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Catania, febbraio 1886

Non ti ho scritto perchè, dopo tanti mesi di letargo, mi son finalmente rimesso a poetare, e le poesie religiose fioccano: figurati, ne ho scritto sei in meno di quindici giorni.

A proposito delle «Poesie religiose» ho avuto una piccola soddisfazione.

Lo Scarfoglio e la Serao proprietari del nuovo giornale «Il Corriere di Roma» mi hanno, per mezzo del Cesareo, offerto due mila lire per venti poesie da stampare prima nel loro giornale e poi in volume.

Accettai astutamente, ma, quando vidi annunziato dal «Corriere» che s'impromettevano un gran successo per avere acquistata la proprietà delle mie poesie, mandai allo Scarfoglio un telegramma (che tu hai forse veduto nel «Roma») per dirgli che, non essendo il suo «Corriere» un giornale di letteratura, io non potevo accettare la sua proposta.

Non ti pare che abbia fatto bene? Voglio il tuo parere.

A me pare che in questi tempi di venalità e prostituzione letteraria io ho fatto ciò che molti altri non avrebbero avuto il coraggio di fare: ho gettato duemila lire, pur che non si dica nè si sospetti nemmeno che io faccia causa comune con quel canagliume letterario che ho sempre disprezzato.

E tu lavori? Pensa al «Cave canem»; non divagarti in altri soggetti.

E mandami presto i nicchi, di quelli a brogna, te l'ho detto venti volte, senza scolture, con quel bello smalto color di rosa; ma che siano grandi.

Guarda se il «Roma» ha pubblicato il mio telegramma e la «Napoli letteraria» il mio Orazio (intendo l'articolo, non la traduzione) e se vedi Bovio, digli come ho trattato il «Corriere di Roma».

Addio.

Scrivimi presto e mandami le brogne in pacco postale, bene avvolte di stoppa.

P. S. Riapro la lettera, per dirti che è morto il nostro don Carlo. L'ho veduto morire.

L'anima mia è triste.

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