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Capitolo XVII. La Dama bianca delle Rose
Capitolo XVI Indice



CAPITOLO DECIMOSETTIMO.


La Dama bianca delle Rose


I.


Lelia scese dal letto prima dell’alba, sedette al tavolino senza vestirsi e scrisse:

«La notte è ancora profonda, sono tanto stanca e tuttavia non mi è stato possibile di rimanere a letto. Avevo l’impressione ch’Ella si allontanasse da me. Bisogna che stia con Lei, che Le parli. Povera Lelia, ha l’anima piena di Lei e non trova una uscita alla pienezza del sentimento. Iersera fra le nove e le dieci, sono ritornata sul sagrato della chiesa, proprio al posto dove ci siamo lasciati. Piovigginava e non ho sentito la pioggia, non sentivo che Lei. Ho rifatto, pensando, tutte le strade fatte con Lei nella giornata, specialmente quella del bosco, dopo il primo incontro. È là che vorrei salire anche adesso, se potessi. Credo che troverei il posto preciso, l’albero presso il quale passavamo. Ne ho colto una foglia poi, ripassando. Ella non se n’è accorta. La copro di baci, quella foglia. Ah, sono ancora Lelia, Lelia, Lelia! Ma sarò Leila, lo prometto.

«Voglia bene anche a Lelia. Scrivo quello che mai non saprò dirle. Ella mi disprezza, forse, nel fondo del Suo cuore, perchè sono venuta da Lei come una ragazza folle. Mi disprezzerà più ancora sapendo che non sono venuta per chieder niente, poichè non mi sento il diritto di chieder niente, che quanto Ella farà per me, per il mio onore, per il mio amore, per la mia vita, sarà generoso dono. Ma non creda che il mio sia stato un fuoco improvviso, uno slancio del momento. La ho amata prima ancora di conoscerla, prima ch’Ella venisse alla Montanina. Ho ascoltato palpitando, la sera del suo arrivo, il rumore del treno che La portava. E mi sono difesa contro l’amore. Perchè mi sono difesa? Per orgoglio. Ma io sto scusandomi, adesso, e non voglio scusarmi. Quanto più amavo, tanto più sono stata cattiva, superba, colpevole verso di Lei. Questa è la verità. Tutto il male ch’Ella ha pensato di me, lo meritavo. Sono venuta per dirle questo e che l’amo e che sono nelle Sue mani. Non Le ho poi detto altro che il mio amore. Ah non ho avuto bisogno di dirlo!

Credevo che mi avrebbe respinta, come indegna. Avrei detto: «è giusto». Non mi sarei uccisa perchè ho dato parola di non uccidermi. Non avrei preso il velo perchè non ho più fede. Avrei cercato di vivere in qualche modo vicino a Lei, vedendola qualche volta senza lasciarmi vedere mai. Ma Ella è stato buono e grande. Ella ha avuto pietà di una persona tanto cattiva e superba. Le Sue labbra mi hanno rimesso il mio peccato. Ella ha detto «per sempre», Ella ha detto «sposa mia.» Sarà una eterna ebbrezza per me di ricordarlo. Ma io sento terrore della Sua pietà. Io tremo di renderLa infelice, io tremo di non saper mantenere quello che prometto, di non saper diventare Leila. Tremo del cattivo sangue ch’è in me. Se non avessi del cattivo sangue, non avrei saputo ingannare mio padre, la mia affezionata cameriera e quella povera donna che mi accompagnò a Vicenza come li ho tutti ingannati recitando la commedia, con perfetta naturalezza e senza rimorsi.

E pure! E pure! E pure se immagino ch’Ella mi faccia Sua per sempre, penso che nessun credente adora e serve il Suo Dio come io saprei adorare e servire Lei. Scrissi che non ho più fede. Sono una creatura di passione e non di ragionamento. Non so farle un’analisi chiara dei miei sentimenti religiosi. Sono stata attaccata quanto ho potuto alla religione del collegio, benchè non mi fosse simpatica, perchè avevo paura del vuoto. Ella ricorderà forse la mia antipatia per le novità religiose, per le idee che mi parevano buone a distruggere e non a edificare. Finchè ho potuto sono stata per la religione dell’arciprete e del cappellano di Velo. Anche quella del signor Marcello e di donna Fedele non mi pareva pura. Parlavano troppo di Vangelo come se avessero il diritto d’interpretarlo essi, il Vangelo, mentre sapevo che i laici non hanno questo diritto. Mi dicevo: o tutto o niente. Finchè ho potuto accettai tutto. Poi, quando conobbi più da vicino e vidi in lega persone che incarnano il Tutto, l’arciprete, il cappellano, la sorella dell’arciprete, mio padre, un certo Molesin, amico di mio padre, non seppi resistere e mi dissi: meglio niente.

Ma il Niente non mi soddisfa e domando una fede a Lei, felice ch’Ella si sia liberato dalle Sue credenze antiche, dalle Sue idee di rinnovamento cattolico. Le domando un Dio che io possa adorare nei boschi di Dasio, nel burrone della cascata, sulle onde del lago, in una camera nuziale; che non m’imponga mediatori ufficiali; che mi domandi solamente amore e mi proibisca solamente odio; che non mi torturi l’intelligenza con dogmi incomprensibili, non mi annoi con pratiche tediose, non pretenda allettarmi con paradisi nè atterrirmi con inferni.

Domani, La vedrò? Se la mia camera avesse una finestra sulla piazza, credo che ci starei tutto il dì, sperando! Ma la mia camera guarda il cortile. Faccio male se nel pomeriggio, alle tre, parto da San Mamette e vado a sedere nell’erba in faccia alla cascata? Faccio male se mi trattengo un poco presso una cappelletta mezzo diroccata dove il sentiero comincia a discendere e si scopre a un tratto tutta la valle, anche colle rupi di Dasio e la punta di dolomia? Sarebbe male se Lei passasse di là andando a visitare i Suoi sindaci?

Forse Leila non dovrebbe scrivere queste cose.

Povera Leila »


Ritornata a letto, dormì profondamente, fino a sole alto, il sonno della stanchezza e della giovinezza. Non ebbe pazienza di aspettare il messo di Alberti, fece chiamare il ragazzo del giorno precedente e lo mandò a Dasio colla lettera.

Non uscì più di camera fino alle due. Passò il tempo a guardare i monti, il lago, le nuvole, le vicende della luce e dell’ombra, a fantasticare, a scrivere. Scrisse a donna Fedele, dicendole la propria gioia di essere perdonata e amata, scusandosi ancora di essere partita senza dirglielo, informandola della lettera scritta al padre, pregandola di farle avere notizie della sua salute. Diresse al Mauriziano di Torino, temendo che la lettera non trovasse più donna Fedele ad Arsiero. Alle due uscì per comperare dei francobolli. Sulla porta dell’albergo incontrò il messo che le recava la lettera di Massimo. Se la pose in seno, andò a prendere i francobolli beandosi di quel contatto misterioso, desiderando gustarlo a lungo prima di leggere. Rientrò dopo un quarto d’ora, si recò la lettera alle labbra, l’aperse con mani tremanti Massimo scriveva:

«La giornata di ieri fu tale un sogno, Leila, che la Sua lettera d’oggi, dolce senza fine, mi ha dato piacere anche solo come prova della realtà di quelle ore divine. E nella realtà lo rividi, iersera, andando a Muzzaglio, il bosco dove un attimo ci bastò a cancellare tutte le amarezze, tutti dolori del passato. Non ne colsi foglia. Solo appoggiai la mano a un tronco tepido e mi arrestai perchè la dolcezza del ricordare mi soffocava. In quell’attimo delizioso Ella era ancora Lelia per me. Non offenda più con accuse la memoria di Lelia. Offenderebbe me. Non parli di bontà mia, meno ancora parli di grandezza. Non chiami pietà il sentimento ch’Ella m’ispirò al primo vederla, che nei suoi principii ho combattuto anch’io. Non dica più quella cosa orribile che non ha mai pensato, che io possa disprezzare la donna capace di un tale miracolo di amore e di umiltà. E io non dirò, alla mia volta, le colpe mie, il giudizio egoistico e presuntuoso che ho fatto di Lei. Io Le dirò soltanto che il mio amore per Leila mi riempie e mi commuove l’anima non più come la musica di «Aveu», ma come una grande voce d’organo, una grande musica solenne che faccia tremare e piangere e sognare cose eterne.

Cara, noi la cercheremo insieme, una fede. Ricordo le Sue antipatie per i miei maestri e le mie idee. Allora credetti che fossero solamente uno sfogo indiretto della Sua antipatia personale per me. Dubitavo che non conoscesse nè i miei maestri nè le mie idee. Ora comprendo le ragioni del Suo sentimento. Quel dubbio però, mi perdoni, resta. Le idee che mi furono tanto care, per le quali ho combattuto e sofferto, mi permetterebbero di adorare Iddio nei boschi di Dasio e nel burrone della cascata, in faccia alla punta di dolomia e in una camera nuziale. Mi farebbero accettare senza tortura dogmi incomprensibili e osservare senza tedio pratiche imposte. Ella ha veduto nelle mie lettere alla Vayla il mio presente stato d’animo rispetto ad esse. Se mi si sono sfasciate nella mente, è stato con grande mio strazio. Solamente ieri, durante tutto il paradiso di ieri, non ci ho pensato. E non ci avrei pensato oggi e non ci penserei domani e chi sa per quanto tempo mi basterebbe di vivere e di amare in questa solitudine poetica, di avvolgere nello stesso tacito perdono di disprezzo tutti i piccoli uomini e le piccole donne del grande rumoroso mondo che mi hanno dato fastidio, se non fosse imminente un avvenimento cui non posso a meno di accennare senza una specie di commozione terribile e sacra. Un Morto è uscito dalla tomba e si avvicina a me, cerca me per domandarmi conto della mia fede. È il mio maestro, l’Uomo che ho più amato al mondo, l’Uomo che ha creduto, adorato, obbedito, perdonato a tutti e disprezzato nessuno. Egli è uscito dalla sua tomba di Roma. Viene qua. Arriverà posdomani sera. Me lo annuncia un telegramma pervenutomi stamattina. Io dovrò andare a incontrarlo. Leila cara, noi cercheremo insieme una fede, ma quello che provo pensando un tale incontro, nè la parola nè il silenzio valgono a dire, perchè non lo so definire a me stesso.

Non mi è possibile incontrarla com’Ella dice. Alle due e mezzo debbo trovarmi a Cima per parlare col sindaco. Ella parta a quell’ora e si faccia accompagnare al Santuario della Caravina. Attraversato il villaggio di Cressogno, congedi la Sua guida. Non potrà sbagliare più. Il Santuario è una chiesa isolata. Se non mi avrà incontrato prima, mi aspetti lì. Andremo poi insieme a Cima dov’Ella potrà prendere il battello per ritornare a San Mamette. Io risalirò a Dasio. Leila mia!»

M.


Un fischio. Il battello arrivava da Oria. Lelia aveva dimenticato di caricare l’orologio. Guardò un orario che le avevano posto in camera. Dovevano essere quasi le due e mezzo. Fece tosto cercare del solito ragazzo e si avviò rapidamente. In mezz’ora fu all’uscita di Cressogno verso la Caravina. Licenziò il ragazzo e procedette sola.

Aveva portato seco la lettera di Massimo e la rilesse camminando lentamente per la stradicciuola gentile che va piana fra gli ulivi e i vigneti della costa blanda, scendente al lago. A cento passi dai cipressi che fronteggiano il Santuario, alzò gli occhi, s’illuminò. Massimo le veniva incontro. Ella fu appena in tempo di levarsi il guanto della mano che porse a quelle avide di lui. Gli mostrò la lettera, gli disse, piano colle labbra, forte cogli occhi e con tutta la persona fremente:

«Grazie!»

Stettero un momento muti, per la commozione e anche per altra cosa. Ciascuno dei due sentiva che l’altro pensava la stessa ombra dello stesso cadavere. Ciascuno dei due sentiva che l’altro non sapeva se parlarne o no e come parlarne. Il reciproco imbarazzo fece che si rimettessero presto in cammino. Si avviarono a paro, silenziosi, verso il Santuario. Poichè egli taceva, Lelia sentì che toccava a lei di parlare.

«Lei è triste» disse piano. «Potrei fare qualche cosa perchè non lo fosse?»

«Cara» egli rispose impetuosamente come se null’altro avesse atteso, per effondersi, che una parola qualsiasi di lei, «vi sono espressioni nella mia lettera che rispondono male al mio pensiero. L’ho un poco sentito scrivendole e l’ho sentito molto più quando la lettera era già partita. Se avrò il Suo amore, se avrò l’anima Sua, non potrò sentire disprezzo per nessuno. Non potrò che sentire pietà per chi non può dire suoi un amore così, un’anima così. Vi sarà in me un onda di perdono e neppure una stilla di disprezzo.»

Ella non disse parola, lo guardò con occhi velati di dolcezza che tosto si accesero del solito fuoco scuro. Allora non lo guardò più, non potendo reggere alla desiderata vista. Messo il piede sulla stradicciuola che oltre il Santuario serpeggia, ancora piana, per altri vigneti e altri ulivi della costa blanda, chiese timidamente di questo Morto che veniva da Roma. Ricordava che alla Montanina, una sera, appena finito di pranzare, ell’aveva chiesto a Massimo dove fosse sepolto Benedetto e che Massimo aveva risposto: per ora a Campo Verano.

Massimo la informò di ogni cosa ma non toccò la corda che aveva vibrato nella sua lettera. Osò toccarla, discretamente, Lelia. Ripetè sottovoce la domanda:

«Posso fare qualche cosa perchè Ella non sia più triste?»

Poichè Massimo non rispondeva, soggiunse:

«Vedo che lo ama ancora, il Suo Maestro.»

«Sì» rispose Massimo, «lo amo ancora.»

Lo disse con un’agitazione che parve annunciare altre parole. In quel momento una nube coperse rapidamente d’ombra vigneti, ulivi, sentiero e, lungo le rive, una larga lista verde-chiara del lago addormentato. Massimo si fermò. Lelia credette che volesse parlare, attese ansiosa, guardandolo. Egli voleva infatti parlare. Lottò per trovarne la via fra il tumulto dei pensieri e dei sentimenti che cozzavano insieme. Gli si vedevano quasi le parole salire dal cuore e ridiscendere. Ne aveva così chiara coscienza che non dubitò di venire inteso quando, passati due minuti, disse dolorosamente:

«Non posso.»

E si staccò dall’ulivo cui si era appoggiato, invitò Lelia a proseguire, anche perchè verso Lugano il tempo era brutto, Caprino e il San Salvatore si velavano di un velo sospetto. Ella obbedì, mesta. Le doleva che non si fosse sfogato, le doleva una propria impotenza confusamente appresa. Massimo intese di averla fatta soffrire, le prese il braccio, le accarezzò la mano teneramente. Ella portò sulla propria sinistra anche la destra, gelosa di quelle carezze. Non parlarono fino a Cima. Dentro Cima udirono la vocina di un vecchio piano cantare:

Sola, furtiva al tempio...

Massimo si arrestò, stette in ascolto.

«Il preludio dell’amore» diss’egli. Lelia lo guardò, attonita. Che voleva dire? Udito che Massimo si era commosso ascoltandola suonare quella melodia la notte del suo arrivo alla Montanina, mentre tutta la casa dormiva, diventò rossa e sorrise.

«Non ero io» diss’ella.

«Non era Lei?»

«No, era il signor Marcello.»

Ell’aveva arrossito forte per il timore di vederlo mortificato e infatti un po’ di mortificazione gli apparve nel viso. Ma egli comprese alla sua volta, subito, ch’era in pericolo di mortificare lei e rise del proprio inganno, cordialmente. Ne rise allora ella pure, tanto che gli balenò l’idea di uno scherzo. La pregò di dire la verità. «Lei, lei aveva suonato!»

«Sì sì» diss’ella rovesciando il viso ridente all’indietro come faceva nei suoi momenti di umore gaio, «ero io la suonatrice.»

Massimo non sapeva se credere o non credere, e risero ambedue a vicenda, più che non parlassero, fino a che un rumore di ruote lontane non ebbe annunciato loro che il battello, lasciata Porlezza, veniva alla volta di Cima. Seguì allora una piccola contesa. Massimo, un po’ serio, un po’ scherzoso, proponeva che l’indomani facessero a meno di vedersi. Per lunedì si poteva aspettare una risposta o dal padre di Lelia o da donna Fedele. Lelia protestava. Tanto qualunque risposta venisse, le cose non avrebbero cambiato. E lunedì, risposta o non risposta, sarebbe andata con lui incontro alla salma di Benedetto. La conclusione fu ch’egli le avrebbe fatto pervenire l’indomani mattina per tempo una lettera, col programma della giornata.

Appena salita sul battello, ell’andò a poppa e vi restò in piedi, guardando Massimo fermo sul ponte di sbarco finchè fu visibile. Poi sedette a pensare il proprio amore, i proprii casi, guardando le spume dell’acqua fuggente, che ora lucevano ora si oscuravano, a talento delle nuvole.


II.


Pranzò alle sei, in camera. Poi si mise a scrivere a Massimo. Verso le sette, udito il fischio del battello che veniva da Oria, andò alla finestra, lo guardò passare. Si rimise a scrivere, a raccontare i suoi pensieri durante la contemplazione delle spume fuggenti. Stava scrivendo che anch’essi avevano sentito il passar delle nuvole, la vicenda della luce e dell’ombra; quando fu bussato all’uscio.

Entrò la cameriera. Due signore arrivate col battello avevano chiesto della signorina. Lelia ne domandò il nome. La ragazza non lo sapeva. Che aspetto avevano? Erano attempate; una era piccola, l’altra era grande. Questa aveva i capelli bianchi e pareva molto ammalata. Leila scattò in piedi. Donna Fedele? Possibile? Guardò muta, smarrita, la cameriera, che soggiunse di aver udito la signora dai capelli bianchi domandare al padrone se fosse nell’albergo anche il dottor Alberti.

Non dubitò più, fu d’un balzo all’uscio, spinse da banda la ragazza, volò giù dalle scale.

Vide, nel piccolo ingresso, donna Fedele seduta e, in piedi presso a lei, la Magis coll’albergatore.

«Lei!» esclamò. E si sarebbe precipitata ad abbracciarla se la Magis non l’avesse trattenuta.

«Povera signora!» disse l’albergatore che teneva un vassoio con un bicchierino di marsala. «È un po’ stanca.»

Donna Fedele, bianca il viso quanto i capelli, sorrise del suo sorriso dolce, sforzò la dolce voce a dire:

«Vedi, che sorpresa? Stai bene? Hai fatto buon viaggio?»

Lelia ebbe una crisi di singhiozzi e di lagrime.

«O ò ò!» fece donna Fedele. «Cosa ti viene in mente di piangere? Ti dispiace di vedermi qui?»

«È il piacere, povera signorina, è la sorpresa» sentenziò l’albergatore che sentiva odore di mistero senza indovinarne la qualità. Intanto la cugina Eufemia insisteva «pìa pìa pìa» perchè la cugina Fedele pigliasse il marsala. Questa, nell’entrare all’albergo, era quasi svenuta. Le avevano portata in fretta una sedia, ve l’avevano adagiata e solo dopo qualche minuto ell’aveva trovato la forza di chiedere all’albergatore se avesse dato alloggio a una signorina che viaggiava sola e se fosse nell’albergo anche il dottor Alberti.

Preso il marsala, si riebbe. Intanto anche Lelia riacquistò l’impero dei suoi nervi e delle sue lagrime. Dispose che le nuove arrivate avessero la sua camera, la migliore disponibile, a due letti, e che per lei fosse preparato lo stanzino attiguo.

Donna Fedele annunciò che si sentiva in grado di salire per mettersi a letto e soggiunse, nel solito stile, che la sua compagna, avendo destato la curiosità e l’ammirazione degli abitanti, era libera di andare a passeggio, di mostrarsi.

«Là, là, là!» fece la cugina Eufemia, contenta. «Sieno lodati il Signore e la Madonna! Adesso vai bene, vai bene, vai bene!»

A stento, infinitamente a stento, sorretta da Lelia, fermandosi ogni due scalini, donna Fedele potè salire le scale e trascinarsi nella camera dove, aiutata dalla fanciulla e dalla cugina Eufemia, si pose a letto.

Lelia rimase atterrita, spogliandola, dello stato di dimagrimento e di parziale deformazione enorme in cui la trovò. In presenza della cugina non vennero scambiate fra loro che parole indifferenti. Quando fu a letto, donna Fedele licenziò la vecchietta. Appena uscita costei, Lelia si buttò ginocchioni a baciar piangendo la mano di donna Fedele, che pendeva dal letto.

«Cos’hai mai fatto, bambina?»

Alla voce severa e in pari tempo soave Lelia non potè rispondere che con lagrime più abbondanti. Donna Fedele s’ingannò sul significato di quelle lagrime.

«Dio mio!» diss’ella, sottovoce.

Non intese che la fanciulla piangeva di commozione per lei, per la donna semplice e sublime verso la quale aveva mancato e ch’era venuta, così ammalata, così distrutta, come sarebbe venuta una madre, la più tenera madre; mentr’ella stessa, tutta assorta nell’amore, si era ricordata così poco di lei, delle sue mortali sofferenze. Lelia si affrettò a dire fra i singhiozzi:

«Sono felice, sa, sono tanto felice, ho fatto male a non dirlo a Lei ma ho fatto bene a venire.»

«Hai fatto bene?»

«Sì, mi ama; mi sposa, è tanto nobile, è tanto buono! Le avevamo scritto.»

«Eh!» fece donna Fedele. «Mi sposa! Vorrei vedere, adesso!»

Lelia, sempre inginocchiata, alzò il viso.

«Perchè?» diss’ella «Non ha nessun dovere!»



Donna Fedele tacque, sottrasse la mano a quelle di Lelia che la stringevano, gliela posò sul capo, disse piano:

«Chi sa che idee hai tu, testolina, del dovere!»

Faceva oramai buio nella camera e donna Fedele non potè vedere le fiamme nel viso di Lelia. Le sentì nella voce, nelle parole accese:

«Che dovere ha? Son venuta io, a cercarlo. Mi ama e in pari tempo vi è come un fratello in lui che mi proteggerebbe contro me stessa, se ve ne fosse bisogno.»

Donna Fedele sorrise accarezzandole lievemente i capelli:

«Ve n’è bisogno, ve n’è bisogno.»

Lelia le prese la mano carezzevole, vi piegò su il viso, mormorò:

«Forse sì.»

«Che vergogna, che vergogna!»

Mentre donna Fedele, sottratta ancora la mano, rimproverava così l’inginocchiata battendole un po’ forte il capo, sfolgorò nella camera il lampo elettrico e si udì uno strido della cugina Eufemia. Aveva trasalito anche donna Fedele. La cugina entrò spaventata per chiudere le finestre. «O mi povr’om, che diavolo di temporale!» Lelia faticò non poco a convincerla che il lampo non era venuto dal cielo. Donna Fedele la rimandò fuori. Voleva udire da Lelia ogni particolare della sua vita di quei tre giorni. La fanciulla ne fece un racconto molto scolorato e poi domandò il permesso di avvertire Massimo, subito. Donna Fedele stessa lo desiderava ma escluse di riceverlo prima dell’indomani mattina. Lelia scrisse a precipizio due righe nello stanzino attiguo, dicendo anche delle condizioni tristissime di donna Fedele, e incaricò l’albergatore di far portar subito il biglietto a Dasio.

La cugina Eufemia, ben deliberata di non coricarsi, malgrado la stanchezza, prima di fare preparativi per la notte, di portarsi in camera brodo, acqua, marsala, prese Lelia a parte, le raccomandò, colle lagrime agli occhi, di far sì che, occorrendo, si potesse avere prontamente un medico. Tremava! Fedele avrebbe dovuto essere al Mauriziano, a quell’ora.

«È tanto tempo, sa» diss’ella, «che prevede di morire. Si è confessata e comunicata ier l’altro e ieri mattina ha voluto che il suo confessore venisse al villino per darle ancora la benedizione. Se almeno fosse possibile di partire per Torino domani! Ma non vorrà certo!»

Lelia, sbigottita, angosciata, s’informò per il medico dall’albergatore. Il medico condotto provvisorio, quello che si era ritirato dal concorso, abitava a Cadate, a meno che dieci minuti da San Mamette. Lelia voleva assolutamente vegliare lei l’ammalata invece della povera vecchia Eufemia, se non la notte intera, almeno una parte. Ma la povera vecchia Eufemia sarebbe morta piuttosto che accettare.

«Una sedia» diss’ella, «perchè se mi corico, anche vestita, mi addormento come un salame; il mio rosario; la mia Madonna della Consolata in mente; io sto meglio che a letto.»

Lelia dovette piegare. Avvertì l’albergatore che forse, prima della mezzanotte, la persona cui ell’aveva mandato il biglietto sarebbe venuta a prendere notizie dell’inferma. Non si coricò. Andava ogni tanto a origliare all’uscio delle sue vicine. Udì donna Fedele comandare alla cugina di porsi a letto. La cugina si schermiva ma poi, l’altra alzando la voce, obbedì. Ottenne solamente di non spogliarsi. Udì donna Fedele chiedere qualche cosa sottovoce e allora la Magis recitare il rosario. Prese una sedia e si dispose di passare la notte lì, pronta a entrare se occorresse.


Si teneva sicura che Alberti, appena ricevuto il biglietto, sarebbe partito. Arrivò infatti verso le undici e mezzo. Udito parlare nell’ingresso dell’albergo, Lelia discese. Massimo era molto commosso e si commosse anche più ascoltando la relazione della fanciulla. Discusse con lei la opportunità di vedere donna Fedele subito, se fosse svegliata. Ella non lo credeva opportuno e il giovine si rimise al suo giudizio. Avrebbe voluto prendere il posto di lei all’uscio dell’ammalata, ma perchè la camera dov’ella avrebbe dormito metteva nello stesso corridoio, non insistette nella proposta. Chiese un’altra camera per sè e pregò Lelia di farlo chiamare per qualsiasi evenienza, non tralasciando però di far chiamare anche il medico di Cadate.

Sola nel corridoio scuro, tacendo oramai tutta la casa, Lelia ripensò la vicenda della luce e dell’ombra sulle spume fuggenti, le parole che ne aveva scritto nella lettera interrotta da donna Fedele. Ombra e luce, a vicenda, sulle spume e nei pensieri allora; ieri luce nel suo cuore, oggi ombra. Per lei, per lei sola, donna Fedele era lì a soffrire, forse a morire; per causa di lei, del suo egoistico amore. Le parve quasi di voler meno bene a Massimo. Pianse silenziosamente, mordendosi il labbro per non rompere in singhiozzi. Una sottile voce le diceva bene, in segreto, che donna Fedele avrebbe potuto fare a meno di venire, che non ve n’era bisogno, che andare a Torino sarebbe stato, da parte di lei, miglior consiglio. Ell’avrebbe dato mille ragioni a questa voce se la materna amica fosse venuta in buona salute e con rampogne. Ma era venuta in quello stato e con tanta bontà, con tanta soavità di parole e di volto! E da chi le veniva la sua felicità se non dalla materna amica, per vie aperte da lei? Un’altra cosa Lelia confessò a se stessa. Benchè avesse passato la notte precedente sul letto e questa le toccasse di passarla sopra una sedia, un’aura di protezione materna era entrata nella casa, che rendeva la sedia di oggi più riposante del letto di ieri.

Verso le due ebbe paura di addormentarsi, si alzò pian piano, andò nella sua cameretta, si pose alla finestra per cacciare il sonno coll’aria fresca. Vide illuminata e aperta un’altra finestra dell’albergo. Là forse vegliava Massimo. Si ritrasse dal davanzale. Non avrebbe voluto, in quel momento, esserne veduta e vederlo, avere una comunicazione di amore. Ascoltò i sussurri della notte, qualche tocco dal lago placido, il salto di un pesce, qualche ululo di allocchi lontani; e ritornò alla sua sedia coll’idea che l’amore le si trasformava, che nel contatto di realtà dolorose prendeva un carattere di profondità, di gravità nuova.

Alle quattro udì donna Fedele domandare qualche cosa, la cugina scendere dal letto, urtare in una sedia, guaire; e donna Fedele ridere. Poi più niente fino alla mattina.


III.



Alle sei e mezzo, la cugina Eufemia ch’era uscita di camera, pian piano, alle sei, lasciando donna Fedele addormentata, spinse un poco l’uscio socchiuso, le vide gli occhi aperti, entrò.

«C’è il signor dottor Alberti» diss’ella.

Donna Fedele si voltò sul fianco, non senza pena, verso l’uscio, mormorò:

«Avanti.»

Massimo entrò di fretta, curvando un poco l’alta persona, premuroso nel viso e lieto.

«Che piacere!» diss’egli, un po’ per abitudine, un po’ per simulazione, pure sentendo che non erano le parole più appropriate a quell’incontro con un’amica tanto più ammalata di quando si erano lasciati l’ultima volta.

Donna Fedele sorrise.

«Piacere, non so quanto.»

E gli stese la mano ch’egli baciò.

«Ma perchè ha fatto questo viaggio faticoso? Non ve n’era mica bisogno, sa. Come ha potuto dubitare che...»

Massimo era per dire «ch’io fossi cristiano e gentiluomo» le parole del telegramma. S’interruppe e arrossì perchè la parola «cristiano», dopo l’ultima sua lettera alla donna che lo udiva, gli avrebbe bruciate le labbra.

Donna Fedele lo guardò in silenzio con occhi penetranti che lo fecero arrossire più ancora.

«Dipende da te, e da Lelia» diss’ella, «che io abbia fatto la più bella azione di tutta la mia vita.»

Massimo tacque. Non capiva.

«Adesso» diss’egli, uscendo da un silenzio imbarazzante «mi lasci prendere la mia parte di medico.»

L’ammalata negò con un moto lento e lungo dell’indice. Massimo, dolente, ne domandò il perchè. Ella rispose che non aveva bisogno di medico, che la parte del medico la doveva fare ella stessa, sì con lui che con Lelia. Ma non ora. Ora voleva sapere, poichè fra loro si erano intesi, cosa avessero in animo di fare. Udito che Lelia aveva scritto a suo padre e che ne attendeva risposta, osservò che la risposta negativa era sicura e che, risposta o non risposta, la ragazza non poteva rimanere lì.

«Dio mi darà la forza di ricondurla a casa sua» diss’ella «o, almeno per qualche giorno, al villino.»

Allora Massimo le riferì il tenore della lettera di Lelia al padre, la probabilità che la risposta non fosse negativa. Donna Fedele l’ammise e fu poi contenta di apprendere che Massimo sperava di conseguire il posto di medico condotto in Valsolda. A ogni modo era necessario che Lelia partisse con lei. Massimo riconobbe questa necessità. Pensò che sarebbe stato difficile persuaderne la fanciulla ma lo tacque.

«Chiamala» disse l’ammalata.

Lelia venne e udito di che si trattava, impallidì. «No no!» esclamò, piuttosto in tono di preghiera che di protesta. Donna Fedele le diede della bambina. Ella e Massimo si erano intesi, le cose avrebbero il loro corso. Come mai non capiva la sconvenienza, la impossibilità, per lei, di restare in Valsolda? Lelia si spiegò. Sperava che vi sarebbe rimasta donna Fedele per qualche giorno, che si sarebbe giovata di quel riposo, di quella pace. E poi l’accompagnerebbe a Torino. Certo le doleva di partire dalla Valsolda ma di ritornare a Velo aveva orrore addirittura. A diventare maggiorenne, padrona di sè, le mancavano mesi, solamente mesi! Donna Fedele le fece osservare che a Torino ella sarebbe rimasta affatto senz’appoggio.

«Se tuo padre lo permettesse» diss’ella dopo alcuni momenti di riflessione, «potrei lasciarti a Santhià presso mia cugina.»

Fu convenuto, dopo una breve discussione, che per quel giorno donna Fedele riposerebbe, che l’indomani mattina sarebbe veduta dal medico di Cadate e, avutane l’autorizzazione, partirebbe con Lelia per Torino avvertendo col telegrafo la cugina di trovarsi alla stazione di Santhià per ricevere la ragazza, mentre l’Eufemia, ricuperato il baule cui donava qualche segreto sospiro, avrebbe proseguito con lei; di fare rispedire all’indirizzo di Santhià le lettere che pervenissero a San Mamette per Lelia. Donna Fedele cedette, per il meglio, sul punto del permesso paterno. Il sior Momi era stato sempre così ossequioso con lei, la casa delle cugine di Santhià era un soggiorno tanto sicuro e Lelia abborriva talmente dal ritorno a Velo, ch’ella credette poter decidere così di suo capo. Tanti discorsi avevano esaurite le sue povere forze. Pregò di stare un’ora in silenzio, in pace; e pregò che Massimo se n’andasse al suo Dasio, che Lelia si accontentasse di rivederlo la sera, fra le sei e le sette, in sua presenza. Sentiva di avere una responsabilità non piccola della folle scappata di Lelia, sentiva di essere meno libera nella parte materna volontariamente assuntasi che non lo sarebbe stata una vera e propria madre. Lelia ebbe un movimento di ribellione.

«Leila! Cara Leila!» disse Massimo, sorridendo. La piccola fiera dagli occhi lampeggianti si ammansò come per incanto. Egli voleva così. Bastava. Donna Fedele spalancò gli occhi. «Cosa? Ti sei cambiata il nome?»

«Solamente per lui» rispose Lelia, arrossendo, «ma per lui proprio sì, proprio sì!»

«Spiegatevi.»

Lelia stese rapidamente la mano verso Massimo a fermare le parole ch’egli fosse per dire. Supplicò donna Fedele di non chiederle spiegazioni.

«Piuttosto» soggiunse «mi chiami Leila anche Lei.»

Donna Fedele crollò il capo, fece un gesto come per dire: chi si raccapezza con questa gente? E la conversazione ebbe fine.


IV.



Era domenica e la cugina Eufemia, informatasi fino dalla sera precedente, anche per incarico di donna Fedele, della chiesa e della messa, aveva saputo che la chiesa stava in alto, a capo di una faticosa scalinata, che la messa parrocchiale, l’unica, si celebrava alle nove. Nè altre chiese di più comodo accesso erano nelle vicinanze. Vedeva bene che la cugina non era affatto in grado di andare a messa ma tuttavia non osò uscire senz’avvertirla. L’avvertì alle otto e mezzo. Donna Fedele fece chiamare Lelia.

«Vai a messa coll’Eufemia» diss’ella. «Io non ci posso andare, pur troppo. Ascoltala anche per me.»

Lelia espresse il desiderio di tenerle compagnia. L’inferma si oppose risolutamente: «no, cara; devi proprio andare». Soggiunse che, occorrendo, avrebbe pregato di tenerle compagnia la cugina Eufemia. Ma non occorreva. Siccome Lelia pareva esitare, le domandò sorridendo se per avere un piacere da lei fosse necessario di chiamarla Leila. La fanciulla non disse parola e se ne andò immediatamente colla Magis.

Donna Fedele soffriva. Doglie lancinanti avevano cominciato a torturarla durante il colloquio con Massimo, la torturavano ancora. Non erano sofferenze nuove, le conosceva da un pezzo; ma conobbe pure, questa volta, l’afflosciarsi di ogni energia resistente. Prese dal tavolino da notte il suo libro di preghiere, cercò di leggere quelle della messa. Non potè, fu costretta di abbandonare sulle coltri la mano aperta, così che il libro le scivolò a terra. Sudore abbondante le rigava la fronte e le guancie cadaveriche. Non le uscì di bocca un gemito. Poco prima che la cugina Eufemia e Lelia rientrassero dalla chiesa, le doglie si chetarono. Nel primo momento di relativo riposo ella disse udibilmente, parlando a sè stessa: «di qua, cara Fedele, non si parte più».

Trovò tuttavia, quando rientrarono, la forza di riceverle serenamente. Alle loro domande rispose che aveva avuto qualche doloruccio ma che ora si sentiva meglio. Chiese un bicchierino di marsala. La voce diceva spossatezza estrema. Lelia propose di far venire il medico.

«Fate pure venire il medico» disse l’ammalata, sorridendo, «ma intendiamoci...»

Lelia arrossì. Disse che aveva pensato al medico di Cadate e non a Massimo.

La cugina Eufemia tremò nel cuore. Se Fedele, pensò, permette che si chiami il medico, deve sentirsi assai male. L’ammalata volle che uscisse lei per questa chiamata del medico di Cadate. Pregò Lelia di raccattarle il libro caduto e se ne fece leggere a voce alta queste parole di Sant’Agostino:

«Ma egli è tempo che io a Te ne venga per sempre: aprimi la Tua soglia e insegnami come vi si giunga. Io non ho che il buon volere e null’altro so se non che voglionsi fuggire le cose mortali e caduche, cercare le certe ed eterne. Questo solo so; ma come giungere a Te non so. Tu mi scorgi, m’illumina, mi poni in via. Se Ti trovano colla fede quelli che in Te si riparano, dammi la fede; se ciò ottengono colla virtù, concedimi la virtù, e se il fanno colla scienza, dammi la scienza. Accresci in me la fede, la speranza, la carità, con una ammirabile e singolare bontà.»

Nel principio della lettura Lelia rabbrividì. Era quello un indiretto avvertimento di prossima fine? Procedendo non le parve più tale. Però la prima commozione durava e si sentì nella voce fino all’ultimo.

«Grazie» le disse donna Fedele, seria e dolce. «Vorrei quando avrò passato quella soglia, che tu pregassi così, qualchevolta, in memoria della tua povera vecchia amica.»

Lelia le prese e baciò la mano. L’inferma si tenne in silenzio fino all’arrivo del medico. La visita del medico fu inutile perchè egli non ebbe il permesso dell’esame «completo» che gli era necessario per rendersi conto delle condizioni reali di quel misero corpo. Donna Fedele gli parlò dell’operazione, gli disse che intendeva partire per Torino l’indomani mattina ma che non sarebbe partita senza il suo permesso. Lo pregò quindi di ritornare la mattina seguente per pronunciare la sua sentenza. Il medico disse a Lelia, fuori dalla camera, che aveva trovato il cuore assai debole e che temeva per la vita.

Alle sei venne Massimo. L’inferma non aveva dolori. Parlava pochissimo. La cugina Eufemia, afflitta di non sentirsi canzonare, guardava ora Lelia ora Massimo con occhi interrogatori, pieni di angustia. Quel silenzio e l’assenza del solito sorriso li atterrivano tutti e tre quantunque nessuno osasse confessarlo all’altro. Alle sette donna Fedele pregò la cugina di uscire e chiamò i due giovani al suo letto. Domandò a Lelia se fossero venute lettere da Velo. No, non era neanche possibile.

Si vedeva ch’ell’aveva inteso preparare un altro discorso e che durava fatica a legarlo con quell’esordio. Pensò alquanto e poi si decise.

«Se Lelia» diss’ella «ha rinunciato a godere della sua sostanza, è inutile discorrerne più. Ma è giovine. Verrà un giorno in cui la Montanina sarà a disposizione vostra. Vi prego di non abbandonarla. E se non temessi di essere indiscreta Vi pregherei anche di far celebrare allora una messa anche per me a Santa Maria dei Monti e...»

S’interruppe, offerse le mani scarne a quelle dei due giovani e ritrovando l’usato dolcissimo sorriso compì la frase: «di assistervi».

Le mani scarne furono strette in silenzio. I belli occhi bruni s’illuminarono. Ella parve ripigliare qualche forza, pregò Massimo di scriverle l’itinerario per l’indomani, se fosse il caso di partire. Lasciando San Mamette poco dopo le dieci, le viaggiatrici sarebbero arrivate a Santhià alle sei del pomeriggio e a Torino verso le sette e mezzo. Massimo le avrebbe accompagnate fino a Porto Ceresio. Lelia gli chiese timidamente: «e non fino a Milano?».

Egli le spiegò sottovoce che non era possibile. Il viaggiatore partito da Roma doveva giungere a Porto Ceresio da Milano otto minuti prima che vi arrivassero loro da Lugano. E il piroscafo speciale sarebbe ripartito subito per Oria.

«Non puoi?» disse donna Fedele, che non aveva udito. «Ah!» soggiunse. «Forse per la ragione che mi ha detto don Aurelio.»

Massimo non sapeva ch’ella si fosse incontrata, a Milano, con don Aurelio. Parlarono di lui, del suo povero stato, del suo animo sereno. Donna Fedele riferì le ragioni per le quali egli aveva deliberato di accompagnare la salma.

«Non avrebbero potuto lasciarle in pace a Roma» diss’ella «quelle povere ossa?»

Lelia guardò Massimo, che non rispose.


Verso mezzanotte donna Fedele ebbe ancora un assalto di doglie acutissime. All’alba erano scomparse, ma il medico di Cadate, venuto alle sei, trovò febbre, naturalmente giudicò impossibile il viaggio. Massimo partì dopo le dieci per Porto Ceresio, ripromettendosi di essere di ritorno a Oria, col piroscafo speciale, alle due del pomeriggio. Dal cimitero di Albogasio, dove la salma di Benedetto si doveva tumulare, a San Mamette si viene a piedi in un quarto d’ora.

V.



Fermo all’uscita della stazione di Porto Ceresio, pallido, palpitante, Massimo aspettava di vedere fra i passeggeri del treno di Milano, giunto in ritardo, le facce conosciute di don Aurelio e degli amici di Roma che gli avevano annunciato il loro arrivo insieme alla salma. Nessuno. Alla prima impressione, quasi di sollievo, sottentrò un dispettoso rammarico di non essere stato avvertito del ritardo, di avere lasciato Lelia e donna Fedele così presto, senza necessità. Parlò col capostazione. Non sapeva niente; promise di telegrafare a Milano per avere notizie della funebre spedizione. Massimo andò ad aspettarle al caffè della stazione, sulla spianata, cinta d’una ringhiera, che fronteggia il lago.

Là, in faccia all’acqua tranquilla, fra le immagini verdi delle rispecchiate montagne, il suo pensiero immobile rispecchiava similmente tre figure: la figura dell’amata giovinetta ardente; la figura della soave donna venuta, per la giovinetta ardente e per lui, forse a morire in un albergo, mossa da un amore di altra natura, maggiormente alto e sereno; la figura di Benedetto, più lontana, amata e temuta a un tempo. Questa, improvvisamente, gli si avvicinò, gli si ravvivò. Egli si sentì sul capo la mano del Maestro morente, sentì quasi cingerselo dal braccio che non aveva più la forza di stringere, udì la fievole voce: «siate santi.» E udì anche: «ciascuno di Voi adempia i suoi doveri di culto come la Chiesa prescrive, secondo stretta giustizia e con perfetta obbedienza.» Pensò che il giorno prima, domenica, non si era curato di andare a messa. Ciò non gli era ancora accaduto mai. Rompere colla Chiesa nel pensiero gli era stato più facile che rompere con essa nel culto esterno, che rompere con abitudini antiche, quasi anche offendendo memorie di cari morti. Un picciol morso nella coscienza lo scosse, lo richiamò a usare della sua volontà virile contro questi moti pericolosi di un sentimento mal soggetto alla ragione. Il doloroso conflitto, vivo da giorni nell’anima sua, esacerbatosi all’annuncio dell’arrivo di Benedetto cadavere, toccava ora lo stadio acuto. Il ripetersi dell’alterno prevalere di un impulso sull’altro indeboliva quello della ragione col dubbio di non saper sempre vincere, mentre quello del sentimento, forza che mai non riposa, che ignora dubbiezze, che tende continuamente, come vapore compresso, a riprendere il campo perduto, si faceva sempre più potente coll’appressarsi del funebre Viaggiatore.

Cercò sulle acque lontane, verso la punta di Melide, il piroscafo speciale che avrebbe già dovuto essere a Porto. Il lago vi era deserto. Solo si vedevano due barchette fra Morcote e Brusino Arsizio. Neppure quest’altro ritardo si comprendeva. Ritornò dal capostazione. Milano aveva risposto che non vi era arrivato niente, che però, a richiesta di altre persone, si erano domandate notizie a Bologna e che, a suo tempo, si sarebbero trasmesse. Ritornato al caffè, Massimo scoperse finalmente la punta bianca di un piroscafo che avanzava da Melide, tenendo il mezzo del lago. Si era levato un po’ di vento. Ora un soffio spandeva crespe azzurre sopra le verdi immagini delle montagne, ora, chetato il soffio, le verdi immagini ricomparivano. Quelle nuove inquietudini del vento e del lago parvero a Massimo inquietudini di attesa come le sue proprie.

Il piroscafo speciale giunse pieno di gente, con meraviglia di Massimo. Il fatto si chiarì subito. Gli abitanti di Albogasio consideravano Piero Maironi come un benefattore. Avevano fatto venire il piroscafo speciale, a loro spese, a Oria. Vi si erano imbarcate, col parroco, più di cento persone per incontrare il figlio morto di Franco e di Luisa.

All’udire che non si avevano notizie della salma, quella povera gente sbigottì. Poco dopo, il capostazione fece avvertire Massimo che si annunciava da Milano l’arrivo della salma a Porto Ceresio per le otto di sera. Erano allora le due e mezzo. Massimo telegrafò il ritardo a San Mamette. La gente di Albogasio, che prima temeva di avere inutilmente fatto una spesa e perduta una giornata di lavoro, parve contenta, malgrado la prospettiva di quasi sei ore di attesa. Corse qualche mormorìo fra coloro che nè avevano portato con sè da mangiare nè tenevano denaro; ma erano mormorii rassegnati. Quella povera gente avrebbe sofferto la fame senza lamenti, se il buon parroco e Massimo non si fossero posti d’accordo per fornirli almeno di pane. E i prudenti che avevano portato da mangiare divisero il loro cibo. Gentile pietà e gratitudine verso l’estinto, gentile memoria di altri poveri morti, santificazione di questi sensi umani nel desiderio di esprimerli con un atto religioso, solenne dimostrazione di fede candida e profonda facevano tutte le altre bontà nel cuore di quella umile gente, così che Massimo ne fu commosso. Il parroco gli fece conoscere certa Leu che ricordava i genitori di Benedetto e non rifinì di parlargli della sciora Lüisa. Ma gli altri parlavano dell’uomo scomparso anni prima ad Oria senza lasciar traccia di sè e che ritornava ora cadavere. Ricordavano il gran rumore che si era fatto di quella scomparsa, le supposizioni diverse, tutte riuscite vane, il buon prete forestiero che si era adoperato perchè le disposizioni benefiche dello scomparso avessero effetto. Qualche vecchio ricordava anche l’altro Piero, lo zio di questo, il signor ingegnere Ribera.

Dopo le cinque un telegramma di don Aurelio a Massimo confermò la sua prossima partenza da Milano insieme alla salma. Massimo lesse, consegnò il telegramma al parroco di Albogasio, si allontanò senza dir parola, prese una stradicciuola deserta lungo il lago, a sinistra del ponte di sbarco, vi camminò su e giù lentamente, senza saper formare un pensiero, per quasi tre ore, calando nell’ultima ora intorno a lui le ombre della sera, gradite.

Quando il treno atteso entrò in stazione, il buio era denso per l’accumularsi di nubi temporalesche nel cielo senza luna. La gente di Albogasio aveva invaso la stazione con torce e candele accese, preceduta dal parroco in cotta e stola. Discese don Aurelio, discesero gli amici romani di Massimo, gravi, silenziosi. Massimo tremava di un tremito nervoso, si mordeva il labbro per non rompere in singhiozzi. I saluti, brevi, misurati, risposero alla solennità del momento. Parecchi del popolo piangevano. Uomini di servizio, con lanterne alla mano, apersero il bagagliaio dov’era la salma. I giovani venuti da Roma e Massimo si fecero avanti. Seguì un po’ di confusione, uno scambio di voci vibrate. Don Aurelio impose silenzio con autorità, tutti si chetarono, fu vista la bara muovere verso l’uscita sulle spalle dei sei giovani, uno dei quali era Massimo. I pochi viaggiatori erano usciti prima. Solo una signora in lutto, accompagnata da una cameriera, seguì il corteo funebre sul piroscafo. Nessuno la conosceva, nessuno potè vederne, neppure al chiarore delle torce, il viso coperto da un velo fittissimo.

In silenzio, la bara fu posata a prora del piroscafo e coperta di un drappo nero colle frange di argento. In silenzio, coloro che portavano lumi le si schierarono a lato, lungo i due parapetti del ponte. Il sacerdote, in cotta e stola, si addossò alla cabina del pilota, di fronte alla bara. In silenzio, una folla si accalcò indietro, lasciando libero lo spazio fra la bara e i portatori di torce. Don Aurelio, Massimo e i giovani venuti da Roma si disposero a fianco del sacerdote. Senza un comando, le passerelle furono ritirate sul ponte di sbarco, gli uomini di bordo fecero scostare il piroscafo a forza di braccia, il capitano si chinò sul portavoce, gli stantuffi scrosciarono, le ruote colpirono l’acqua, pesanti e lente. Quando il piroscafo, compiuto un quarto di giro, mise la prora verso l’alto lago, il parroco di Albogasio intuonò il rosario. La folla rispose. Al monotono coro faceva cupo accompagnamento l’eguale misto fragore degli stantuffi, delle ruote, dell’acqua rotta dalla prora. Simile a un vascello fantasma, il piroscafo rompeva così i silenzi del lago immobile e delle sponde addormentate, rompeva le tenebre colle due fila di accesi ceri funerei.

Massimo teneva gli occhi fermi al drappo nero colle frange di argento. La tenerezza per lui che aveva palpitato dentro quella spoglia; le calunnie, le ingiurie, le offese di ogni maniera di cui la povera forma era stata segno insieme allo spirito, suo informatore; il pensare la diserzione sua propria compiuta mentre altri, come i venuti da Roma, che gli stavano presso, aveva serbato fede alla memoria diletta malgrado il disprezzo, le derisioni, gli odii del mondo, fecero nell’anima sua tale un tumulto indistinto di amore, di dolore, di rimorso, ch’egli non vi potè reggere, si ritirò pian piano a poppa, scese sotto coperta, pianse amaramente, confuse il suo gemito all’eguale misto fragore degli stantuffi, delle ruote, delle spume fuggenti: «No, no, caro, non ti abbandono, non ti abbandono, ritorno a te, ritorno a te.»

Non si avvide che in fondo alla sala erano le due donne discese dal treno. Quando la foga dei singhiozzi gli si allentò ed egli, alzatosi in piedi, era intento a ricomporsi prima di salire sul ponte, quella delle due che pareva una cameriera venne alla sua volta.

«Scusi, signore» diss’ella. «Può dirmi se al cimitero qualcuno parlerà?»

Massimo, sorpreso, esitò un istante e poi rispose di sì. La cameriera ringraziò e ritornò all’angolo oscuro dov’era seduta la signora in lutto. Il giovane saliva la scaletta e stava per toccare il ponte quando la cameriera lo richiamò.

«Scusi, signore. Parlerà Lei?»

«No.»

«Grazie, signore.»

Nuovo dolore per Massimo. V’era chi aspettava da lui, dal discepolo prediletto, le parole dell’addio supremo ed egli si era rifiutato di parlare, nè adesso, tanto alle strette, avrebbe saputo trovare parole degne. Dolore e sorpresa. Come potevano supporre, quelle signore, ch’egli parlasse? Lo conoscevano? Ritornò al suo posto di prima. Il sacerdote aveva finito di dire il rosario, tutti tacevano, non si udiva più che il fragore delle cose in moto, le tenebre divise dai ceri ardenti a prora del vascello fantasma si riunivano a poppa sempre più dense. Passato il ponte di Melide, qualcuno dietro il sacerdote disse forte:

«De profundis.»

Cento voci intonarono il De profundis. A mezzo il salmo, il battello, che filava diritto all’oscuro profilo della punta di Caprino, si arrestò di colpo. I salmeggianti s’interruppero. Una grande ombra nera, picchiettata di punti lucenti, passò a cinquanta metri, tagliando la rotta del battello. Pochi si avvidero di quell’ombra, del pericolo di uno scontro fra il battello della Morte e l’altro. Quei pochi rabbrividirono e tacquero. Ricominciò lo scroscio degli stantuffi, ricominciò il salmo. Nell’ampio bacino fra Campione e Lugano l’oscurità parve meno profonda intorno al chiarore funereo del ponte di prora. Da ogni parte nereggiavano sul cielo maestà di profili grandi. I lumi di Lugano disegnavano il giro del golfo. A misura che il battello avanzava verso Caprino, uscivano via via in vista della prora lumi di Castagnola, lumi di Gandria e finalmente le creste formidabili, le acque lontane della Valsolda, il saettar di lampi dalla torpediniera. Massimo prese il braccio di don Aurelio.

«Lei parla?» diss’egli.

Don Aurelio rispose di sì e in pari tempo intese, sentendosi trarre dal braccio del giovine, ch’egli voleva dirgli altro.

«Sono ritornato a Cristo e alla Chiesa» disse Massimo, tremando tutto. «Vi sono ritornato adesso.»

Don Aurelio lo abbracciò stretto, gli mormorò all’orecchio con voce piena di gioia: «caro, caro, ringraziamo Dio, mi hai tolto un gran peso dal cuore.»

Gli disse in seguito ch’era contento dei giovani venuti da Roma, che i traviamenti e le temperanze di certi novatori, il dispregio col quale parlavano di Benedetto, avean prodotto nell’animo loro una reazione salutare; tanto che se oramai non fosse stato troppo tardi, egli avrebbe preferito affidare a qualcuno di essi l’incarico del discorso.

Intanto il battello aveva oltrepassato Gandria. L’occhio abbagliante della torpediniera sfolgorò Massimo e don Aurelio che ritornarono a prora. Il fulgore balzava senza posa da un capo all’altro del battello, seguendolo nel suo corso. Poi lo lasciò. Sul nero ciglio di Bisgnago, di fronte al cielo, i fari elettrici ardevano come fiamme di un sublime altare dove si pregasse per le sottoposte valli. Sulla riva di Oria si addensava gente venuta fino da Castello e da San Mamette in attesa della salma. Chi vide di là l’ingrandir lento lento del punto luminoso avanzante da ponente sulle acque nere, i balzi intorno ad esso del raggio argenteo che pareva vegliare sul suo cammino e le fiamme sublimi sulla montagna e l’ansia della folla tacita, ebbe il senso di una solennità misteriosa cui prendessero parte il Cielo e la Terra. Anche sul battello, nell’imminenza dell’arrivo, la gente, senza saper perchè, trepidava. Il parroco diede ordini, il drappo nero fu tolto dalla bara, i giovani discepoli di Benedetto si fecero avanti con Massimo, pronti a sollevarla. Dalla sala di prima classe la donna che pareva una cameriera salì sul ponte, domandò qualchecosa, ridiscese, ritornò su colla signora velata. Si ritirarono ambedue all’estrema poppa. Evidentemente desideravano uscire le ultime. Il battello accostò, furono gittate le passerelle. Sei giovani, dei quali ancora era Massimo, sollevarono la bara. Si udirono alcune voci di comando, di avvertimento, di rimprovero. In breve tutto fu silenzio. Il parroco uscì primo. Dietro il parroco uscì la bara. Seguirono i portatori di ceri. Poi, lentamente, ordinatamente, uscirono gli altri; ultime le due signore. Il tacito corteo si avviò per un portico, un piazzaletto, un primo passaggio tenebroso, un secondo sotto la casa ch’era stata del morto, verso la chiesa: la stessa chiesa dove pochi anni prima don Giuseppe Flores aveva appresa la fuga di colui che ora vi era portato a un umile catafalco per le sue esequie. Le candele dell’altar maggiore ardevano già. La chiesa fu piena in un momento di gente, di ceri accesi. La signora velata non avrebbe potuto entrare, se, per un rispetto istintivo, la folla non si fosse aperta davanti a lei e alla sua compagna. Presero posto nell’ultima panca, presso la pila dell’acqua santa, molto guardate. Nessuno sapeva chi fossero. I soli a sospettare del nome della dama velata furono Massimo e don Aurelio; ma non parlarono, non si apersero, compresi da rispetto, il loro segreto pensiero.

Le esequie incominciarono, rispondendo la gran voce del popolo a quella del sacerdote. Massimo pregò ginocchioni tutto il tempo, col viso chiuso nelle mani. Così fu vista pregare tutto il tempo la signora velata. Vi furono dei mormorii prima alla porta maggiore e poi a quella di fianco perchè un ragazzo di San Mamette che aveva una lettera per il signor dottor Alberti voleva entrare a forza. Non entrò. La lettera gli fu presa e non potè venire consegnata subito a Massimo. Terminate le esequie, egli e i suoi cinque compagni risollevarono la bara, mossero dietro il sacerdote. La chiesa si vuotò rapidamente. Ultima si alzò e uscì la signora velata. Vista l’angustia del viottolo, i ceri già lontani e la folla, rientrò in chiesa. La sua compagna cercò e trovò fra gli ultimi del seguito un barcaiuolo che prese impegno di condurre lei e l’altra signora, più tardi, a Lugano.

Durante il breve tragitto dalla chiesa al cimitero, i cumuli di nubi cominciarono a dar lampi e un colpo improvviso di vento spense quasi tutti i ceri. La bara fu deposta a sommo della gradinata che mette al cancello del cimitero. I portatori dei pochi ceri rimasti accesi fecero ala sulla gradinata. Un altro soffio spense anche quelli, stridette intorno per gli ulivi protesi verso il lago. Don Aurelio, ch’era rimasto indietro, si fece largo a stento, giunse alla gradinata. Qualcuno si provò ad accendere dei fiammiferi perchè, non pratico del luogo, egli ci vedesse a salire. Fu inutile. Salì accompagnato per mano. Solo i più vicini lo videro; gli altri non ne udirono che la voce vibrante sopra quelle del vento e delle onde che crepitavano al basso lungo i muri della riva.

«È giunto» egli parlò «il tribolato Viandante alla terra dell’ultima sua quiete, soccorso di nuove preghiere dalla Santa Chiesa che morente nelle sue braccia materne lo affidò alla misericordia Divina. Non gli amici nè i discepoli suoi ma candide anime credenti e immaginose di popolani lo chiamarono santo con suo sdegno e dolore. La Chiesa, quando prega per un defunto, non ne conosce nè santità nè virtù. Non conosce, nella sua sapienza severa, che la universale fragilità umana, le universali miserie del peccato, ascose o palesi, a fronte dell’imperscrutabile mistero nel quale si chiude il giudizio Divino. Però la Chiesa, memore del pianto di Gesù presso il sepolcro di Lazzaro, consente ai poveri cuori umani la parola, sulle tombe, dell’amore e del dolore, consente loro la lode cui anche il solo pianto dice. Amore, dolore e lode premono alle mie labbra; eppure io non saprò trovarne le parole, io sento in me non so quale impedimento arcano che me le nasconde, io credo di sentire in me un contrario impero di questo morto, io credo ch’egli non voglia nè dolore nè lode, io credo di sentire quali parole egli voglia da me.»

L’oratore si arrestò un momento, ansante. Un fremito di commozione corse per la calca stretta sulla gradinata. Alcune voci sommesse dissero: «sì sì sì.»

«Pace» riprese don Aurelio, «pace, o spirito di Piero Maironi, o spirito di Benedetto. Io non dirò le parole mie, le parole dell’amore, del dolore e della lode.

Dirò quelle che tu vuoi da me. La tua montagna dia vento che non le disperda ma le porti lontano, dovunque si è detto di te con affetto e rispetto, con ira e ingiuria.

Udite. Quest’uomo ha molto parlato di religione: di fede e di opere. Non Pontefice sentenziante dalla cattedra, non profeta, ha potuto, molto parlando, molto errare, ha potuto esprimere proposizioni e concetti che l’autorità della Chiesa avrebbe ragione di respingere. Il vero carattere dell’azione sua non fu di agitare questioni teologiche nelle quali potè mettere il piede in fallo; fu il richiamo dei credenti di ogni ordine e stato allo spirito del Vangelo, fu la determinazione del valore religioso di questo spirito incarnato nella vita, nei sentimenti e nelle opere degli uomini. Egli proclamò sempre il suo fedele ossequio all’autorità della Chiesa, alla Santa Sede del Pontefice Romano. Vivente, si glorierebbe di offrirne la prova e l’esempio al mondo. È nel nome suo che io lo affermo! Egli seppe che il mondo disprezza l’obbedienza religiosa come una viltà. Egli ha disprezzato alla sua volta, fieramente, i disprezzi del mondo, il quale glorifica l’obbedienza militare e i sacrifici che impone benchè l’autorità militare sia assistita da carceri e manette, da polvere e piombo; e l’autorità religiosa da niente di tutto ciò. Nulla egli amò sulla terra quanto la Chiesa. Pensando alla Chiesa, si paragonava alla menoma pietra del più gran Tempio, che, se avesse anima, si glorierebbe di essere una cosa coll’edificio colossale, di venirne in ogni senso compressa. Sì, egli credette conoscere gli spiriti mali che l’Inferno scatena dentro la Santa Chiesa, che non prevarranno, noi lo sappiamo per la promessa divina, contro di lei, ma possono infliggerle ferite crudeli congiurando con altri spiriti mali, infurianti nel mondo. Egli credette conoscerli e fu passione di filiale amore, di filiale dolore quella che lo portò supplichevole ai piedi del Sommo Pontefice, venerato Padre dei fedeli.

Egli vuole che io perdoni nel nome di lui a quanti, senz’avere nella Chiesa autorità di giudici, lo condannarono come teosofo, come panteista, come alieno dai Sacramenti; ma vuole pure che io proclami in pari tempo, con alta voce, a togliere lo scandalo di quelle accuse, com’egli abbia tutti abbominati quegli errori, come da quando, infelice peccatore, si volse dal mondo a Dio, sempre in tutto si sia conformato alle credenze e alle pratiche della Chiesa Cattolica fino al momento della sua morte.

Egli morì fidente che risospinti un giorno dentro le porte d’Inferno i mali spiriti ond’è travagliata la Chiesa, tutti gli uomini che hanno battesimo e invocano il nome di Cristo si sarebbero uniti in un solo popolo religioso intorno alla Santa Sede del Pontefice Romano. Egli domanda agli amici suoi di pregare per questo gran fine.

Amici e fratelli che vi sdegnaste delle false accuse mosse a quest’uomo da privati cattolici, giornalisti e libellisti, perdoniamo con lui. Perdoniamo anche a coloro che lo derisero e l’oltraggiarono per la sua fede. Nesciebant, gli uni e gli altri. Troppo ignoriamo anche noi perchè ci sia lecito giudicare le ignoranze altrui. Viandanti della notte, interroghiamo le stelle, cerchiamo il nostro cammino, chiamiamoci a vicenda nelle tenebre con voci d’interrogazione, di consiglio, di aiuto, annunciamo la trovata via buona perchè altri oda e venga, non giudichiamo chi non viene perchè non sappiamo se fra lui e noi sieno impedimenti maggiori delle sue forze. Preghiamo per tutti, passiamo per le ombre aspettando l’aurora del giorno di Dio. Spoglia che ci fosti sì cara, riposa in pace fino a quel giorno!»

La bara discese vicino a quella di Elisa Maironi, furono dette le ultime preghiere, fu chiusa la fossa. Il parroco era ritornato alla chiesa per svestirsi, la gente si era dispersa, Massimo, don Aurelio, i giovani romani, trattenutisi alquanto sulla fossa, scendevano la gradinata, il sagrestano stava per chiudere il cancello, quando la donna che pareva una cameriera venne a pregare che il cancello rimanesse aperto ancora per pochi minuti. Siccome il sagrestano esitava, Massimo e don Aurelio intervennero insieme, fecero che colui acconsentisse. La cameriera si allontanò, raggiunse la dama velata che aspettava sul viottolo, all’angolo di ponente del cimitero. Solamente allora, chi aveva preso la lettera portata dal ragazzo di San Mamette si ricordò di consegnarla a Massimo. Massimo potè leggere, tra un soffio di vento e l’altro, coll’aiuto di fiammiferi:

«La nostra amica sta molto male. Venga appena può.

Leila.»


Massimo supplicò don Aurelio di venire con lui. Don Aurelio avrebbe dovuto ripartire per Milano allora allora. Udito di che si trattava, vi rinunciò. I due si congedarono a precipizio dai giovani amici che rimasero a commentare la loro fuga. In quel trambusto la dama velata passò loro accanto colla compagna senza che se ne avvedessero. Se ne avvidero poco dopo perchè la compagna non passò il cancello, rimase fuori insieme al sagrestano, aspettando. Parve loro indiscreto di rimanere lì. Però, siccome avevano trattenuto il piroscafo a loro disposizione, stimarono dover offrire alle signore di prenderle a bordo. Uno di essi salì al cancello parlò a quella delle due che vi stava in attesa, n’ebbe un rifiuto quasi spaventato. Allora i giovani si allontanarono verso Oria.

La dama velata, alta e sottile della persona, fu veduta dal sagrestano inginocchiarsi sulla terra smossa. Vi si fermò pochi minuti e scese la gradinata a braccio della cameriera che le raccontò l’offerta fattale e la ripulsa. Non disse parola. Ripresa la via di Oria, le due signore furono incontrate dal barcaiuolo che veniva ad avvertirle come il lago fosse pessimo. Occorreva un secondo barcaiuolo. A un cenno tacito della dama, la cameriera gli ordinò d’impegnarlo. Prima di toccare il sagrato di Oria incontrarono il parroco che teneva una lanterna e offerse di accompagnarle, per la cieca viuzza del villaggio, fino alla riva. La dama strinse il braccio della sua compagna per significarle che rifiutasse; ma la compagna, temendo di rompersi il collo, accettò. Corsero bisbigli fra le due. La cameriera pregò il parroco di fermarsi, tolse dalla borsetta che teneva al braccio un portamonete, ne levò una moneta d’oro e gliela porse.

«La mia signora» diss’ella «per i Suoi poveri.»

Il piroscafo non era ancora ripartito quando, al chiarore di due lanterne, la dama velata e la sua compagna salirono in una lancia che le onde abballottavano. La lancia, spinta vigorosamente a quattro remi, passò quasi rasente il piroscafo, nella luce che usciva dalla sala della prima classe. I giovani la guardarono dal ponte, curiosamente. La dama si era alzato il velo, era giovine e bella. Uno di coloro esclamò:

«So chi è! È la signora per causa della quale Benedetto ha fuggito il mondo.»

«Chi è?» disse un altro.

Tutti conoscevano vagamente il fatto; nessuno sapeva il nome della signora. Corsero da poppa a prora con riaccesa curiosità, cercando discernere ancora il piccolo schifo che si udiva saltar sull’onde lottando. Non era più visibile. Lo videro un momento dal piroscafo in corsa, nel raggio elettrico della torpediniera. Poi Jeanne scomparve dagli occhi loro per quella notte e per sempre.


IV.



Donna Fedele si era aggravata, quasi improvvisamente, dopo mezzodì. Non aveva dolore. La febbre, fattasi altissima, indicò al medico lo scoppio dell’infezione generale. Nulla si poteva tentare più. La sentenza era segnata e a termine prossimo; quel misero corpo aveva del tutto perduto la virtù di resistere. L’ammalata, perfettamente in sè, comprese il suo stato, volle subito un sacerdote e il viatico. Si chiamò il prevosto di San Mamette. Alle cinque tutto era stato fatto. Il prevosto, edificato della fede, della pietà, della rassegnazione di quella povera signora, le aveva amministrato l’olio santo. Il telegramma di Massimo da Porto Ceresio le fece visibilmente dispiacere. Non lo disse, ma Lelia capì, che, secondo lei, Massimo avrebbe potuto fare a meno di andare a Porto Ceresio. Avuti i conforti religiosi, il ritorno del giovane parve la sua maggiore preoccupazione. Ne domandava ogni momento, tanto che una volta se ne scusò con Lelia.

«Sono una sciocca» diss’ella, prendendole una mano, «perchè, se ha telegrafato così, non può essere qui prima. Vorrei dirgli certe poche parole e ho paura che non arrivi in tempo.»

Lelia cercò di rassicurarla, non seppe. Un groppo di pianto fermo nella gola le impediva di parlare. Invidiava la cugina Eufemia. La cugina Eufemia era serena. Se il suo affetto per donna Fedele toccava l’adorazione, il timore di non sapere umilmente accettare la volontà di Dio le premeva sul cuore ancora più. Ella prestava senza posa le sue cure all’ammalata, andava e veniva, grave, tranquilla, senza lagrime. Una volta sola fu per venir meno ai suoi propositi di fortezza, quando l’inferma, stendendole la mano, le disse con un’ombra del suo sorriso antico:

«Salutami le tue sorelle.»

La povera vecchietta strinse le labbra, non rispose parola. La dolcezza pia della morente, il contegno della cugina Eufemia significante uno stato d’anima tanto umile e insieme tanto alto, erano per Lelia uno spettacolo nuovo che la penetrava di stupore, di riverenza. Alle sei, avendo il prevosto preso licenza colla promessa di ritornare alle sette, donna Fedele pregò il medico e la cugina di uscire, chiamò Lelia al suo letto e le accennò d’inginocchiarsi per poterle cingere il collo di un braccio.

«Cara» diss’ella, «di’ a Massimo che pensando a lui e alla sua povera mamma sono morta con un dolore e con una speranza. Glielo dirai?»

Straziata da un interno combattimento perchè le pareva d’indovinare quel dolore e quella speranza, nè li poteva fare suoi proprii; perchè l’idea di esercitare per mandato una pressione sullo spirito di Massimo l’atterriva e tuttavia il rifiutarsi a quel desiderio sarebbe stato orribile, Lelia rispose un sì che non ingannò la morente. Questa le tolse il braccio dal collo con un sospiro, mormorò che avrebbe avuto tante altre cose a dire ma che non se ne sentiva la forza. Si fece porre nelle mani un Crocifisso e non parlò più fino alle nove. Alle nove domandò di Massimo. Verso le nove e mezzo, Lelia, che stava alla finestra di ponente, vide un lume spuntare lontano, nelle tenebre. Il medico riconobbe il battello speciale e lo annunciò all’ammalata che pregò di mandare un biglietto a Oria perchè Massimo venisse immediatamente. Cominciò allora per essa uno stato nuovo d’inquietudine. Pareva avere perduto la nozione del tempo e dello spazio, domandava di minuto in minuto, prima se fosse arrivato il battello, poi, quando il battello fu visto fermarsi a Oria, se fosse arrivato Massimo. Si giunse così alle undici e anche Lelia era inquieta perchè del ragazzo portatore del biglietto non si avevano più notizie. Non capiva come Massimo, ricevuto il biglietto, non fosse accorso tosto. Poco dopo le undici l’albergatore, che aveva mandato qualcuno verso Albogasio, salì le scale di corsa, annunciò: «viene, viene!». Lelia discese, incontrò i due nell’ingresso dell’albergo. Non si attendeva alla vista di don Aurelio che comprese il suo imbarazzo, la lasciò occupata a informare rapidamente Massimo e volò sulle scale. L’albergatore lo accompagnò fino all’uscio della camera di donna Fedele. La voce nota, il noto viso spirante lieta bontà rianimarono donna Fedele.

«Oh, don Aurelio!» diss’ella. «E Massimo?»

Chino all’orecchio della morente, mentre il prevosto, il medico e la cugina Eufemia si tenevano in disparte, don Aurelio prese a parlarle così basso che coloro non ne udirono neppure la voce. Udirono invece le fievoli voci brevi che metteva donna Fedele con un inesprimibile accento di sorpresa e di gioia.

«Eccolo» disse don Aurelio, rizzandosi mentre Massimo entrava.


Da quel momento donna Fedele si trasformò. La camera della Morte parve diventata la camera della convalescenza; tanto che per un istante i presenti dubitarono davvero di una misteriosa crisi benefica. Il primo segno ne fu questo che l’ammalata domandò a Massimo se avesse letto una lettera del sior Momi e accennò a Lelia di mostrargliela. Per accontentarla, Massimo si tenne davanti agli occhi, senza leggerne sillaba, il foglio dove il sior Momi accordava il suo consenso, protestando di voler restare un semplice agente e lasciar libera la Montanina perchè quell’aria non gli si confaceva. C’erano pure ossequi per Massimo e la preghiera di due righe sue che approvassero le disposizioni di Lelia quanto alla resa dei conti.

Poi donna Fedele domandò che i due giovani e don Aurelio le si avvicinassero.

«Sono stata cattiva coll’arciprete e col cappellano di Velo» diss’ella. «Fate loro sapere che ne ho dolore.»

«Sì sì, farò io, farò io» disse don Aurelio. Ella lo ringraziò con uno sguardo lungo, d’inesprimibile senso. E accennò che avrebbe voluto baciargli la mano.

Verso le tre si comprese, per l’agitarsi delle mani e l’inquietudine delle labbra, che voleva qualche cosa e che non poteva esprimersi.

Indicava collo sguardo un vaso di cristallo dove languivano ancora le rose del villino. La cugina Eufemia, postole l’orecchio alla bocca, vi colse il soffio di una parola inarticolata, domandò:

«Rose?»

L’inferma accennò di sì e le sue mani brancolarono sulle coltri. La cugina intese ch’ella volesse avere sul letto quelle rose, andò per levarle dal vaso. Donna Fedele accennò di no, di no. La povera Eufemia si tormentava di non capire. Massimo e Lelia capirono, non osarono parlare. Chi osò fu don Aurelio, che aveva maggiore familiarità colla morte.

«Desidera che sieno sparse dopo» diss’egli. Donna Fedele lo ringraziò cogli occhi.

Finalmente anche i belli grandi occhi bruni che avevano dato in cinquantadue anni tanto lume di spirito, tanta dolcezza di sorrisi buoni, si chiusero. Le mani si quietarono sul Crocifisso. Don Aurelio si piegò sul viso immobile. Non era persuaso che fosse ancora la fine perchè vedeva le ciglia muoversi lievemente.

«Cara amica» diss’egli forte, «ci raccomandi al Signore. Soffre?»

Gli occhi non si apersero ma le labbra, quasi ceree, si agitarono. Don Aurelio credette intendere che dicessero:

«Son felice.»

Lo ripetè agli astanti: «ha detto: son felice».

Accennò, guardandola sempre, che s’inginocchiassero. Due minuti di silenzio.

«Sì, è felice» soggiunse con voce alta, solenne. «Godiamo e adoriamo.»

Spuntava il sole e donna Fedele Vayla di Brea giaceva, vestita di nero, col Crocifisso fra le mani, sul letto dove insieme alle rose appassite del villino rosseggiavano molte rose fresche della Valsolda. La Morte le aveva ridonato il suo soave sorriso. Traspariva esso dalle palpebre chiuse, lume di una segreta visione beata; fioriva lieve lieve sulle labbra di cera. Nessun viso giovanile vivo avrebbe potuto vincere di bellezza quel viso di avorio, sorridente sotto l’arco dei densi capelli di neve. Così compiuta, secondo la fede dei padri e lo spirito del Vangelo, la sua benefica giornata, sciolta la promessa fatta pregando al letto di morte del signor Marcello, raggiunto il fine dell’offerta suprema, posava nella prima luce della sua mistica aurora la Dama bianca delle Rose.



FINE.

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