< Leoniero da Dertona
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Atto quarto
Atto terzo Atto quinto

ATTO QUARTO.

Palazzo.


SCENA I.

ENZO, CORRADO, LANDO.


Enzo.Ostaggio qual chieder potean? Suprema
Di senno altezza han soli duo in senato;
Gli altri patrizi, plebe son.
Lando.                                                  Ma pegno
Ir tra quelle feroci alme!
Enzo.                                             T’affidi
La securezza di Corrado. Mezzo
Dell’amico agl’intenti, a perigli altri
Ben più gravi ne gisti, e ingrato, il sai,
Enzo non fu. Come innalzarti al seggio

Senatorio potea, darti ivi il primo
De’ seggi or può. Preside tu in senato,
E Corrado custode è del castello.
Lando.Ah, tutto puoi!
Enzo.                         Di voi stessi minori
Dunque non vi mostrate. Ostaggio vero
Ite forse?
Corrado.                    No, il credono gli stolti,
E a nemici fatali albergo danno.
Pace, o Lando, in te sia. Di Berengario
Con Enzo e me gli ascosi patti or sai;
Nè nostro è Ubaldo men. L’opportuna ora
Che lenta forse aspetterian, più ratta
A lor trarrà nostra sagacia; e mentre
D’Enzo i guerrieri invadono la porta,
Più non ha ostaggi Auberto.
Enzo.                                                  Nè temenza
D’avventar parricida arme il furore
Mio nella strage frenerà.
Lando.                                             Si vada.
Ma se sventura, o tradimento, i fidi
Nel castel ne togliesse....
Enzo.                                             Anzi cho voi
Perder, prime colonne al poter mio,
Ogn’altro affetto cede: il padre rendo.


SCENA II.

ENZO.


Che feci? Io quei che basse arti finora
Oprar sdegnava! — Una maligna stella
Di delitto in delitto mi travolve;
Degli audaci la stella.1 Anche tu, Ubaldo!
«L’amistà ti disdico.!» — E Berengario
All’amata e a Corrado.... Oh me felice
Che a me sol venner questi fogli!2 — Il padre

Ad ogni costo si racquisti.3 — Il passo
Corrado e Lando affrettano. E potei
Così mandarli a certa morte? Stolti,
Che presumervi ad Enzo necessari
Già v’ardivate! a ciò v’adopro! Amici
Chi tutto toglie e tutto dona ha mai?
Paura e cupidigia a piè del forte
Strisciar li fa: sgabello siangli adunque! —
Alla ròcca or son giunti. — E se un dì illesi
Riedon?... Nemici a me mortali allora...—
Di vostra tempra, oh no, non son gli spirti
Ch’Enzo paventa! Arrigo io paventava.
E ne’ miei lacci ei cadde pur; nè il sole
Splenderà più su due siffatti mai
Quai furo Enzo ed Arrigo. — Eppure un altro....
Ah, terribile è un altro! — Eccolo, egli esce
Del castel. — Quell’altero portamento
Mia baldanza sconvolge.4 — Ond’è ch’io tremo?
Tuoi moti son, natura? O tal possanza
Ha l’aspetto del giusto? — Assomigliarti,
Padre, potessi! — Debolezza è questa?
Rimorso forse? — Oh avventurato l’uomo
Che adulto abbraccia i genitori, adulto,
Ma col candido cor con che fanciullo
Ei li abbracciava, e dir puote a sè stesso:
«La lor canizie han mie virtù onorato!» —
Vaneggio? — Altra virtù, ma virtù pure
M’arde: un voler che tutto affronta e vince!
E vincerà te pure, o Leoniero!
Tenerezza paterna al dir del figlio
Ti piegherà; d’un figlio cui circonda
Tutta la pompa del poter; — nè sfregio
È questa pompa che vero odio ispiri:
Ma d’Eloisa, che il compagna, i detti
A’ miei nuocer potriano. Uggero!

SCENA III.

UGGERO e detto.


Uggero.                                                  Ei giunge
In questo punto.
Enzo.                              Ad Eloisa schiudi
La torre: a sè l’appella Arrigo. Niuno
Il parlamento mio turbi col padre.


SCENA IV.

LEONIERO ed ENZO.


Enzo.Oh genitor!
Leoniero.5               — Soli qui siam. — Di figlio
Darti il nome poss’io? Parla; presagio
Fausto emmi il tuo confuso sguardo? Oh alquanto
In quest’inganno lasciami. — No, tosto,
Se ritrovarti empio dovessi, il doppio
Animo svela, sì che i sacri accenti
D’amor paterno teco io non profani.
Enzo. Severo troppo al figliuol tuo che t’ama
Favelli. Io, più ch’alta possanza, pace
Teco desio. Co’ miei nemici pace
Bramava io pur, ma....
Leoniero.                                        Già diversa brama
In cor t’entrò?
Enzo.Pace sperar con essi,
Or pochi istanti, di Milano il nuncio
Tolsemi; guerra mi bandía.
Leoniero.                                                  Bandito
De’ Dertonesi all’oppressore ha guerra:
Esser cessa oppressore, e a ognuno è pace.
Enzo.Pieno e sincero ti rispondo. — Appena
Sulla ruina delle antiche mura
Queste nuove sorgean, di civil scempio

Orrendamente le macchiar del volgo
E de’ patrizi le discordie. Il volgo
Co’ suoi sordidi eroi mietea la palma,
E il sangue a rivi ognor correa; nè tanta
All’esausta città lena restava
Che di Pavia le ritornate faci
Retrospinger potesse.— Inopinato
Fra i nobili proscritti un campion sorge,
Che il braccio suo alla sbaldanzita plebe
Offre; e le ardite faci ecco smorzate
De’ Pavesi nel sangue. Il figlio tuo
Quell’invitto era. All’arrogante plebe
Io posi il freno! io delle illustri case
Rïalzai la potenza! Ma sovr’esse
La veneranda pianta di giustizia
Alzar gigante volev’io. Il potei?
No! Come dianzi il malignante volgo,
Ecco il socïal ordine prorotti
I patrizi a’ sovvertere. A congiure
Congiure succedean. Fervido io ancora
La giovanile idolatria serbava
Del patrio zelo e dell’onore; e innanzi
Che fra i tiranni annoverarmi, solo,
Sul mio destrier, spontaneo, io dalla terra
Che il mio braccio avea salva esular scelsi.
Leoniero.E inteneriti ancor membran que’ giorni
Auberto e Ghielmo ed ogni buon; ma un velo
Uopo qui stender su tua istoria fòra.
Qual demon lunge da Milan tuoi passi
Allor traea? Milan che alle lombarde
Genti verace madre erasi fatta!
Che a Barbarossa ti guidò? Tu ondeggi?
Enzo.No. Giovenil di patria idolatria
Folle, ma generosa! assai più grande
Di quella, onde i Lombardi e le lor cento
Miserabili insegne infastidendo
Italia gían. Che proponeansi? Eterno
Lor picciolette glorie e lor maligne

Serbar picciole gare, e allo straniero
Di riso oggetto rimanersi eterno.
Gloria alla patria altra io bramava; e patria
Breve zolla non m’era; erami tale
Ogni contrada ch’itala s’appelli,
E sognava nel mio nobil delirio.
Sotto l’imperïale aquila sveva
Ricongiunte vederle, e i dì tornati
In che di cortesia specchio e d’onore
Era a’ popoli Italia.
Leoniero.                                        Error sublime,
Se vero parli, esser potea. Ma errore
Or come il nomi, e a gioventù l’apponi,
E picciolette appaionti le glorie
Degli avi tuoi, del padre tuo? Il qual mai
Non s’avvide che piccolo era affetto
La carità del natío loco, il santo
Zelo a respinger la straniera audacia! —
Angusto è il natío loco? E perchè angusta
È sua magione, uom dè’ spregiarla, e preda
Darla a possente di ladron masnada
Che il merto ha d’esser vasta? Oh! una famiglia
Ben sol pareami il picciol popol mio:
Ma di più vasta patria cittadino,
Pur amando Dertona, io m’estimava;
Ed eran tutte le città che patto
Con noi stringeva. Ed io di lor discordie
Non ridea, no; gemeane, e alcuna volta
Le composi. Ed allora Asti, Vercelli,
Brescia, Milano, il titolo gentile
Davan di cittadino al dertonese.
Enzo, il tuo labbro blasfemò: di patria
Più generoso amor quel che le toglie
Leggi, gloria, possanza, e sotto i piedi
D’un barbaro la pone!
Enzo.                                             Idolatria
Di gioventù la dissi; error. Dappresso
Vidi l’eroe straniero predicante

Leggi e concordia all’itale contrade;
E vidi quelle leggi esser l’acciaro,
Quella concordia l’ammutir del vile.
Ciò vidi, e allor di sogni esser ludibrio
Più non mi piacque. Di virtù il linguaggio
Conobbi esser di tutti; virtù vera
Di niun.... T’acqueta, volli dir di pochi,
De’ soli forti che alle umane fere
Pongono il morso, e lor malgrado al bene
Lo traggono.
Leoniero.                    Che intendo?
Enzo.                                        A mie parole
Malvagio senso non prestar: l’ardito
Dire appartiensi a’ forti, e tai noi siamo.—
Ardente d’amor patrio io ritornai,—
Altri il come narrotti, — alla nativa
Terra ove i consueti abborrimenti
Regnavano e le stragi. Angiol di pace
Mi salutàr patrizi e volgo; il ferro
Consolar cinsi, e di virtù miei novi
Principii esercitando, con stupore
Universal, tutto fu in breve pace.
Leoniero.E Auberto e Arrigo dall’error novello
Trarti vollero allora. Evvi di morte
Una quïete che antepor non debbe
Ad agitata vita il cavaliero.
Voce solenne è di natura: «A vita
Dritto ha nascendo l’uom.» — Io in Orïente,
Ove per molti regni errai captivo,
Quella feral quïete inorridendo
Spesso incontrai. Per alte gare il sangue
Non fiumeggia ivi; ma più degna il versa
Causa o più rara almeno? Un furibondo
Accenna, ed a quel cenno orrende guerre
Fan del regno un deserto, e in quel deserto
Nome d’eroe non ode il passeggiero.
A turpi guerre turpe abbattimento
Quindi consegue; e pace è quella? — Oh figlio!...

Ma che t’apprendo? Invano assomigliata
D’Orïente agli stati or questa terra
Da te vorriasi. Altra la féro i nostri
Magnanimi avi, e quale essi la féro,
Privilegi acquistando e sostenendo,
Tal benedirla e raffermarla vuole
Con divin dritto il roman Piero, e tale
Ogni buon la desía. Conosci, o figlio,
Il secol tuo: tua sola gloria sia
Di secondarlo....
Enzo.                         Padre, in me tal sento,
Non so se a’ giusti, ma a’ forti alti istinto,
Ch’io questa gloria ambir potrei; — ma solo
Quando forzato non foss’io. Tu il vedi:
Milan comanda, cingonmi i ribelli;
Ceder viltà saria. Del secol mio
Qual pur siasi lo spirto, a governarlo
Tempo m’avanza; ed arbitro te allora
Di me farò quando ruggir per l’aure
Più non udrò insoffribile minaccia.
Leoniero.A che qui mi chiamasti?
Enzo.                                             A farti noto
Del figlio tuo l’amor; mie vere colpe
A palesarti e l’altrui vero; scampo
Da te un giorno a cercar.
Leoniero.                                        Oggi.
Enzo.                                                  Dall’armi
Oggi è forza cercarlo. Ausilii aspetto
Oggi da Federigo.
Leoniero.                              Empio!
Enzo.                                             Il pentirsi
Non giovería; patto con lui m’avvince
Insolubil per or.
Leoniero.                              D’Arrigo chieggo
La libertà.
Enzo.                    Tu nol conosci: è d’uopo
Ch’egli od io soggiacciamo.
Leoniero.                                             Oh ciel! sua morte

Oseresti fermar? Trema! D’Arrigo,
Si, le virtù conosco: a me lo attesta
Il popol tutto. E pria che tu t’innalzi
Sulla rovina sua....
Enzo.                                   — Qual suon di trombe?
Oh gioia! Dessi.
Leoniero.                              Chi?


SCENA V.

UGGERO e detti.


Uggero.                                        Signor, le insegne
Imperiali a vista di Dertona
Risplendono.
Enzo.                              A me l’elmo: il mio destriero
Bardisi: ai prodi incontro movo.
Leoniero.                                                       Indegno!
Enzo.Padre, ferma.
Leoniero.                              Che a dirmi anco t’avanza?
Enzo.Che mio in breve è il castel; che l’arme a pronto
Assalto io volgo; che fra’ vinti il padre
Mio trovar non si dee.
Leoniero.                                             Togliermi il passo
Presumi? Oh iniquo! La mia spada....
Enzo.6                                                            — Olà!
Malgrado suo dalla sventura il padre
Sottrarre io vo’. Libera stanza intero
Abbia il palagio e pari a me s’onori,
Ma l’uscir gli si vieti.7
Leoniero.                                             Temerari
Sgombrate 1


SCENA VI.

ELOISA e detti.


Eloisa.Oh genitor! che veggo? I ferri
Contro a te nudi?— Enzo, ove fuggi?

Leoniero.                                                            Oh rabbia!
Io disarmato?
Uggero.                         Astretti siam, perdona,
Ad obbedire.
Eloisa.                         Oh tradimento! Oh padre!
Deh, qual furor dall’occhio tuo sfavilla?
Padre, son io, Eloisa.
Leoniero.                                             Enzo! fuggito
Sei: — ma il paterno maledir t’insegue!
Maledetto sia il dì, ch’io da tua madre
Un figlio ricevendo, il più felice
M’estimai de’ viventi! maledetta
La lagrima di gioia onde t’aspersi
E il sorriso infernal che su tue labbra
Parea d’angelic’anima il sorriso!
Maledetto ogni palpito d’amore
Con che in età crescer vedeati, e auguri
Stolti di gloria al nome mio sognava!
Maledetto ogni istante in che mie braccia
Fanciul non soffocavanti, o alle soglie
Non infrangean tue scellerate tempie!
Benefici ad ognuno, i rai del sole
Su te piovano influssi di spavento:
E quando tutto posa, a te la notte
E i suoi spettri e i terrori della morte
Addoppino le angosce! e ogni speranza
Che ad altr’uom parli, a te sia muta! e vile
Sia tua vecchiaia, e inonorata, e afflitta
Come la mia da insulti atroci.
Eloisa.                                                  O padre!
Leoniero.Chi padre ancor mi noma? Alla vendetta
Di Dio è devoto: io, no, non ho più figlio!
Eloisa.Oh parole! Oh fratello! Oh Arrigo!
Leoniero.                                                       Arrigo!
Lui figlio, sì, dal core adotto. — Udiste
Del signor vostro i cenni? A me l’intero
Palagio è stanza. Ir nella torre, a fianco
D’Arrigo io vo’.

Uggero.                                        Ma....
Leoniero.                                             Se l’onor mi nieghi
Ch’Enzo comanda, pel tuo capo temi! —
Vieni, Eloisa, reggimi. Un tremore
Universal mie vecchie membra invade:
Se a questa febbre io soccombessi, al mondo
Dì, tel comando: «Il padre il maledisse!»


  1. Prende due fogli sul tavolino, li rilegge fremendo.
  2. Passeggia un momento in silenzio.
  3. Guarda dalla finestra.
  4. Cerca di ricomporsi. S’allontana dalla finestra. Passeggia luttando con sè stesso. Torna a guardare con inquietudine.
  5. Lo abbraccia.
  6. Alle guardie.
  7. Parte.


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