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21 marzo 1886
Del « Giulio»[1] ho mandato al Trezza la copia mia, perchè quella a lui assegnata fu veduta e comprata da un signore nella libreria di Tropea, a cui l'avevo mandata per ispedirla: ti son dunque debitore di quattro lire. Nè dalla «Napoli letteraria» nè dalla «Commedia umana» nè dal Bovio ho ancora avuto alcun segno di vita: la bibliografia e il ritratto furono trasmessi or sono otto giorni.
Se tu mandassi in deposito al sopra detto Tropea una dozzina di copie, faresti cosa utile.
Avendo io parlato del tuo libro con quanti conosco, alcuni sono invogliati di leggerlo, e lo comprerebbero.
Rileggerò il «Roma»[2] e ti ci farò la nota del bucato: meglio forse sarebbe che lo stampatore me ne mandasse le bozze via via, per la prima correzione: io poi le spedirei a te, e tu, definitivamente corrette, allo stampatore. In ogni modo io son qui, tutto a te.
Il giornale del Chiarini è morto da un mese, nè credo che il Carducci abbia scritto di te nelle sue prose.
Egli è tanto giusto che in una rassegna dei poeti dopo la rivoluzione (dal '60 al '70) non mi nomina neppure, egli, che ha parole di lode per il Betteloni, per il Milelli etc.
Oh, quanto l'animo mio è superiore al suo!
Se a me venisse l'occasione di parlare dei nostri scrittori, direi che egli è il maggiore dei prosatori nostri viventi, il primo dei nostri lirici, superiore a tutti nello stile, inferiore a qualcuno nella cultura scientifica, nella grandiosità dei concetti e nell'altezza dell'anima. Così ho sempre parlato di lui, dopo la nostra polemica, rispondendo aspramente (e ultimamente in Napoli fra un crocchio di giovani che si dicevano miei devoti ammiratori) a chi osasse in mia presenza parlar con poco rispetto del mio avversario.
Ed egli, intanto quando qualcuno scrive di me favorevolmente, a costui si rivolge per lettera privata, dicendogli che io non valgo nulla come scrittore e che sono un «cattivo soggetto».
Così ha fatto, or è qualche mese, con Pipitone Federico, un buon giovane palermitano, che da allora mi è divenuto, se non nemico, molto tiepido, e così con altri.
Ma della sua maligna natura non accade più oltre parlare.
A me piace esser giusto; e se un momento fui vinto dalla collera, ne ho fatto penitenza, impedendo a chicchessia la riproduzione di quel mio sonetto che io non ristamperò più mai, mentre il sig. Carducci ha ristampato e rimaneggiato non so quante volte la «Rapisardiana» la quale tu certamente ignori in tutti i particolari, se no, non mi chiederesti gli scritti miei contro il Carducci.
Contro il Carducci, tienlo bene a mente, non ho scritto altro che quel sonetto e tre o quattro righe di lettera per dirgli pubblicamente che io non avevo tempo da perdere in polemiche, e che le sue impertinenze non mi facevano nè caldo nè freddo, perchè gl'improperi
Di nemici a nemico onta non fanno.
Sonetto e lettera che egli si prende la briga di ristampare nella «Rapisardiana».
Il libretto pubblicato dal Giannotta col titolo “Rapisardi e Carducci“ non contiene altro di mio che questo che ti ho detto: il resto è articoli di giornali scritti da amici miei in mia difesa.
La storia delle ingiustizie e delle malignità dei critici contro di me sarebbe lunghissima, e tu in parte la conosci: ti dirò solo qualche particolare che non sai.
Quando pubblicai Giustizia, il Trezza ne scrisse un articolo entusiastico e lo mandò al Martini, allora direttore della «Domenica letteraria».
Il Martini telegrafò al Trezza: «Non accettiamo articoli favorevoli al Rapisardi».
Me lo scrisse il Trezza, furibondo. L'articolo fu poi stampato in altri giornali.
Poco prima della pubblicazione del «Giobbe» i miei arguti nemici mandarono fuori una circolare a stampa con la mia firma, invitando i negozianti a valersi del mio poema per la reclame delle loro merci, che io avrei fatto a una lira il verso.
Molti speziali, salumai etc. mi mandarono in lettere raccomandate chi 5 chi 10 lire e la descrizione della merce che io doveva per quel prezzo lodare nel mio poema.
Presi la cosa in ridere; ma il tiro, bisogna convenirne, è a dirittura infame.
Un mese fa, per dirtene un'altra, quando io ebbi gittato in faccia allo Scarfoglio le duemila lire che mi offriva per la stampa delle mie Poesie religiose sul suo «Corriere», venne fuori sul «Fracassa» un inno religioso firmato Marco Balossardi, nel quale io sono introdotto a lamentarmi delle sventure toccatemi, ciò sono di non avere avuto fortuna con le donne, di essere stato tradito da mia moglie, di essere stato preso a torsolate a Napoli e a Palermo etc. etc. — Non ti pare, amico mio, che se il mio cervello non fosse più saldo di quello del povero Torquato, a quest'ora io sarei all'ospedale dei pazzi?
Queste, mio caro, son le carezze che io ricevo cotidianamente da questa razzamaglia che tiranneggia in Italia la pubblica opinione.
E ti meravigli che gli stranieri ripetono i giudizi di costoro? Ma da chi devono prendere l'imbeccata?
Da sè non sono buoni a giudicare, perchè spesso ignorano la nostra lingua poetica e non sono in grado di apprezzare il nostro stile: i critici onesti tacciono delle cose nostre, per paura di incorrere nello sdegno di coloro che ci voglion male: essi dunque ripetono ciò che dicono costoro... Oh, io non m'illudo; ma la mia coscienza d'uomo e di scrittore è tranquilla.
Ho tentato di dare all'Italia una forma nuova di poema: l'epopea del pensiero; non sarò forse riuscito, ma qualcosa ho fatto di notevole fra tanta miseria. Se nè la gloria, nè la fama, nè un ricordo solo illustrerà il mio nome, non importa: io ho fatto ciò che ho potuto.