evento, meno ne discerneva le maggiori linee, più le apparivano tanti particolari imbarazzanti cui non aveva pensato, tante piccole spine della realtà. Le lampeggiarono dubbii paurosi: il dubbio che al momento le venisse meno il coraggio di mostrarsi, il dubbio di avere preso una risoluzione troppo dura per il proprio orgoglio, il dubbio di parergli vile o sfrontata. Intanto il treno correva verso l’evento, e nella sua mente, nei suoi sensi, il correr del treno diventava violenza di forze cieche obbedienti a lei che le avesse poste in moto e non potesse frenarle più. Non si accorse che il viaggiatore di commercio le si era avvicinato per tirare le tendine a riparo del sole che le batteva sulla persona, non si accorse che si era seduto a fronte di lei, che si chinava a considerarle l’anello. Rientrò in sè quand’egli, incoraggiato dall’apparente indifferenza di lei, le prese dolcemente la mano fra le proprie. Lelia la ritirò con una esclamazione di sdegno, e il giovine si scusò, protestò di non voler essere indiscreto come la signora che era discesa a Verona, disse che desiderava soltanto conoscere il suo bel nome. Lelia non rispose, si alzò, andò a mettersi all’altro angolo dello scompartimento. Allora il giovine, pur senza avvicinarsi, diventò di una galanteria insolente, le disse che se aveva l’abitudine di viaggiar sola, così giovane e così carina, non doveva spaventarsi per tanto poco, disse che aveva voglia di vederle ancora collera negli occhi perchè nella collera erano meravigliosi. E si avvicinò dicendo che da lontano non poteva vederli bene. Ella uscì, tutta tremante, nel corridoio, pregò un conduttore di portarle i bagagli in un altro scompartimento. Le offese di quello sfacciato le fecero sentire quanto ell’appartenesse ad Alberti. Più che per se stessa ne soffriva per lui. Soffriva che si fosse mancato di rispetto a una donna amata da lui. E quando si trovò nello scompartimento vicino, con due sole vecchie signore, si sentì ancora nelle sue braccia come nel partire da Vicenza, con tale vivezza che le balenò di essere da lui pensata in pericolo.

A Milano, mentre andava al caffè della stazione per aspettarvi la partenza del treno di Porto Ceresio, un ufficiale le disse due parole di complimento che la turbarono diversamente. Se ne sdegnò e se ne compiacque nel tempo medesimo. Sapeva di non potersi dire veramente bella e avrebbe tanto voluto esserlo per lui! Si chiamò sciocca, in cuor suo, ma la dolce compiacenza rimase. Nel caffè, udendo una signora parlar piemontese vicino a lei, le venne in mente donna Fedele. L’aveva pensata nel passare in treno davanti al villino delle Rose, poi mai più. N’ebbe rossore, ma neppure adesso diede un pensiero all’operazione che l’amica doveva subire. Si disse ch’ell’avrebbe torto di non esser contenta della sua fuga, della sua dedizione ad Alberti, e non vi pensò più.

Prese posto nel treno di Porto Ceresio, presso due bambine che presto cominciarono a guardarla e a sorridere. Poi, malgrado le proibizioni della madre, presero a toccarle timidamente le mani. Lelia ne fu commossa di una commozione trepida, vaga, di cui non volle ricercare il perchè. Le accarezzò. La maggiore, toccandole la mano destra, sentì l’anello sotto il guanto, desiderò vederlo, averlo in mano. Sapeva leggere, cercò decifrarne la scritta interna. Sua madre lo impedì, volle che lo restituisse. L’indiscreto atto della canzonettista aveva irritato Lelia. Non potè allora udirsi nella memoria il picciol suono lontano del nome Leila; adesso, nella momentanea calma dello spirito, lo udì. Ell’aveva detto ad Andrea: quando sarò sposata mi cambierò il nome, mi farò chiamare Leila. Egli si era opposto a ciò che gli pareva un capriccio irragionevole. Amava Lelia, avrebbe sempre amato Lelia. Leila era un nome troppo romantico. In fatto lo aveva ferito ch’ella proclamasse fin d’allora la propria volontà in modo assoluto, che non dicesse: «ti pregherò di chiamarmi Leila». N’era venuta una discussione vivace. Andrea si era lasciata sfuggire qualche parola acerba. Poi, dolente, le aveva regalato l’anello colla scritta pacifica. Tutto questo le ripassò nella memoria come un’onda rapida. Rimise il guanto e, guardando dal finestrino, pose la mente nelle cose esterne. Il ricordo si spense.

Quando il treno giunse a Porto Ceresio, pioveva. Delle montagne, perdute nel nebbione, non si vedeva che il piede scuro intorno allo specchio biancastro del lago chiazzato di rughe. A Lelia il nebbione fece piacere. Poteva immaginare, almeno, di avvicinarsi a lui senza esser veduta. Le fece piacere che al ponte di sbarco non ci fosse battello, che nessun battello si vedesse sullo specchio biancastro del lago chiazzato di rughe. Il momento dell’incontro pareva così meno imminente. Quando un punto nero apparve davanti al promontorio di sinistra, il cuore le battè come nel treno a Vicenza. Quello era l’ultimo passo. Nel salire a bordo le mancò quasi il respiro. Si fermò un momento sulla passerella sotto la pioggia fitta, senz’aprir l’ombrello.

Sopra coperta c’era pochissima gente. Lelia sedette all’estrema poppa. Pareva guardar l’acqua e non aveva sguardo negli occhi vitrei. Il batter cupo, misurato, degli stantuffi le riempiva la mente vuota di pensiero, insieme al batter cupo, misurato, del cuore. Il bigliettario dovette chiamarla due volte perchè gli dicesse dove andava. Desiderò rispondere «Lugano» e invece rispose «San Mamette» come forzatavi dal senso di un destino. Domandò quanto tempo ci volesse per arrivare a San Mamette. Udito che ci voleva più di un’ora e che prima si toccava Lugano, respirò alquanto, il suo sguardo errò un poco sulle acque, sulla maglia mobile dei circoletti infiniti che la pioggia vi segnava senza posa, sul piede scuro delle montagne. Quando il vapore, presso Melide, rallentò, si credette arrivare a Lugano. Udito che Lugano era la stazione prossima, ricadde nell’atonia cerebrale di prima. Non si accorse di passare sotto il ponte. Poco dopo, il bigliettario le si avvicinò per mostrarle amabilmente dov’era San Mamette: laggiù verso levante, dove il lago sfumava, come un mare, nella nebbia. Là era il mistero.

Presto le sfilarono davanti gli alberghi signorili di Lugano, le case umide, i giardini scuri ascendenti al nebbione. Una, due, tre fermate. Passeggeri escono, passeggeri entrano. Si grida: Gandria, Santa Margherita, Oria, San Mamette, Osteno, Cima, Porlezza! Il battello è spinto via lentamente, a forza di braccia, dall’approdo, i colpi degli stantuffi ricominciano. Si parte, il battello gira lentamente, mette la prora sul nebbione dell’alto lago; le case umide, gli alberghi, i giardini di Lugano si velano, a poppa, di pioggia e di distanza.

Allora nell’anima di Lelia spirò improvvisamente un vento nuovo. Tutte le ragioni del donarsi vi risorsero a un punto impetuose. Ella si alzò dal suo sedile della prima classe, andò a prora. Sola e ferma allo scoperto sotto la fine pioggia, guardava dritto davanti a sè, palpitante, contenta, sicura. A Gandria cessò di piovere. Il lago, a fronte del battello, nereggiò di tivanoviolento, il nebbione ascese gli umidi fianchi delle montagne. La fronte della Galbiga, la fronte del Bisgnago, la fronte delle dolomiti di Valsolda si svelarono nel cielo, grandi. E lontano lontano si svelò grigio, fumante di nuvoli, il Legnone enorme.

Tosto il battello entrò nel vento. Il velo e le vesti di Lelia le battevano indietro come drappi di bandiera. Ella non si mosse. Il vento, il lago nero, le nere montagne selvagge le inebbriavano l’anima. Il vento le fischiava intorno: «sei qui?». Le montagne di destra e di sinistra pensavano silenziose: «è qui». In faccia, le guglie e le creste di dolomia le mostravano, tragicamente mute, la loro passione di pietra come s’ella sola potesse intenderle, nella sua passione di fuoco.

«Signora» le disse il bigliettario «adesso la prima stazione è San Mamette.»

Ella si sentì subito fredda e forte. Fermatosi il battello allo sbarco, ne uscì con passo fermo. Alcuni contadini uscirono con lei. Nè sul pontile nè in piazza si vedevano persone, causa il mal tempo. L’uomo di servizio al pontile le indicò l’albergo Valsolda, a due passi dallo sbarco. Ella entrò nel piccolo ingresso, scuro e vuoto, vi si fermò, non udendo nè vedendo alcun segno di vita, non sapendo se salire o non salire la scala. Finalmente qualcuno discese, e vedutala, risalì, certamente per avvertire l’albergatore che discese alla sua volta.

«Desidera?» diss’egli.

«Una stanza» rispose Lelia con voce malferma. In quei pochi momenti d’indugio nell’ingresso, il silenzio del luogo ignoto le era parso ostile. Aveva sentita ostile la stessa rigidità delle pareti. Era il primo gelo delle realtà dure ch’ella non aveva pensate meditando la fuga, che solo in viaggio aveva confusamente presentite. L’idea di passar la notte fra quelle mura le mise in testa un subbuglio d’immaginazioni paurose, in cuore uno sgomento invincibile, malgrado la vergogna che ne aveva. Non seppe ella stessa come le fosse riuscito di articolare quelle due parole: una stanza. Per sua fortuna l’albergatore, un omino per bene, ne notò subito la distinzione e l’imbarazzo, le si mostrò molto gentile. Disse che la cameriera le avrebbe fatto vedere le stanze di cui poteva disporre. Realmente poteva disporre di quasi tutto l’albergo. Lelia salì le scale un po’ rinfrancata, seguì la cameriera in una bella stanza d’angolo al secondo piano e dichiarò subito che non voleva vederne altre, che prendeva quella. Chiese alla ragazza dove dormisse. Sperava di averla vicina e si trattenne dal dirlo per la vergogna di mostrarsi tanto paurosa. La ragazza non le dormiva vicina. Non immaginò che la signorina forestiera avesse paura, le domandò se desiderasse qualche cosa da lei. No no, niente. E non pranzava? Lelia sentiva di non poter prender cibo ma si ordinò una piccola cena in camera, perchè la ragazza ritornasse, per poterle domandare qualche cosa di Dasio. La ragazza le preparò un tavolino per mensa, portò la cena. Lelia non osò parlare di Dasio. Rimasta sola per la notte, si chiamò sciocca e vile, s’irrigidì contro le sue viltà, pensò, per farsi coraggio, suo padre, i preti di Velo, l’intingolo nauseabondo di cui non sentiva più l’odore. Ma, in pari tempo, l’assalì per la prima volta l’immagine di donna Fedele, ne vide i grandi occhi bruni sotto la fronte alta e il sottile arco bianco di capelli, ne udì la voce d’oro: «ah ragazza, cos’hai fatto?». Ma ciò ch’era fatto era fatto.

E non sarebbe da mandargli una parola, prima di presentarglisi? Suonò perchè le fosse portato da scrivere. Si provò a scrivere, pensò alquanto colla penna in mano, si atterrì della difficoltà che provava. Se non le riuscisse di trovare la forma buona? Se una frase non chiara, una parola mal scelta, una lieve inavvertita mancanza di tatto guastassero? Meglio non scrivere, piuttosto. La sola presenza direbbe tutto. Certo! Si meravigliò di non averlo inteso prima. Ma subito l’idea di un incontro impreparato la spaventò colle incertezze che l’accompagnavano. Stretta così fra due terrori, sentì venire una delle sue crisi di singhiozzi e di lagrime. La scongiurò precipitandosi al davanzale di una finestra, gittando l’anima sulle cose esterne.

Lontano davanti a lei, nel buio indistinto della notte nubilosa, un piccolo fulgore elettrico saettava luce, lentamente girando sopra sè stesso, via via per le acque lontane e per le coste. Balenavano dall’ombra un momento casine candide, rupi, falde di boschi, esplorate dal getto luminoso come da un Occhio imperatorio che ne facesse gelosa rassegna. Lelia vide venir lento alla sua volta il cono sottile, fu investita coll’albergo da un baglior bianco, saettata dall’Occhio inquisitore, ringhiottita dall’ombra. Sublimi sulla nera montagna di sinistra, presso al cielo poco meno buio, altre fiamme elettriche splendevano allineate. Si udiva il rumoreggiare delle onde. Lelia ebbe l’impressione di una notte d’incantesimi nel paese più selvaggio e strano della Terra. Il suo interno conflitto restò. Ella seguì il giro dei baleni elettrici per il piede boscoso delle montagne e sulle acque agitate, per gruppi di case. Uno di quei gruppi era forse Dasio. Il bagliore bianco la sfolgorò, oscillò un attimo a destra e a sinistra prima di lasciarla. Ella diede un balzo indietro.

Finalmente, stanca, si levò gli stivaletti e si gittò sul letto senza spogliarsi, risoluta di passar la notte a quel modo. L’abbandono del corpo al riposo le predispose, per un arcano consenso delle due nature, l’abbandono dell’animo al Destino. Una ad una le tornarono nella memoria, giacendo ella così, le parole delle lettere di Massimo che dicevano di lei, che, tutte, le dolci e le acerbe, avevano un’anima stessa di amore. Adesso ch’ella aveva rinunciato a scrivergli, che si era data nelle mani di quella Volontà ignota dalla quale dipendono gli eventi, la sua mente si chiuse e posò nel pensiero: mi ama.

Lenta, eterna notte. Folgorava, ogni tanto, nella camera il bagliore elettrico. Lelia ne aveva piacere. Le pareva che l’Occhio luminoso vegliasse anche per lei, sopra di lei. Poco prima dell’alba si assopì e quasi subito si riscosse, atterrita di aver dormito contro il suo proposito. Più tardi scese dal letto, intirizzita, andò a chiudere i vetri. Non vide più l’Occhio lucente nè le fiamme elettriche sul ciglio della montagna. Vide sotto la finestra un pergolato, un cortile umido, campicelli e più oltre, a pochi passi, il lago addormentato a specchio delle nuvole uguali, pesanti. Ritornò a giacere. Veniva il giorno, veniva il Destino.


II.



Feceto eletta alle sei. Nel lavarsi allagò la camera e tuttavia suonò per farsi portare ancora dell’acqua. La cameriera notò subito che la signorina non era entrata sotto le coltri, guardò il letto, guardò lei, sorpresa. Lelia arrossì, non parlò della sua notte. Si scusò per l’allagamento, prima. Poi domandò, con ipocrisia presso che inconscia, se Puria fosse lontano. Sapeva, per la lettera di Massimo, che da Puria a Dasio c’erano venti minuti. La ragazza rispose che si poteva andare a Puria in meno di un’ora. Richiestane, promise di trovare un ragazzotto che accompagnasse la signorina a passeggio, e facesse da guida.

«A che ora?» diss’ella.

«Alle sette.»

Sfinita dal lungo digiuno e dalla lunga veglia, Lelia fece colazione avidamente. S’informò delle luci notturne, apprese che una torpediniera della R. Guardia di finanza, munita di un riflettore elettrico, faceva servizio la notte e che le fiamme sulla montagna erano lampade elettriche della Funicolare di Santa Margherita e dell’albergo Belvedere. Partì alle sette colla guida, meravigliando di sentirsi tranquilla e intrepida.

La guida era un ragazzo sui dodici anni, dagli occhi vivaci e dalle labbra ostinatamente mute. Più che monosillabi Lelia non arrivò a cavargli. Per verità le bastò sapere che conosceva la strada di Puria e quella di Dasio. Ella non guardava, salendo verso Loggio, nè a destra nè a sinistra. Più saliva più le batteva il cuore, parte per la fatica, parte perchè la intrepidezza le veniva meno. Alla prima svolta della gradinata che gira sopra l’oratorio di S. Carlo, dovette far sosta. Non c’era sole ma l’aria era afosa. Un drappello di giovani e di signorine sopraggiunse facendo il chiasso, la oltrepassò senza badare a lei. Le signorine si burlavano dei giovani che non ardivano andar a coglier certi ciclamini pendenti sull’abisso dove romba il torrente, e coloro protestavano di non volersi rompere il collo per esse. La piccola guida saltò come uno scoiattolo fuori di strada, ritornò coi ciclamini, li offerse in silenzio a Lelia. Ella se li pose in seno, pensando che la sorte glieli offriva per lui e che non avrebbe osato coglier fiori a quel fine colle proprie mani. Toccato il sommo della salita, dove il sentiero piega a sinistra per scendere nella conca del Campò, ristette ancora. Di là si scopre al viandante, improvvisa, tutta l’alta Valsolda: Loggio tuffato nel verde, sopra Loggio la breve striscia bianca di Drano, Puria aggrappata al ventre della sua montagna, Castello coronante lo sprone di scogli a piombo che il torrente rode al piede; e nel centro, alto sopra tutti, sporgente appena col campanile e qualche tetto dalla sua nicchia verde sotto il gigante bastione di dolomia, Dasio. Lelia si fece nominare tutti i villaggi, sedette sull’erba guardando, là in alto, il piccolo campanile giallognolo ritto sotto le rupi. Dal piccolo campanile salì collo sguardo alle creste sovreminenti, cercò la punta di dolomia che poteva ricordare quella del Summano guardata da Massimo, nel salone della Montanina, mentre ella suonava «Aveu». Le parve di riconoscerla fra le nebbie, a mezzo della cresta che dal maggior culmine declina verso levante. Il cuore le si gonfiò della divina musica e del grido:


«Or sappi che brucio, che moro di te.»


Come nel giorno precedente, quando, all’entrata delle acque di Valsolda, il vento e i fiotti erano corsi incontro al piroscafo e il nebbione si era rotto sulle montagne, così ora le parlavano le cose inanimate. Quei dirupi e le creste e la piccola punta di dolomia le dicevano: «sei qui». Si alzò in piedi lottando coll’emozione e si rimise in cammino. Pochi passi oltre la chiesa di Loggio, nella gola segreta dove si compongono intorno al sottile argento di una cascata le grazie della romita natura come intorno a una piccola regina, Lelia parve accorgersi della bellezza delle cose, immaginò posar con lui, lontana da ogni sguardo umano, dentro quella recondita poesia e quella musica. Sulla strada di Dasio, oltre Puria, ordinò al ragazzo, che precedeva, di avvertirla se vedesse qualcuno venire alla loro volta. Incontrarono un carbonaio, una guardia di finanza, una donna che portava dei funghi. Lelia pensò che avrebbe potuto domandare del dottor Alberti. Non osò. A piedi dell’ultima salita ombreggiata di noci, sul ponticello presso il quale sta una cappellina, si appoggiò al parapetto, esausta, tremante, quasi sfiduciata di poter proseguire. Sulla gradinata che sale una vecchia stava raccogliendo noci. Lelia mandò il ragazzo a domandarle se conoscesse il dottor Alberti. La vecchia era sorda e scimunita. Non capì. Lelia si rizzò con uno sforzo. Passando davanti alla cappellina vi guardò dentro. Vide statue dipinte, una scena della Passione, il Crocifisso, la Maddalena. Le parve che, se vi fosse stato il solo Crocifisso, si sarebbe inginocchiata di slancio a pregare. Così passò oltre.

Giunta alla svolta dove mette capo il viottolo di Drano due minuti sotto Dasio, sedette sul primo scalino del viottolo, ordinò al ragazzo di salire all’albergo dal nome scritto nel suo cuore. Doveva semplicemente chiedere se il signor dottor Alberti fosse in casa e venir a riferire la risposta. La risposta, attesa con un febbrile tremito di tutte le membra, fu che il dottore non era in casa. Allora Lelia, copertosi il viso colle mani, pensò.

Pensò a lungo, angosciata di sentirsi sola, sola, sola. Si scoperse il viso e guardò, come cercando consiglio, il folto verde davanti a lei, scendente nel vallone di cui vedeva l’opposto fianco. Tutto era indifferenza e pace. Rimandò in su il ragazzo colla preghiera che qualcuno dell’albergo scendesse a parlare con lei.

Venne una ragazza dall’acconciatura cittadinesca, dai modi cortesi. Per Lelia domandare di Alberti era un supplizio mortale. Non potendone a meno, preferiva farlo così, parlare con una persona sola piuttosto che all’albergo, in presenza Dio sa di quanti curiosi. Seppe che il signor dottore era stato chiamato a Muzzaglio due ore prima. Partendo aveva lasciato detto che sarebbe stato di ritorno alle dieci. Ora stavano per suonare le nove. Se la signorina desiderasse di andargli incontro non poteva sbagliare. Doveva prendere per il Pian di Nava e San Rocco.

«Ella può fermarsi al Pian di Nava, un quarto d’ora da qui; neppure! Di lì passa certo.»

Detto ciò, la giovine cercò insegnare la via del Pian di Nava al ragazzo, che non la sapeva. Perchè quegli durava fatica a capire, si offerse per guida, accompagnò Lelia, salendo attraverso il povero ma pulito villaggio, fino al lavatoio pubblico, la mise sul viottolo che di là volge verso ponente.

«Questo è il sentiero» disse. «In cinque minuti Ella è al Pian di Nava.»

Lelia pagò il ragazzo, lo congedò e si avviò sola. Dove il sentiero, oltrepassato il Camposanto e il valloncello della Terra Morta, monta nel cavo prato che grandi castagni ombreggiano lungo il labbro di mezzogiorno, lo lasciò, prese a sinistra, per l’erba, verso uno dei primi castagni. Di là poteva scorgere tutto il giro del sentiero, che rigando il prato andava a perdersi in un bosco. Sedette a terra e attese, con gli occhi al bosco.



III.



Quella mattina Massimo si alzò all’alba. Non aveva quasi dormito. Il giorno prima era stato a Lugano per noleggiare il piroscafo che avrebbe trasportato la salma di Benedetto da Porto Ceresio a Oria. Ora, compiuta anche questa pratica, nell’imminenza di prender parte alla funebre cerimonia, egli soffriva indicibili tormenti. La memoria di Maironi gli era sempre sacra e cara, sarebbe stato felice di rendere un omaggio privato all’amico, al maestro; ma l’omaggio pubblico significava un’adesione a credenze, a idee, che non erano più le sue. Rifiutarlo sarebbe stato quasi un’ingiuria; prestarlo sarebbe stato quasi del tutto un’ipocrisia. Benedetto era il Credo cattolico integrale, la fede incrollabile nella Chiesa, la obbedienza mansueta e umile all’Autorità. Massimo non credeva più. Aveva cominciato collo staccarsi mentalmente da Roma, col persuadersi che il Cattolicismo romano fosse condannato a morte. Poi, rapidamente, si era staccato anche da Cristo divino e risorto. La rapidità della rovina non era che apparente. Da molto tempo la sola compressione dell’obbligo religioso, imposto dalla Chiesa, manteneva solide nell’animo suo le credenze cristiane tradizionali, disgregantisi per l’azione di una critica continuamente assorbita da letture e da conversazioni. Respinta l’autorità della Chiesa, si rivelavano improvvisi gli effetti di quell’azione dissolvitrice. Oggi Cristo non era più divino per lui nè risorto; domani toccherebbe al Dio personale di crollare nella sua mente. Il primo passo, la liberazione da Roma, gli sarebbe riuscito dolce se il rompere con Roma non fosse stato un rompere col suo proprio passato di pubblico propugnatore della fede cattolica. Ma del successivo sprofondare verso l’agnosticismo si atterriva, si disperava tanto che talvolta lo assalivano accessi di reazione, fugaci e violenti. Quella notte stessa, pensando il proprio stato di coscienza e Benedetto, aveva acceso il lume in una convulsione di dolore e di speranza, si era inginocchiato sul letto davanti al quadro del Salvatore e di Pietro che s’incontrano sulle acque, aveva domandato fede fede fede, con gemiti inenarrabili. Presto la fiamma dell’anima gli era venuta meno. Gli era parso che le cose mute lo deridessero. Si era deriso egli stesso. Spento il lume, aveva morso il guanciale invocando Lelia. Si derise anche per questa stupida viltà, respinse sdegnosamente la immagine che non poteva uscire del suo cuore, che per questi sdegni piegava solo come una fronda piegata dal vento e subito risorgente. Si sforzò di non pensare che al montanaro ammalato cui doveva visitare l’indomani mattina a Muzzaglio, un infelice ridottosi, per causa della mala vita di sua moglie, a vivere solo in una stalla, fuori del consorzio umano. Si alzò all’alba e si mise a studiare in un trattato di medicina il caso di un bambino minacciato di appendicite. Altro riposo non v’era per lui che il chiudersi tutto nelle sofferenze dei suoi pochi ammalati, identificarsi con essi. L’uomo di Muzzaglio, datosi al bere per le sue disgrazie coniugali, semi-ebete, viveva in una tana immonda con quattro capre e una pecora nera, schifoso di sporcizia. Non scendeva a Castello e a Puria che per cambiare il latte in alcool. Quando gli nasceva un capretto o un agnello, le sbornie di acquavite si succedevano spaventose. In paese lo chiamavano l’uomo selvatico. Ora era convalescente di una polmonite e Massimo cercava ogni via di redimerlo dalla sua abbiezione. Aiutato da due buone donne di Dasio, gli aveva fatto una pulizia completa, lo aveva trasportato in una stalla vuota, poichè a Muzzaglio non sono che stalle, sopra un giaciglio umano. Gli recava egli stesso ogni mattina uova brodo e quel po’ di vino di cui non poteva privarlo. Si proponeva di veder la moglie, di persuaderla a riprendersi il marito cacciato di casa come un ubbriacone, di farsi promettere che non venderebbe la pecora nera da lei odiata, com’era il bambinesco terrore di lui quando Massimo gli parlava di pace e di riunione: «La vend la pégora! La vend la pégora!»

Uscì dall’albergo prima delle sette, andò a visitare il bambino, ritornò a prendere il canestro colle uova, il brodo e il vino. A Muzzaglio trovò il convalescente alzato, ascoltò con pazienza grande le chiacchiere infinite della vecchietta che lo assisteva e riprese la via di Dasio. Sostò ai pascoli di San Rocco, dove l’ultimo verde muore alle pareti di roccia. Vi pasceva un armento, il continuo tintinnìo di campani oscillava sul rombo eguale del fiume profondo. Sedette sull’erba ascoltando il rombo simile alla voce del Posina ch’empiva, a finestre aperte, la sua camera della Montanina. Il tempo era grigio, malinconico il rombo, malinconico il tintinnìo dei campani delle vacche pascenti. Il rombo gli faceva male, un dolce male cui si abbandonò, vôto di pensiero. Qualche ricordo preciso di Lelia gli passò per la mente quando riprese la via, dolendogli ancora il petto di quel dolce male. Si fermò a guardar fiso, nel bosco, un ciuffo di ciclamini fioriti presso il sentiero, li guardò fino a che quelle immagini gli rientrarono sotto la soglia della memoria cosciente. Uscì, camminando adagio, dal bosco di castagni e di noci nel Pian di Nava.

Vide subito, a duecento passi, una signora vestita di chiaro, seduta sull’orlo alto del prato, dov’esso gira a sinistra e scende verso la Terra Morta. Non se ne curò. Quasi ogni giorno salivano a Dasio villeggianti di Loggio e di San Mamette. Non se ne curò e non la guardò. La signora era seduta fuori del sentiero, circa venti passi a destra. Quando Massimo, camminando lentamente, le fu a paro, ella si alzò in piedi. Egli la guardò allora per l’impressione di quel movimento come avrebbe guardato una fronda improvvisamente agitata dal vento. Non la riconobbe, voltò la testa da lei al proprio cammino e già passava oltre. Ella fece l’atto di movere avanti, si porse e si trattenne. Allora egli si trattenne pure e la guardò nuovamente. Era tanto pallida, tanto stravolta che ancora non l’avrebbe riconosciuta se gli occhi di lei non lo avessero guardato con una fissità vitrea. Dubitò, trasalì, impietrò. Ella piegò il viso, cercò brancolando, sussultando, un appoggio, indietreggiò di un passo verso l’albero al cui piede si era seduta, inciampò nelle proprie vesti, portò rapidamente la mano indietro, al tronco dell’albero, rimase in piedi, a capo basso. Massimo, slanciatosi avanti per sostenerla, si arrestò. Vedeva ch’era lei, non poteva crederlo, si levò il cappello, stupidamente, senza sapere che si facesse. Ella porse il viso smorto, rigato di lagrime, il petto ansante, lo fissò ancora. Quegli occhi parlavano, dicevano amore amore, dolore dolore. Egli vedeva e non poteva credere. Fece un atto di saluto, a caso, come per partirsi. Ella porse daccapo il viso e le sue labbra si contrassero disordinatamente in una voce muta. Massimo volle pensare ch’ell’avesse necessità di qualche aiuto, di qualche indicazione come un viandante qualsiasi, e vergognasse di doversi rivolgere proprio a lui. Nello stesso tempo gli balenò una spiegazione di quella presenza e non dubitò che fosse vera.

«Ella è qui con donna Fedele?» diss’egli. E si mise subito sulle difese. Certo donna Fedele aveva fatto questo, aveva persuasa la ragazza, le si era imposta. Non vide l’assurdità della supposizione, afferrò un’apparenza di vero, il solo modo possibile di spiegare come Lelia fosse lì davanti a lui. Ma Lelia, chinato il viso, accennò di no.

«Con Suo padre?» esclamò il giovine, più stupefatto che mai, sapendo di supporre una cosa impossibile. Lelia, sempre col viso basso e gli occhi a terra, accennò ancora di no.

Allora, finalmente, nell’attitudine vergognosa, umile di lei, Massimo intravvide il vero, il perchè di quegli slanci repressi della bella persona verso di lui. Ma non ardì ancora dire una parola, fare un atto che rispondesse al dolcissimo vero. Porgendosi a lei palpitante, quasi cieco di emozione, mormorò: «Sola?»

Lelia non rispose, si coperse il viso colle mani. Il giovine gliele afferrò, le sentì cedere, cedere, in un’onda di abbandono che parola umana non avrebbe potuto esprimere. A un tratto resistettero. Egli non ne intese il perchè, trasalì di terrore. Lelia guardò un attimo, ritraendo le mani, verso il sentiero dove passavano due guardie di finanza e un’ombra lievissima di timore le sfiorò il viso. Egli intese, le disse alcune parole incoerenti, forzando a un tono indifferente la voce, che tuttavia tremava più e più, perchè quello che ora non dicevano le mani di Lelia, lo dicevano gli occhi fissi, gravi, cupi di passione. Un lume di sorriso le comparve sul volto, le mani ebbero un picciol moto lento di offerta; coloro erano passati. Massimo riafferrò le mani gelide. Cedevano, però con certo maggiore ritegno che la prima volta, e gli occhi, esperti del pericolo, spiarono rapidamente il sentiero. Egli le mormorò altre parole incoerenti, le offerse il braccio, dubitando che le dispiacesse, lì dove poteva passar gente, venir tratta per mano e pur volendo sentire un vivo di lei. Strinse il braccio, subito concesso, di una stretta che le colorò il viso.

Felice di una gioia di fuoco, ella era ritornata padrona di sè, mentre Massimo, preso da vertigini, non sapeva dirigersi. Piegò verso Dasio. Lelia non disse parola ma il braccio prigioniero spinse dolcemente, deliziosamente, la persona cara verso l’altra parte, verso il bosco; poi, mentre lo sguardo diceva «ti amo, ti amo» si ritirò pian piano dalla stretta. Ella prese a camminare, sul sentiero angusto, davanti a Massimo. Ogni tre o quattro passi voltava il capo, lo fissava senza proferir parola. Talvolta nella prima dolcezza degli occhi quasi velati si accendeva rapidamente un fuoco scuro. Allora quegli occhi tornavano al cammino, come se l’anima non potesse sopportare il gran fuoco. Nel bosco i due si trovarono a paro. Egli le cinse con un braccio la vita. Ella lo guardò, lo guardò, piegò il viso verso di lui che piegò il suo. Le labbra mute di lei si porsero. Il bacio fu lieve perchè l’uno e l’altra sentivano confusamente quasi una riverenza di qualchecosa di augusto che si compiesse in quel momento, di qualchecosa di eterno che fosse incominciato col bacio dell’amore. Lelia si levò il cappello, ritornò al bacio, piegò il viso sul petto dell’amato.

Allora egli, non più smarrito, tutto rinnegando quel che aveva pensato amaramente di lei, godendo di abbandonarsi senza misura, le mormorò sul tepido profumo dei capelli biondi:

«Per sempre; vero?»

Ella rispose con una pressione impetuosa della fronte. Voci di donne nel bosco. Lelia alzò il viso, riprese la via davanti a Massimo, voltandosi ogni momento a guardarlo, come prima. Nel ripassare accanto ai ciclamini che poco dianzi aveva contemplati a lungo, Massimo ne colse uno per lei e sorrise. Ella baciò la mano che offriva il fiore e disse quindi le sue prime parole:

«Perchè ride?»

La nota voce di contralto gli risuonò nell’anima. Più che mai, nell’udirla, fu certo di non sognare, più che mai la realtà gli parve sogno. Solo conosceva di quella voce la freddezza, l’ironia e la collera. Le due parole, per sè indifferenti, erano la nota, toccata appena, della quarta corda, la nota dolce e grave di una corda incognita che trasformava il suono dello strumento: della corda dell’amore. Per qualche momento Massimo, vinto dalla dolcezza, non seppe rispondere, dire come il rombo del torrente gli avesse richiamato alla memoria la Montanina, come si fosse lungamente affisato nei ciclamini per forzarsi di non pensare l’immagine di lei che gli bruciava il cuore. Le parole che dicevano il suo passato soffrire accesero negli occhi di Lelia la solita fiamma, oscura della divina oscurità che eccede la luce. La fiamma si spense mentr’ella disse:

«Mi conduca dove ha cominciato a pensare a me.»

Egli suggerì, pregando: «conducimi.» Lelia lo guardò a lungo prima di rispondere: «ancora non posso.»

Massimo sentì perchè non poteva. Glielo lesse negli occhi parlanti. Troppo era ancora vivo in quell’anima il rimorso della ingiustizia crudele.

«Sei tu» diss’egli, nella sua sete di oblìo del Passato dentro il dolce Presente «che devi perdonare a me.»

Voleva spiegare le parole strane, dire quanto gli rimordesse di averla giudicata indegna. Ma il Passato ribollì così forte nelle due anime che nè Lelia nè Massimo seppero aprir bocca, l’una per protestare, l’altro per spiegarsi. Camminarono in silenzio, senza neppure guardarsi, fino agli aperti pascoli di San Rocco, fino al primo rombo del fiume profondo.

«Ecco» disse Massimo.

Lelia chiuse gli occhi perchè il paese troppo diverso le impediva di trovare nella voce profonda i ricordi del Posina. Ora non vedeva il paese, sentiva altezza e deserto nell’aria odorata dei pascoli magri, sassosi, viva dei suoni dispersi dei campani. Non le tornò in mente la Montanina ma la costa selvaggia dei rododendri, dov’era stata vinta.

Sfinita dall’emozione e dalla stanchezza, impallidì subitamente, accennò che desiderava riposare. Ansioso, quasi atterrito, egli l’adagiò sull’erba, le prese, le accarezzò le mani. Scossa la persona da tremiti, scomposta da moti convulsi anche il viso, piegando talora il capo come se mancasse, ella lo guardava, lo guardava. Lievi lumi di dolcezza e fiamme oscure le si alternavano negli occhi.

Il giovine offerse di scendere al torrente per attingere un po’ d’acqua nella sua tazza di metallo e faceva già l’atto di alzarsi, quando essa gli afferrò in silenzio ambedue le mani, lo trattenne quasi violenta.

Presto si venne ricomponendo nella persona e nel viso. Si ravviò i capelli e, presa una mano di Massimo, gli mormorò guardandone, studiandone il palmo:

«Come ha fatto a perdonarmi così presto?»

«Oh, io!» esclamò egli. La domanda concepita e frenata fin da quando ell’aveva confessato di essere venuta sola, gli proruppe dal labbro: «ma tu...?».

Ella intese senz’altro. Gli disse che non era in grado di parlare, che, se voleva, avrebbe scritto. Soggiunse, richiesta, ch’era arrivata la sera precedente e che aveva preso alloggio a San Mamette. Una sola cosa Massimo ardì domandarle ancora: se suo padre sapesse. Lelia rispose che solamente donna Fedele sapeva e che aveva saputo dopo la sua partenza. Seguì un silenzio turbato, nel cuore di lui, di varie incertezze, nel cuore di lei, della pena di sentirle e di non sapergliele togliere lì per lì. Massimo propose di ritornare a Dasio, dov’ella potrebbe riposare, ristorarsi. Ella si mosse come se la parte sua non fosse di acconsentire ma solamente di obbedire, come s’ella fosse oramai cosa di lui.

S’incamminarono lentamente, ella appoggiata al braccio di lui, in silenzio. Egli cominciava a preoccuparsi dei commenti che avrebbero fatto all’albergo. Era scritto oramai ch’egli desse a Lelia il proprio nome, il proprio onore, la vita; ma quand’anche non fosse stato così, avrebbe fatto il possibile perchè una sola parola maligna non sfiorasse la fanciulla che per un impulso di passione e di rimorso era venuta a gittarsi nelle sue braccia. Gli parve a un tratto vedere negli occhi di lei una pena di quel suo silenzio pensoso. Erano nel fitto del bosco. Sciolse il braccio da quello di lei, ne cinse e trasse a sè la sottile persona, amorosamente. Ella sussurrò, ansiosa:

«Ho fatto male?»

Massimo la strinse a sè, forte.

«Sposa mia» diss’egli.

Ella gli piegò la tempia sulla spalla, dicendo:

«L’ho amato sempre; sempre sempre.»

Ecco, all’uscita del bosco, le donne di cui poc’anzi avevano udito le voci. Salutarono, guardando curiosamente la signorina. Massimo sentì che sarebbe stato un errore di fingere troppo, di usare troppe cautele perchè la gente non sospettasse. Dilungatesi quelle donne, disse a Lelia che l’avrebbe presentata agli albergatori come sua fidanzata.

«Sì sì, ma per Lei, non per me. Anche prima, era per Lei.»

Ella voleva dire che se la presenza di estranei la rendeva cauta nelle sue dimostrazioni di amore, era per la riputazione di lui, non per la propria. E non sapeva, nella sua sete di umiliarsi, lasciare il Lei. Massimo vi si dovette rassegnare. Gli domandò, avida di contraddizione, se non si pentirebbe, in seguito, di averla presentata così. Intanto arrivarono al valloncello che dal Pian di Nava discende verso la Terra Morta e il piccolo cimitero. Scoprendo la chiesa e le casette di Dasio, annidate nel verde sotto le due colossali fronti di dolomia, l’una volta a mezzodì, l’altra a ponente, che si congiungono ad angolo nella fenditura del Passo Stretto, piena di cielo, Lelia si arrestò.

«Non ancora!» diss’ella. Si pentì subito, come di una disobbedienza, voleva continuare malgrado la ripugnanza per l’albergo, malgrado il desiderio di prolungare l’ora dolce quanto fosse possibile. Massimo le concesse pochi minuti di sosta; non più di pochi minuti perchè ella era tanto pallida! Il cielo era tuttavia coperto, nebbie pascevano sulle creste cineree. Il verde uniforme, non rotto d’ombre, i toni grigi della scena parevano un riguardoso tacere della natura intorno alle due anime, tanto piene l’una dell’altra. Lelia, seduta sull’erba, guardò un momento il dolce silenzio di quella velata bellezza di cose.

«Ah!» esclamò. «Vivere qui!» E chiuse gli occhi, rapita. Massimo tacque. Sarebbe stato un sogno; ma sapeva bene, Lelia, che significasse vivere a Dasio? Gli parve savio tacere. Il suo silenzio sorprese la fanciulla. «No?» diss’ella. Egli sorrise. «Sì» rispose «ma converrebbe provare, prima, viverci qualche giorno.» Ella lo guardò. Lo sguardo diceva, desiderando: posso io vivere qualche giorno qui presso a te, ora? Conscio di essere stato imprudente egli approfittò di una minuta gocciolina cadutagli sulla mano per invitare la fanciulla a rimettersi in via.

Il sussurro della pioggerellina fine accompagnò i loro passi. La visione di sogno evocata da Lelia, una convivenza a Dasio, li aveva richiamati alla realtà. Tacevano, ignorando penosamente l’uno il pensiero dell’altro, non già riguardo a un avvenire lontano, ma proprio al più vicino. Ella era venuta di slancio, per amore. La liberazione dal peso mortale dell’atmosfera infetta, ora gravante sulla Montanina era stata pure una gioia. All’indomani non aveva pensato. Sì, Massimo aveva detto «per sempre», aveva detto «sposa mia»; ma intanto? Non si sarebbe preoccupata dell’indomani se non avesse capito che se ne preoccupava egli. Avrebbe preso alloggio a Dasio, senz’altro. Non le importavano i discorsi della gente, le importava non fare, non dire cosa che a lui paresse sbagliata, non commettere una sola mancanza di tatto. Lo guardava, ne spiava il pensiero ansiosamente. Egli taceva, lottava coll’ebbrezza della felicità per imporsi di esser uomo e non fanciullo, di governare con senno e fortezza tanto sè quanto la donna destinata a diventare sua moglie. Ora prevaleva la febbre di gioia ed egli guardava Lelia, l’incredibile realtà, così da farla sorridere; ora prevaleva il proposito virile e gli oscurava la fronte.

«E donna Fedele?» esclamò a un tratto. «Cosa avrà detto donna Fedele?»

Lelia lo immaginava. C’è al mondo una sola creatura capace di pazzie simili: ecco quello che probabilmente aveva pensato donna Fedele. Non volle dirlo, si chinò a leggere una lapide commemorativa nel muricciuolo che fronteggia il sentiero.


LORIO GIUSEPPINA
QUI ESTINTA PER ASSASSINIO


Trasalì, indovinando una tragedia di passione, un cuore ardente come il suo, freddato col ferro o col piombo.

«Assassinata no» diss’ella, «ma per me il morire adesso, di colpo, sarebbe una gioia.»

Egli non parlò ma gli occhi e l’ansar del petto dissero il suo rimprovero doloroso.

«No no» mormorò Lelia. «Voglio vivere vivere vivere!»

Entrarono nel villaggio. Dentro il villaggio ella diventò, per lui, più cauta di lui, non si voltò a guardarlo fin quasi alla soglia dell’albergo, dove, non potendone più, gli gittò un lampo degli occhi desiderosi. Massimo, che alloggiava nella parte vecchia della casa, pregò l’albergatrice di accompagnare la signorina, che si sarebbe fermata almeno per alcune ore, in una camera dell’ala nuova, di prendere i suoi ordini per la colazione da portarle in camera. Non gli parve opportuno, in quel momento, dirne il nome nè altro. Mentre parlava entrò il fattorino dell’ufficio telegrafico di San Mamette con un dispaccio per lui. Lo aperse. Era il telegramma di donna Fedele colle parole: sia cristiano e gentiluomo. - Lo intascò senza dir niente e prese congedo da Lelia allegando certe visite da fare a Puria. Prima di partire salì nella propria camera per scrivere a donna Fedele due parole che il fattorino stesso avrebbe recate alla Posta. Scrisse:

Cara mamma Fedele.

Lelia è qui. Forse non meritavo ch’Ella mi ricordasse il dovere di condurmi da gentiluomo. Voglia, La prego, domandare al signor da Camin la mano di sua figlia per me.

Suo
Massimo.


Consegnò la lettera al fattorino e corse a Puria. Intanto l’albergatrice curiosa fece a Lelia grandi elogi di Massimo, coll’intenzione di preparare il terreno a esplorazioni ulteriori. Parlò della sua bontà e anche dell’abilità, della propria speranza ch’egli venisse nominato medico condotto della Valle.

«Lei è forse una parente?» diss’ella.

Invece di rispondere, Lelia chiese il necessario per scrivere.


IV.



Massimo fu di ritorno da Puria quasi due ore più tardi. Nell’andare aveva fatto la strada di corsa. Nel ritorno era venuto lentamente e tuttavia non aveva pensato a contemplare la punta di dolomia. Gli pareva di smarrire il cervello, tanto era, nel suo interno, il tumulto dei pensieri e dei sentimenti. Aveva domandato la mano di una ricca ereditiera senza pensare alla sua ricchezza. Lo si poteva sospettare di avere attirata Lelia in Valsolda per imporsi quindi a suo padre come marito. N’era inorridito a segno da chiedersi se piuttosto che soggiacere a un tale sospetto non fosse da sacrificare la felicità. Ora si proponeva di parlarne a Lelia, ora lo atterriva l’idea che, nel suo ardore di passione ella non lo comprendesse, gli facesse rimprovero di amar poco, di non saper affrontare anche il disprezzo del mondo come lo aveva affrontato ella stessa. E si torceva le mani, straziato da questo terrore, per dirsi poi ch’era un terrore vano, che quel sospetto orribile non verrebbe a nessuno, che, se venisse, Lelia saprebbe dissiparlo. Arrivò all’albergo tutto molle di sudore e tuttavia pallido come un cadavere. Udito che Lelia non era discesa, salì nella propria camera. Si venne tosto ad avvertirlo che la signorina era in giardino e aveva domandato di lui. Palpitò di rinnovata emozione, dimenticò i pensieri torbidi e raggiunse Lelia in fondo al giardino, presso l’abete e il bacino dove mormora uno zampillo. Il giardino è una lista rettangolare di terreno piano, lunga e stretta, fronteggiata a tramontana, in parte, dall’ala nuova dell’albergo, sorretta a mezzogiorno dal muraglione del sagrato. Dove l’ala nuova finisce, la lista si allarga in un orticello, si scoprono casucce del villaggio cui si abbrancano festoni di viti, e sopra le casucce, piuttosto materna che minacciosa, una rupe colossale. Là in fondo è l’abete, è il bacino collo zampillo. Il sagrato, poco più basso del giardino che lo domina, porta su la chiesa a levargli parte della veduta di mezzogiorno, fra la valle digradante a ponente verso il lago di cui riluce uno specchio verde, e le pendici, a levante, dove i castagneti di Drano e i pascoli dei Rancò salgono ripidi alle tragiche balze che fanno angolo, al Passo Stretto, con quelle imminenti a Dasio. Fra il viale mediano e il parapetto di mezzogiorno sono alcuni alberi. Quel giorno erano state tirate corde un po’ dappertutto, per il bucato dell’albergo. Fortunatamente la pioggia aveva posto il bucato in fuga e si era accontentata di questa vittoria; per cui Lelia potè sedere all’aperto, sul parapetto, senza patire la compagnia di calze, fazzoletti e camicie.

Veduto Massimo, si alzò, tenendo una lettera. Gli disse che aveva fatto colazione in camera e che poi aveva scritto. Egli porse la mano, pensando che la lettera fosse per lui, dicesse ciò che Lelia aveva confessato di non sapere spiegare a voce, il mutamento avvenuto nell’animo di lei, il perchè e il come della sua risoluzione. Ma Lelia, prima di dargli la lettera, gliene fece leggere l’indirizzo: «Signor Gerolamo da Camin - Velo d’Astico (Vicenza).» Massimo ritirò la mano.

«No no» diss’ella. «Deve leggere. Solo La prego di non leggere in presenza mia. Lei non ha fatto colazione? Legga e faccia colazione. Io vado a riposare un poco.»

Massimo accompagnò la fanciulla all’entrata dell’ala nuova. Ella parve leggergli nel pensiero, notare in lui qualche ritegno. Al momento di lasciarlo per salire in camera lo guardò. I begli occhi desiderosi, un po’ attoniti, parvero ingrandire, le labbra sussurrarono:

«Mi ama?»

«Ora e sempre» diss’egli.

Gli occhi grandi durarono a interrogarlo, parvero contenti, si velarono di una blanda luce di dolcezza. La ragazza che stava sciorinando daccapo calze, fazzoletti e camicie sulle corde tese, quando vide la faccia di Massimo che ritornava solo verso il salotto dell’albergo, sorrise.

Egli andò a chiudersi in camera e lesse: A mio padre.

Ciò che ho fatto e che intendo fare ti parrà molto strano. Tuttavia confido nella tua piena approvazione. Ti domando fin d’ora quella libertà alla quale fra pochi mesi avrò diritto. Come ne userò non posso dirti ancora; ma questo ti posso dire e ti dico subito che delle mie rendite ti domanderò lo stretto necessario per vivere qui, sola, modestamente. Del resto non mi dovrai dare nessun conto. Per ora non mi occorre nulla. A suo tempo riscriverò. Saluti.

Lelia.


P.S. Se, date certe circostanze, fosse necessario che io ritornassi per qualche giorno, accetterei l’ospitalità, opportuna in quel caso, della Vayla di Brea.

Un flutto di gioia e di amore gli gonfiò il petto. Mise un lungo respiro di sollievo, di beatitudine. Nulla nulla, pensò, deve avere da suo padre! Come la sentiva sua ora, senza la ricchezza! Quanto avido era di stringersela sul cuore! Ma ella doveva riscrivere subito la lettera, dire che non avrebbe domandato nè accettato un centesimo. Gli era impossibile di tardare a dirle la sua gioia e questa precisa volontà. Precipitò dalle scale per correre da lei. Prima ancora di arrivare al fondo, riflettè. Sarebbe stato sconveniente di salire nella sua camera. Andò ad aspettarla in giardino. Aveva ricominciato a piovigginare. Non se ne curò, si pose a sedere sul parapetto dov’era stata seduta Lelia. A un tratto gli balenò che Lelia avesse espressamente taciuto, nella sua lettera, di lui. Nemmanco vi aveva apposta la data, mentr’egli invece, con quell’incarico a donna Fedele, scopriva ogni cosa. Sarebbe forse necessario mandare un telegramma a donna Fedele, sospendere. O non era meglio, piuttosto, che Lelia dicesse chiaro a suo padre come stessero le cose?

Ella non scendeva e Massimo, impaziente, si pose a camminare su e giù per il giardino facendo ancora sorridere la ragazza che raccoglieva daccapo le sue biancherie. Lelia comparve a una finestra, lo vide, disparve subito. Massimo non potè trattenersi dall’andare a incontrarla sulle scale. Sapeva che in quell’ala dell’albergo non c’era anima viva, certa famiglia milanese arrivata da un giorno essendo fuori, sulla montagna, dall’alba.

«Sono felice!» diss’egli.

Ella gli cadde sul petto, gl’intrecciò le mani dietro il collo, mormorò:

«Andava bene?»


Uscirono e si avviarono al riparo dell’abete, egli parlando sottovoce ma impetuoso, ella tacendo, bevendo le parole ardenti, beata. Disse finalmente che non avrebbe voluto essergli di peso ma ch’era contenta di accettare la volontà di lui, che avrebbe scritto un’altra lettera come desiderava egli, dichiarando di rinunciare del tutto a qualunque assegno. Udito poi dell’incarico dato da Massimo a donna Fedele, lo avvertì della partenza di lei per Torino, imminente. Solamente allora Massimo apprese parte della verità dolorosa. Che un ritardo, anche brevissimo, dell’operazione potesse riuscire fatale all’inferma, neppure Lelia sapeva.

Sorpreso, afflitto, egli si dolse di non aver appreso la cosa in tempo per offrirsi di accompagnare donna Fedele a Torino. Lelia lo guardò. Temette di esprimere il suo pensiero con parole che avrebbero offeso il pudore dell’egoismo, ma gli occhi dissero chiaro: non pensi che non saremmo qui insieme? Egli capì, sorrise, rinnegò, pure cogli occhi, il rincrescimento generoso. Consci di un comune moto dell’animo che li abbassava, non osarono riprendere quel discorso. Ora occorreva che Lelia scrivesse presto la nuova lettera, che non dimenticasse di aggiungervi la data, e anche una parola d’invito a rispondere.

Mentr’essa, risalita in camera, scriveva Massimo pigliava qualche cibo, ecco di ritorno i milanesi, scalmanati, stanchi, bagnati, carichi di fiori della montagna, di ciclami, di aconiti, di felci, di funghi, di fragole, di formaggi di capra e di bottiglie vuote. Non c’era più a sperare silenzio nè quiete, nè libertà di colloquii nel giardino. Quando Lelia discese colla lettera, Massimo le propose di partire. Ella, che mostrava già fastidio dei disturbatori, accettò subito. Prima di mettersi il cappello chiese spensieratamente:

«Ritorniamo, vero?»

Massimo la guardò. Ella lo vide accendersi nel viso e arrossì pure. No, non aveva pensato di restare a Dasio. Credeva che Massimo le avesse proposto un breve passeggio per sottrarsi alla compagnia turbolenta e scendere più tardi. Massimo guardò l’orologio. Erano quasi le tre.

«Prendiamo quattr’ore» diss’egli «per scendere.»

Lelia, contenta, lo ringraziò cogli occhi.

Partirono nel sole e nel vento. Si era levata una «breva» gagliarda che aveva cambiato faccia al cielo e alla terra. Il sereno rompeva da ogni parte. I pascoli dei Rancò, i castagneti di Drano, le ignude creste taglienti risplendevano, il fogliame umido batteva e luccicava intorno ai due che, lasciata la via di Puria là dove la ragazza dell’albergo era discesa a parlare con Lelia, si erano messi per lo stretto sentiero affogato nel verde, che, di ripiano in ripiano, per sassi e acquitrini, per campicelli e ripide coste erbose, salta e si perde nel morbido grembo del vallone, dove cantano e girano verso mezzodì le acque discese dal Passo Stretto. Ricompare girando con esse, sale al ponticello di sasso che le cavalca, gittato dal basso all’alto dove i macigni le stringono irritate. Rude com’è, avvinghiato da rovi e sterpi dell’una e dell’altra sponda, il ponticello pare opera della natura piuttosto che dell’uomo. Prima di giungervi il viottolo rade un cavo di roccia sufficiente a capire due o tre persone che vi riparino dalla pioggia. Il cavo è volto a settentrione, guarda la costa di Dasio, il vallone del Passo Stretto, il sovreminente anfiteatro di rocce Massimo e Lelia vi si adagiarono a riposare.

«La punta di dolomia?» diss’ella. «Qual è?»

Massimo la guardò stupefatto. Che sapeva lei della punta di dolomia? Ella abbassò il capo e tacque. Egli le prese una mano fra le proprie, rinnovò la domanda, più stringente, più ansiosa. Che ne sapeva lei?

«Vorrei rispondere colla musica di Schumann» diss’ella, piano, senz’alzare il capo «e mettervi tutta l’anima mia.»

Massimo comprese che donna Fedele aveva parlato e strinse in silenzio la docile mano prigioniera. Palpitavano entrambi ascoltandosi nella memoria l’incalzante ansito e lo slancio delle note divine. Il rombo eguale del torrente era un accompagnamento sconsolato, era il tristo ululo di un idiota che sentisse torbidamente, invidiando, l’amore e la musica.

«Or sappi...» mormorò Lelia, alzando il viso rigato di lagrime d’amore. Massimo non conosceva quei versi.

«Or sappi?» diss’egli. «Niente» rispose Lelia continuando involontariamente il tudei versi: «mostrami la punta di dolomia.»

Egli le mostrò, sulla cresta della montagna in faccia, il piccolo dente inclinato a mordere il cielo poco sotto la sommità, verso levante.

«Lo pensavo» diss’ella «ma l’effetto è diverso quando la rupe si vede spiccar nel cielo dentro un piccolo campo, come dal salone della Montanina.»

«Ve l’hai cercata?» chiese Massimo per la dolcezza dell’attesa risposta. Ma poi non l’attese, si punì della sua gola indiscreta, domandò come donna Fedele avesse riferite le sue parole sulla rupe. Lelia chinò ancora il viso.

«Ho letto tutto» diss’ella.

«Tutte le mie lettere?»

«Sì, credo tutte.»

Ella sapeva, dunque, il giudizio acerbo ch’egli aveva fatto di lei. Il giovine ammutolì, prima. Quindi le domandò:

«E sei venuta?»

«Se non avessi letto, non sarei venuta.»

Massimo teneva ancora la piccola dolce mano. L’accarezzò, l’accarezzò in silenzio, quasi a detergere dalla dolce mano un’offesa.

«Ho letto l’ultima» disse Lelia «fra i rododendri della Priaforà. Allora ho deciso e ho fatto i miei piani.»

Sorrise, pensando alla siora Bettina. Massimo durò poca fatica a strapparle il racconto della fuga. Ella raccontò, un po’ ridendo un po’ fremendo, i maneggi dei preti di Velo e della Fantuzzo, confessò le proprie ipocrisie, fece ridere anche Massimo colla descrizione del viaggio da Arsiero a Vicenza. Non nominò mai suo padre. Raccontò anche gl’incontri fatti in ferrovia, la indiscrezione della canzonettista, la galanteria del viaggiatore di commercio, ridendo e fremendo ancora, come una piccola fiera che mostrasse i denti. Massimo fece scorrere, desiderando vederlo, l’anello della mano prigioniera, che la canzonettista aveva levato. Lelia curvò il dito, resistendo, ed egli lo lasciò. Ella si pentì, lo pregò di prenderlo. Perchè egli esitava, se lo levò, glielo porse, triste in viso e grave. Il giovine vi lesse «A Leila.» Impallidì. Ricordava che il suo povero amico Andrea gli aveva raccontato della disputa colla fidanzata per il nome «Leila», del dono. Le ripose l’anello in dito, tacendo, e, tacendo, le lasciò libera la mano.

«Io ero cattiva» disse Lelia, sottovoce, «ed egli era tanto buono.»

Nel silenzio che seguì, l’eguale rombo del torrente non era più l’urlo di un idiota, era un compianto sul morto bel giovinetto dal cuor gentile.

Massimo riprese la mano della fanciulla.

«Suo padre ha desiderato» diss’egli, «poco prima di morire, che io prendessi il suo posto. Questo desiderio lo deve aver messo egli nel cuore di suo padre. Non lo dimenticheremo mai, cara; vero? Mai mai fino alla morte. Vuoi che ti chiami Leila, in memoria di lui?»

«Sì sì» diss’ella commossa. Entrambi, uno dopo l’altro, baciarono l’anellino.

«Mi parlava tanto di Lei, sa» disse Lelia, ritornando al «Lei». Egli non rispose. Si alzarono insieme, per una tacita intesa, passarono il ponte, seguirono il sentiero che sale alquanto, serpeggiando, e ora si snoda per la sinuosa costa tutta sonora del torrente profondo, ora si addentra in valloncelli ombrosi, corsi da rivoletti. Lelia ruppe il silenzio per la prima. Attraversarono l’alto prato dov’è una cappellina, dove monti e valli e lago, tutto appare scoperto:

«Temo di essere troppo cattiva e troppo strana, per Lei.»

Massimo sorrise.

«Lelia lo è stata, forse» diss’egli. «Leila non lo è.»

Ella gli prese, camminando a paro con lui, la mano, disse sottovoce:

«Sì, sarò sempre Leila, oramai, sempre Leila. Come vuole che sia, Leila?»

«Voglio che sia buona più di me» egli rispose «e che la sola sua stranezza sia di voler bene a un povero medicuzzo che le offre una vita grama.»


Lelia gli si attaccò al braccio, appassionatamente, lo rimproverò.

«Lei dovrebbe lasciarle dire ad altri, queste cose volgari!»

Appena proferite le parole audaci, ne arrossì, chiese perdono.

«Staremo qui, vero?»

Massimo le spiegò che non poteva esserne ancora sicuro. Era venuto in Valsolda coll’idea di concorrere alla condotta e l’aveva smessa perchè il concorso pareva dovesse riuscire una formalità, il nuovo medico essendo già designato. Ma ora questi si era ritirato dal concorso e cominciava qualche favore per lui, Massimo. Aveva quindi intenzione di presentarsi. Se non venisse eletto, non potrebbe rimanere. Sarebbe necessario cercare un’altra condotta.

«Domani» diss’egli «vado a visitare i sindaci.»

«Domani?» esclamò Lelia, quasi atterrita. «E non La vedrò, domani?»

«Forse mi vedrà, forse non mi vedrà. Ma Leila deve comprendere che insieme come oggi non potremo stare fino che non vengano risposte da Velo d’Astico.»

La fanciulla si rattristò, mormorò che temeva di non essere ancora tanto Leila. Massimo non intese, la pregò di ripetere.

«Forse non comprendo bene» diss’ella. «Obbedisco, però. Faccio tutto quello che Lei vuole.»

Avrebbe voluto prendere tutti i sentieri che salivano, non arrivare mai a San Mamette. Uscendo, presso il lavatoio di Drano, sulla stradicciuola selciata che conduce agli alti pascoli dei Rancò, vedendola entrare, a pochi passi, nel bosco, desiderò esplorarla.

Tutto, nel bosco, le era pretesto a indugiarsi: un macigno dei tanti enormi che emergevano nell’ombra, un gruppo di sottili acacie smarrite fra i castagni e i noci, un vecchio castagno mostruoso, patriarca della selva, un cilestrino, tra fronda e fronda, del lago lontano, pieno di sole; finalmente, dove la stradicciuola monta all’aperto, ignude e grandi davanti a lei, le pareti di roccia sopra Dasio, la piccola punta di dolomia, obliqua nel cielo. Visibilmente stanca, avrebbe voluto salire ancora. Massimo non lo permise.

«Leila obbedisce» diss’ella.

A salire verso il monte era pronta sempre; nella discesa avrebbe voluto riposare a ogni passo. Finirono con riderne, l’una e l’altro. Sotto Drano ella si fermò ad ascoltare una piccola voce d’acqua invisibile sotto i suoi piedi.

«Vorrei sapere se ride o se piange» diss’ella. «Lei pensa che ride di me. Io penso invece che piange per me, perchè presto saremo a San Mamette.»

Domandò se andando a San Mamette sarebbero passati dalla cascata veduta la mattina. Udito che no, guardò Massimo ridendo e arrossendo, senza dir parola. Era una breve deviazione e Massimo l’accontentò. Raggiunto alla chiesa di Loggio il viottolo di Puria, lo seguirono nel vallone della cascata.

Là nella gola ombrosa, stretta fra due fauci boscose e chiusa, nel fondo, da una parete di roccia, seduti sull’erba di un picciol dorso in faccia all’obliquo nastro di argento che riga la parete, passarono l’ultima ora dolce del dì memorabile. Si comunicavano amore per le mani congiunte, in silenzio, senza guardarsi.

«È musica di Schubert, tutto questo» disse finalmente Massimo. «Der Müller und der Bach. Un’estate d’amore qui, soli, sempre soli!»

Lelia lo guardò senza parlare, disse cogli occhi l’inesprimibile, sì che Massimo n’ebbe una vertigine. I loro sguardi si disgiunsero, andarono a incontrarsi nella cascata rumoreggiante.

«Mi viene un’idea» disse Lelia. «Vorrei cercare uno specchio in quest’acqua per rimettermi in ordine i capelli.»

Discesero presso la corrente, cercarono un posto dove si allargasse placida, trovarono uno specchio languido. Avevano già veduto dal ponte specchiarsi lì la cascata. Lelia pregò Massimo, sorridendo, di allontanarsi. Egli resistette un poco, quindi obbedì, fece qualche passo sulla strada di Puria. Non andò molto che un argentino riso di lei lo richiamò. Seduta sulla riva, ella si era interamente sciolti i magnifici capelli biondi dove il sole e l’ombra scherzavano insieme. Aveva perduto il picciol nastro che li legava, non sapeva come levarsi d’impaccio, rideva della propria sbadataggine e del proprio imbarazzo. Teneva in grembo due pettini di tartaruga e cercava attorcersi con ambo le mani sulla nuca un’onda pesante della capellatura. Pareva più bella così, pareva la naiade della cascata. Perchè Massimo la guardava estasiato, rise, lo pregò di guardare altrove. Non le era possibile, sentendosi guardata da lui, venire a capo di niente. Ma neppur egli poteva più toglier lo sguardo dai due fiumi biondi che velavano la fronte sopra gli occhi lucenti di riso e di amore, che le scendevano per le spalle al seno. Sì, pareva veramente la naiade della cascata, la regina bionda del picciol regno di rupi, di acque, di selve.

«Resti così» diss’egli, dimenticando il tu, nella sua ammirazione.

«Sì» rispose la fanciulla, «e poi, cosa diranno di Lei se La vedono con una scapigliata di questo genere?»

Prese il partito di farsi due trecce e lasciarle cadere sul dorso. Fatte le trecce, balzò leggera in piedi.

«Va bene?» diss’ella volgendo a Massimo gli occhi ridenti. Egli rispose:

«È una poesia.»

«Questa Valsolda sì, è poesia» mormorò Lelia.

«Lei non farà mica solamente il medico, qui?»

«Cosa ci dovrei fare, cara?»

Ella non ne aveva un’idea. Le pareva che non fosse uomo da rassegnarsi a non fare altro che visite a contadini, ecco.

«Non ho più fede» diss’egli. Intendeva dire che non aveva più la fede in se stesso. Lelia, ricordando le sue lettere, interpretò quelle parole diversamente.

«Neppur io, sa» diss’ella. «E sono tanto contenta ch’Ella non abbia più la fede dei preti di Velo!»

«Oh cara» interruppe Massimo, «e il povero signor Marcello e donna Fedele e mia madre, che fede avevano? Io la perdo, l’ho perduta, ma vorrei che Leila non la perdesse. Però non parlavo di fede religiosa, parlavo della fede in me stesso.»

«Ma io ne ho tanta, in Lei!»

Massimo sorrise. E questo «Lei» non lo voleva proprio abbandonare? Ella confessò che le piaceva tanto dire «Lei» e fare... Si guardò in giro, non vide anima viva, gli porse le labbra, mormorò:

«Così.»


Era tempo di mettersi definitivamente in cammino per San Mamette. Discesero passo passo, parlando poco, serbando un contegno prudente. Giunti alla chiesa parrocchiale che si cova, sotto uno scoglio, i tetti del paesello, entrarono nel sagrato. Massimo aveva deciso di congedarsi lì per risalire poi fino a Muzzaglio, rivedere il suo convalescente. Appoggiati al parapetto del sagrato, vi presero le ultime intelligenze per l’indomani. Massimo non sarebbe venuto a San Mamette nè l’avrebbe incontrata altrove. Le avrebbe invece fatto pervenire una lettera verso sera, dopo parlato coi sindaci.

«Lunga, La prego!» diss’ella. Promise che ne avrebbe scritto una essa pure, per consegnarla al messaggero di lui. Si levò dal seno i ciclamini colti dal ragazzo, vi posò le labbra, li porse a Massimo. Saliva gente dalla gradinata che congiunge la chiesa al villaggio. Massimo colse il bacio dai fiori e disparve sulla salita.


V.


Lelia uscì dell’albergo dopo le nove, salì al sagrato, cercò il posto dove Massimo si era congedato da lei. Le parve trovarvi qualche sollievo al desiderio intenso. Rientrata nell’albergo, stette alla finestra sin verso la mezzanotte, guardando i fantastici balzi, per l’aria nebbiosa, del fascio elettrico d’acque in acque, di sponda in sponda, i fari splendenti sul Bisgnago, di fronte al cielo.

Sogno sogno, tutto era sogno, tutto era notte e fiamme, dentro e fuori di lei.




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