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14 dicembre 1904
Permettete, illustre signore, che in riconoscenza del dono gradito del vostro opuscolo, io vi trascriva un sonetto, che scrissi già pensando a voi e al vostro poetico discorso su l'«Etere», e Del quale ho voluto esprimere quel sentimento di esaltazione sublime che nasce dal considerare l'Etere quale mezzo universale di fraterna comunicazione fra tutti gli esseri viventi, e che ci fa intuire nell'armonia di tutti i fenomeni della vita il fine reale della vita stessa.
O dell'Etere padre, unico immenso 
Poter che tutto crei, tutto governi, 
E, in elettrici flutti il raro e il denso 
Vorticoso mutando, il tutto eterni;
Se inanellata in vincoli fraterni 
Ai soli, ai mondi esser mia vita io penso, 
Della terra e del ciel comprendo il senso, 
La forza, i moti, i volgimenti alterni.
Ma se da te, dagli altri  esseri scisso 
Il mio stato io mi fingo, e la distesa 
Del ciel contemplo e il  cieco uman soggiorno,
Nell'infinito baratro sospesa 
L'anima si spaura, e non che intorno, 
Spalancar dentro a sè vede l'abisso.
Quanto a ciò che io debbo agl'insegnamenti vostri e all'esempio del vostro carattere adamantino mirabilmente confermato nell'ultimo libro sui Problemi dell'universo, io non saprei significarvi meglio la mia ammirazione e la mia gratitudine, che richiamando alla vostra memoria i solenni versi che Lucrezio consacra a Epicuro:
Tu pater es rerum inventor: tu patria  nobis 
Suppeditas praecepta: tuisque ex inclyte chartis, 
Floriferis ut apes in saltibus omnia libant: 
Omnia nos itidem depascimur aurea dicta: 
Aurea, perpetua semper dignissima vita.