Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
Chiarissimo Signore,
Ho tardato a ringraziarla della gentilissima lettera con la quale m’ha fatto l’onore d’annunziarmi un aspettatissimo libro, e un inaspettato e prezioso dono, per potere aggiungere a questi ringraziamenti particolari quelli che le devo in comune con la più parte degl’Italiani. Dicendo, con troppa modestia, d’aver voluto giovare ai giovani studiosi della nostra lingua, Lei mi fa tornar giovine; perchè il suo libro m’insegna appunto ciò che ho gran bisogno e gran desiderio d’imparare, dandomi tutt’in una volta una quantità di quei vocaboli che andavo accattando a spizzico, e all’occasione, da quelli che li possedono per benefizio di nascita, e in casa de’ quali Lei è andata, con animosa e sapiente pazienza, a farne raccolta.
Ma che temerario le parrò io, se nell’atto di protestarmi suo discepolo, come fo di core e in coscienza, oso a questi ringraziamenti aggiungere un’osservazione? e un’osservazione non richiesta? e che, essendo legata con le nostre eterne questioni sulla lingua, non potrà nemmeno avere il merito della brevità, o piuttosto dovrà essere indiscreta anche per la lungaggine? La mia scusa è nel dovere stesso che ho di ringraziarla. Non mi pare che adempirei convenientemente questo dovere, se le esprimessi la mia riconoscenza in termini generali e insignificanti; se dicendole che riguardo il suo lavoro come un gran benefizio, in parte promesso, in parte già fatto alla nostra Italia, non le rendessi qualche ragione di questo sentimento. Ma non potrei far ciò senza accennare insieme il perchè mi pare che il benefizio poteva, e per mezzo di semplici omissioni, essere ancora maggiore. E quindi ciò che mi rende ardito a sottometterle con rispettosa libertà questa mia osservazione, è lo sperare che, quand’anche non le paresse punto fondata, vorrà pure accoglierla come parte d’un sincerissimo omaggio.
Essa cade su quelle locuzioni dell’utilissimo suo Vocabolario domestico, che non sono dell’uso vivente di Firenze. E con questo le ho implicitamente confessato ch’io sono in quella scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua italiana è in Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in Parigi; non perchè quella fosse, nè questa sia ristretta a una sola città: tutt’altro; e quali lingue furono mai più diffuse di queste? ma perchè, conosciute bensì, e adoprato in parte, e anche in gran parte, in una vasta estensione di paese, anzi di paesi, pure, per trovar l’una tutt’intera, e per trovarla sola, bisognava andare a Roma, come, per trovar l’altra, a Parigi. E le confesserò di più, ch’io riguardo la sua impresa come un argomento efficacissimo per dimostrare a coloro ai quali quest’opinione pare, non so s’io dica uno strano pregiudizio, o uno strano paradosso, che, in fondo, ne sono persuasi anche loro, e contradicono a sè medesimi quando la negano; e par loro anche troppa degnazione il negarla. Anzi le chiedo il permesso di rivolgermi a questi, e di litigar con loro, giacchè è la maniera che trovo più spiccia per esporle i motivi della mia qualsisia osservazione; o, dirò anche qui, per accennarli; poichè, se questa lettera sarà pur troppo eccessivamente lunga riguardo a ciò che vorrebbe la discrezione, sarà anche eccessivamente laconica riguardo a ciò che richiederebbe l’argomento.
«Se sentiste, dico dunque a questi molti, che un dotto Piemontese, non trovando in Torino de’ vocaboli, che possa chiamare italiani, per esprimere una quantità di cose che si nominano a tutto pasto in Torino, come in tutta l’Italia, è venuto a cercar questi vocaboli italiani a Milano, o è andato a Napoli, o a Genova, o a Bologna, sono sicuro che ridereste, vi parrebbe strano: vi pare strano anche il figurarselo. Ma quando sentite che questo dotto Piemontese va tutti gli anni a star qualche tempo a Firenze per un tal fine, non ridete punto, non vi pare punto strano. E questo, ve n’avvediate o no, è un riconoscere implicitamente che la lingua italiana è là. Dico la lingua assolutamente; perchè il supporre che ci sia una lingua in tutta Italia, ma che una parte di questa lingua si trovi solamente in Firenze, è dimenticare affatto cosa sia una lingua, è applicare il nome a ciò che non ha le condizioni della cosa. Una lingua mancante d’una sua parte è un concetto contradittorio. Una lingua è un tutto, o non è. Certo, e inevitabilmente, a una lingua mancano de’ vocaboli, l’equivalente de’ quali si trova in altre lingue; ma perchè? perchè gli uomini di quella lingua non hanno le cose corrispondenti a que’ vocaboli, e non hanno nemmeno l’occasione di parlarne. Le lingue che, appartenendo a una società scarsa di cose e di cognizioni, hanno pochi vocaboli, si chiamano povere, ma si chiamano lingue, perchè hanno ciò che è necessario a costituirle tali. E cos’è che costituisce una lingua? Cosa intende per questo nome il senso comune? Forse una quantità qualunque di vocaboli? No davvero; ma bensì una quantità (meglio un complesso; ma il termine più astratto di quantità basta alla questione presente) di vocaboli adequata alle cose di cui parla la società che possiede quella lingua, il mezzo con cui essa dice tutto quel molto o poco che dice. E quale è il mezzo con cui gl’Italiani dicono tutto quello che dicono? Ahimè! non è un mezzo, sono molti; e per chiamar la cosa col suo nome, sono molte lingue: la lingua di Torino, quella di Genova, quella di Milano, quella di Firenze, quella di Venezia, con un eccetera pur troppo lungo.»
Lingue? mi par di sentirli esclamare: lingue codeste? La lingua è quella che è comune a tutta l’Italia: codesti non sono altro che dialetti.
«Chiamateli come vi piace, rispondo: ma vediamo un po’ cosa sono in effetto, e cos’è in effetto quell’altra cosa che chiamate lingua. E per vedere e l’uno e l’altro in una volta, supponete che, per uno strano miracolo, tutti questi che chiamate dialetti cessassero tutt’a un tratto d’esistere; che dimenticassimo ognuno il nostro, e ci trovassimo ridotti a quella che chiamate lingua comune. Come s’anderebbe avanti? Come vi pare che potremmo intenderci, non dico tutti insieme, napoletani, milanesi, romani, genovesi, bergamaschi, bolognesi, piemontesi, e via discorrendo; ma in una città, in un crocchio, in una famiglia? E non dico la parte meno istrutta delle diverse popolazioni; ma le persone civili, colte, letterate: non dico le parole che il servitore non intenderebbe; dico le cose che il padrone non saprebbe come nominare. Quante cose, dico, e modificazioni e relazioni di cose, quanti accidenti giornalieri, quante operazioni abituali, quanti sentimenti comuni, inevitabili, quanti oggetti materiali, sia dell’arte sia della natura, rimarrebbero senza nome! Quante volte si dovrebbe fare come quel cherico che, obbligato, per legge del seminario, a parlar latino, e volendo chiedere a un compagno le smoccolatoie, allontanava e riaccostava l’indice e il medio, accennando insieme la moccolaia della candela, e dicendo: da mihi quod facit ita! Sapreste voi altri stendere in termini italiani nel vostro senso, cioè comuni di fatto a tutta l’Italia, l’inventario di ciò che avete nelle vostre case? Di grazia insegnatemi il come, perchè io non lo conosco. L’aver noi in quelli che chiamate dialetti, altrettanti mezzi di soddisfare, non in comune, ma in diverse frazioni, i bisogni del commercio sociale, è ciò che vi fa dimenticare questi bisogni, e gli effetti corrispondenti delle lingue, quando parlate di lingua italiana; è ciò che vi fa associare al nome di lingua, non l’idea universale e perpetua d’un istrumento sociale, ma un concetto indeterminato e confuso d’un non so che letterario. Se non v’avesse a rimaner altro, v’accorgereste se è una lingua; vedreste se ci sia ragione d’esclamare, quando sentite dar questo nome a quelle che vi fanno essere uomini parlanti. Vedreste, anzi dovreste aver veduto, che una lingua, volendo mantenere a questo termine il suo vero senso, e il solo che sia utile e applicabile, non è una quantità qualunque di vocaboli: altrimenti sarebbe vana la distinzione di lingue vive e di lingue morte; giacchè anche queste hanno, o piuttosto ne rimane una quantità, e d’alcune una grande e splendida quantità di vocaboli; e non sono certamente mancate mai persone che le conoscessero più o meno, e le adoprassero, per quel tanto che possono servire. Ma la distinzione, tutt’altro che vana, anzi necessaria, è appunto in ciò, che queste quondam lingue non hanno una quantità di vocaboli corrispondente alle cose nominate da una società in vera e piena comunione di linguaggio: che è la condizione, anzi l’essenza medesima delle lingue. E dovete vedere che l’effetto, o piuttosto la mancanza dell’effetto, è uguale in quelle lingue morte, e in quella che chiamate lingua italiana: non perchè siano cose uguali in sostanza, giacchè quelle furono lingue, e codesta non è, nè fu; ma sono uguali nella parte negativa, cioè nel non esser lingue. Che ci sia una quantità di vocaboli comuni, in diversi gradi e per diverse cagioni, a tutta l’Italia, cioè alcuni più o meno noti a una parte delle diverse popolazioni, altri universalissimamente noti, anzi unicamente usati da ogni classe di persone in tutta Italia, è un fatto manifestissimo: e l’esame di questo fatto, o piuttosto di questi diversi fatti, e delle loro diverse cagioni, potrebbe esser molto utile, perchè aprirebbe la strada a osservare quale di queste cagioni possa produrre l’effetto intero, cioè la comunione, non d’alcuni vocaboli solamente, ma d’una lingua intera. Qui però basta l’aver veduto che questi vocaboli comuni, più o meno, di fatto, non costituiscono una lingua, perchè non sono, a gran pezzo, una quantità uguale alle cose di cui parla nè la società a cui volete che appartenga, nè un’altra società qualunque. Condizione, ripeto, essenziale delle lingue; e condizione che adempiscono, in vece, naturalmente e continuamente, ma pur troppo in diverse maniere, e in diverse piccole società, quelli che chiamate dialetti. Ma, di novo, chiamateli pure dialetti, se vi piace così, perchè siate costretti a riconoscere che, per prendere il loro posto, per fare in una sola maniera e in comune l’effetto che essi fanno in diverse maniere e separatamente, ci vuole una cosa che abbia la stessa virtù, la stessa natura, che sia prodotta dalla stessa cagione; cioè un altro dialetto.
«O piuttosto, intendiamoci sul significato di questa parola; perchè ne può ricever due, molto diversi. E il mettere in chiaro l’anfibologie non è un far questioni di parole: è anzi l’unico mezzo di farle finire; come il mezzo d’evitarle sarebbe di dare addirittura alle parole un significato solo e preciso.
«O, dunque, li chiamate dialetti per significare che ognuno d’essi non è generalmente noto e usato, se non in una parte d’Italia; e allora il termine esprime un fatto indubitabile, ma che non conclude niente per la questione: allora opponendo dialetto a lingua, mettete in opposizione due cose, tra le quali non c’è opposizione; giacchè ciò che costituisce una lingua, non è l’appartenere a un’estensione maggiore o minore di paese, ma l’essere una quantità di vocaboli adequata agli usi d’una società effettiva e intera. O li chiamate dialetti, in quanto differiscano, più o meno, da una lingua comune; e allora il termine non è altro che una tremenda petizione di principio; poichè dà per supposto ciò che va esaminato: cioè che ci sia una lingua, vera lingua, comune di fatto all’Italia. Certo, se ci fosse questa lingua comune di fatto, bisognerebbe combatter ferocemente quelli che pretendessero di sostituire ad essa un linguaggio particolare..... cioè, ho sbagliato: non ci sarebbe bisogno di combatterli, perchè non ci sarebbero. Si può egli immaginare che, se gl’Italiani possedessero in effetto un mezzo comune di significare le cose di cui parlano tutti, sarebbe venuto in mente ad alcuno di dir loro: fateci un piacere, per le nostre bellezze; rinunziate a questo mezzo di cui siete in possesso e in esercizio, per prenderne un altro; morite, per resuscitare con comodo in un’altra forma; smettete, dimenticate tutti codesta lingua comune, per imparar tutti la lingua d’un cantuccio privilegiato? Si può egli immaginare, che una stravaganza simile sarebbe caduta nella mente d’un uomo solo, il quale non fosse pazzo, non che stabilirsi e regnare nelle menti di moltissimi, e passare di generazione in generazione, e dirsi comunemente lingua toscana nel senso non solo di lingua, ma della lingua degl’Italiani, principiando dal contadino che chiama ancora toscana la spiegazione del Vangelo del suo curato, fino al Tasso, che dice nella Gerusalemme: «Se tanto lice ai miei toscani inchiostri;» e ne’ Discorsi dell’arte poetica, più e più volte, «lingua toscana, favella toscana, la nostra lingua toscana,» e che, per lasciare altre espressioni simili sparse nelle sue opere, intitolò un suo dialogo: «Della poesia toscana»? Per chiunque voglia riflettere, questo solo esserci, da cinque secoli, una successione di gente, la quale afferma, più o meno esplicitamente, che la lingua toscana è la lingua degl’Italiani; anzi il solo esserci da quel tempo, altri che rifiutano espressamente, e combattono acremente una tale opinione, sarebbe un argomento indiretto, ma fortissimo, che gl’Italiani non possedano in effetto una lingua comune. Argomento superfluo, del rimanente, per chiunque voglia (cosa tanto facile) osservare direttamente il fatto.
«Vedete dunque che tutta la forza di questa parola dialetto non nasce, nella questione presente, che da una supposizione arbitraria; come avete dovuto vedere, che, considerati in sè, nella loro essenza, e astraendo da ogni relazione accidentale e estrinseca, quelli che chiamate dialetti italiani, sono di quelle cose che il senso universale degli uomini chiama lingue. Il loro difetto è d’esser molti: difetto, dico, relativamente a noi Italiani tutti quanti, che, per ragioni più che bone, vogliamo averne una. E per arrivare a questo fine, se ci s’avesse a pensare ora per la prima volta, il mezzo più naturale sarebbe, non d’immaginarsi, contro la realtà del fatto, d’esserci arrivati; ma di scegliere una di queste lingue, e accordarsi tutti gl’Italiani che non la possedono per benefizio di nascita, a impararla, per servirsene in comune. Dopo di ciò, diventerebbe cosa ragionevole il riservare a lei sola il nome di lingua, non per riguardo all’essenza, che, ripeto, è uguale in tutte; ma per quella sua particolarità importantissima d’essere la sola adottata da tutti gl’Italiani. E all’altre converrebbe di riservare il nome di dialetti, che acquisterebbe un senso preciso e vero, perchè si direbbe in opposizione, non a una lingua supposta, ma a una vera e reale, lingua niente più di loro, particolare anch’essa a un brano d’Italia, ma destinata a divenir generale; mentre esse sarebbero destinate a rimaner particolari, anzi a essere abolite da quella. Ultimo termine, al quale, anche con l’aiuto delle circostanze più favorevoli, s’arriva difficilmente e tardi; ma termine d’una strada nella quale ogni passo è un guadagno: è non solo accostarsi all’intera unità di linguaggio, ma averla acquistata in parte.
« Ridotta la questione a questo punto, o piuttosto rimessa così la questione nel suo vero punto, non rimarrebbe più altro che di vedere se gl’Italiani abbiano o non abbiano preso quell’unico partito; se tra le lingue d’Italia, ce ne sia una adottata da loro per essere la loro lingua comune, e quale sia. E potrei dire che s’è già veduto; poiché cos’altro vuol dire, cos’altro può dire il fatto accennato dianzi?
« Ma non devo dimenticarmi che qui si tratta, non solo di vedere se la cosa sia, ma se sia ammessa implicitamente anche da voi altri. Ora, anche voi altri avete detto che questa lingua c’è, e avete detto qual è, col non trovare strano che un Italiano premuroso di promovere e, in parte, d’iniziare l’unità del linguaggio in Italia, vada a Firenze, e non altrove, a prender vocaboli. So bene, e l’ho riconosciuto fino dal principio, che non intendete d’aver detto tanto. Volete solamente che, da Firenze, a preferenza dell’altre città d’Italia, si deva prender qualcosa: un qualcosa, del resto, indefinito e indefinibile, perchè repugna che da una teoria contradittoria si possano dedurre norme chiare e precise; repugna che s’arrivi a determinar logicamente cosa possa esser necessario di prendere da una parte d’Italia, per formare una lingua che si dice esistere già bell’e formata in tutta Italia. Non intendete punto di concedere che il dialetto, come dite, di Firenze deva esser la lingua degl’Italiani: intendete solamente d’attribuirgli una non so quale superiorità, di riconoscerlo come il primo tra i dialetti italiani. Ma, non avete badato a una cosa: che, quando si tratta di sostituire l’unità alla moltiplicità, se uno dice: questo sia il primo, la logica aggiunge: e l’ultimo. Vediamolo all’atto pratico, quantunque sia una di quelle cose che non hanno bisogno d’essere confermate dall’esperimento. Abbiamo, per esempio, in Italia, trenta vocaboli per significare una sola cosa conosciuta e nominata abitualmente in tutta l’Italia; e un vocabolo comune di fatto non c’è. Seguendo il vostro consiglio, o profittando del vostro permesso, ricorro prima a Firenze, e prendo il vocabolo di quella lingua. Ma fatto questo, m’avvedo subito, che non c’è più altro da fare. L’intento è ottenuto: il di più non potrebbe se non guastare. Si voleva un vocabolo; s’è trovato: si voleva uscir de’ molti, e arrivare all’uno, ci s’è arrivati. Nominato il papa, finito il conclave. Non vi domando se, in codesta gerarchia, ci sia il secondo, il terzo, o quanti altri; o se al di sotto del primo tutti gli altri siano pari. Sareste impicciati ugualmente a rispondere e l’uno e l’altro, e soprattutto a dar ragione della risposta; ma non c’è bisogno di pensare a ciò. È bastato il primo, perchè la cosa ne richiedeva solamente uno; e non resta altro da fare, che levargli quel titolo di primo, che la cosa rifiuta. »
Ma qui mi fermano di novo, e mi dicono: Adagio. Sia pur così, per i casi di cui avete parlato: è appunto il qualcosa che intendevamo di concedervi. Ma ciò che è comune di fatto a tutta l’Italia, quella gran massa di vocaboli che sono conosciuti, riconosciuti, usati dall’Alpi al Lilibeo, si dovrà egli andarli a cercare a Firenze?
« Senza dubbio, rispondo: è una conseguenza inevitabile della vostra forzata concessione. Bisogna andarli a cercare a Firenze, e poichè ci sono, e perchè, essendoci, sarebbe una vera pazzia andare a cercarli altrove. E per dimostrar che ci sono, basterà rammentarvi un fatto che nessuno certamente ha mai negato, ma che molte volte non si mette in conto, si ragiona come se non fosse; cioè che Firenze è una città d’Italia. Segue da ciò, che, nè un complesso di vocaboli, nè un vocabolo qualunque si potrà chiamar comune (volendo serbare ai termini il loro valore, come è necessario per ragionar rettamente), se non si trova anche in Firenze. Chiamando lingua italiana ciò che in fatto di lingua è comune a tutta l’Italia, intendevate forse di dire: a tutta l’Italia, esclusa Firenze? Non credo. Siccome però non si tratta di prenderci in parola gli uni con gli altri, ma di vedere cosa vogliamo in ultimo, siete sempre a tempo a dire che l’intendete così. Ma allora, dovrete rinunciare a quella magnifica e imponente denominazione di comune, e a tutta la forza che vi pare di cavarne; dovrete e cambiare il termine, e inventare una nova teoria. E siccome una teoria non può esser fondata che su de’ fatti, dovrete far vedere come esista di fatto una unità di linguaggio tra le varie parti d’Italia, meno una; come Torino e Napoli, Venezia e Genova, Milano e Bologna, Roma e Modena, Bergamo e Palermo, siano riuscite ad accordarsi nel dir tante cose nella stessa maniera, e Firenze sola rompa questa felice uniformità; come questa città, dalla quale acconsentite che si prenda ciò che, riguardo all’unità, manca a tutte l’altre, sia poi priva di ciò che tutte l’altre hanno. Ma non credo che, neppur ora, vi sentiate di voler dire una cosa simile. È vero, ripeto, che, per quanto sia strana, è sottintesa ogni momento, in una quantità di ragionamenti. Ma è una di quelle cose, che si può bensì sottintenderle, e ragionare in conseguenza; sostenerle o accettarle, quando si siano vedute in viso, non si può.
« È, dico, sottintesa tutte le volte che si oppone l’Italia intera a Firenze, e si domanda per qual ragione, con che diritto, una parte dovrà prevalere a un tutto, una città a una nazione, l’idioma d’alcuni alla lingua di tutti. Domanda, alla quale è impossibile di rispondere categoricamente, ma alla quale, per ciò appunto, è facilissimo rispondere negando quello che c’è sottinteso e supposto, cioè che Firenze possa trovarsi in opposizione con l’Italia intera. Infatti, o si tratta di casi in cui il vocabolo sia, per qualunque cagione, comune a tutta l’Italia, e quindi (meno di non dichiarare espressamente che Firenze, in materia di lingua! non fa parte dell’Italia) comune anche a Firenze; e allora, come può nascere la questione di prevalenza in ciò che è identico? O si tratta di casi in cui l’Italia abbia diversi vocaboli per significare una medesima cosa; e allora ciò che si vuole opporre a Firenze non è un tutto, ma una quantità di cose eterogenee; non è una lingua, sono molte favelle; non è una nazione intera; e, se lo fosse, non sarebbe una nazione labii unius et sermonum eorumdem, che è la sola circostanza che deva contare nella questione; allora non è il caso di sdegnarsi che si voglia far prevalere una città all’Italia, ma di riconoscere ché l’Italia ha proprio bisogno d’una città che prevalga.
« Rimane dunque fermo che ciò che è comune a tutta l’Italia, in fatto di lingua, deve trovarsi in Firenze, come, del resto, in Venezia, in Roma, in Torino, in Parma, in Brescia, in Napoli, e via discorrendo. Ora, poichè a Firenze volete pure che si deva ricorrere per cercare ciò che manca alla lingua comune, come la chiamate; perchè dovremo cercare altrove codesta lingua comune, che siamo sicuri di trovar là? Osservate, di grazia, che, volendo cercarla altrove, bisognerebbe cercarla in tutta l’Italia, e come? separando, col confronto, da tanti e tanti particolari ciò che è comune. Senza esaminare se sia un’operazione possibile, basta che la confessiate difficile e lunga; e che riconosciate, per conseguenza, che sarebbe pazzia l’intraprenderla, o il tentarla, quando ci sia i. mezzo di risparmiarla. E il mezzo è di concluder tutto a Firenze. Là non c’è altro da fare, che prendere i vocaboli di quella lingua, senza esaminare se siano o particolari ad essa, o comuni a tutta l’Italia; perchè anderà bene in qualunque maniera. O saranno comuni, e cosa si vuol di più? O saranno particolari, e cosa si può voler di meglio ? Saranno quello che ci vuole, secondo voi altri, per far che la lingua italiana abbia ciò che, per essere una lingua come l’intende il consenso universale degli uomini, dovrebbe avere.
« Direte che, tra i vocaboli particolari a Firenze, ce ne saranno anche, anzi ce ne sono sicuramente di quelli che significano cose particolari a Firenze; e che, con questo espediente di prender tutto, si dovrà. per conseguenza, prender de’ vocaboli, de’ quali noi altri italiani non fiorentini non avremo forse mai bisogno di servirci.
« Bellissimo: li prenderemo, e non ce ne serviremo, fuorchè nel caso non impossibile, che occorra anche a noi di nominar quelle cose particolari a Firenze. Vi par egli che sia un grand’inconveniente l’acquistare un po’ di superfluo (anche supponendolo rigorosamente tale), quando s’acquista tanto di necessario? che convenga di rifiutare il mezzo sicuro, e facile nello stesso tempo, di raccogliere tutt’in una volta e i vocaboli usati uniformemente in tutta l’Italia, e i vocaboli con cui dire uniformemente ciò che in tutta l’Italia si dice in dieci, in venti, in trenta maniere, perchè, adoperando un tal mezzo, si dovranno raccogliere anche alcuni vocaboli inutili o poco utili a una gran parte dell’Italia? La lingua italiana deve, secondo voi altri, resultare da due non so che, uno comune, l’altro particolare; non avevo io ragione di dire che da Firenze, anche secondo voi altri, si deve prender la lingua, poichè c’è e l’uno è l’altro? E avreste ragione di non volere, solo perchè ci verrà dietro un qualcosa di più?
« Ho detto: anche secondo voi altri; perchè non è certamente questa la vera e bona ragione; no certamente ne potrebbe derivare una tale dallo strano concetto d’una lingua a cui manchi una sua parte essenziale. La ragion vera e bona è che, quando non si ha una lingua, e la si vuole, bisogna prenderla qual’è, per adoprarne, s’intende, quel tanto che viene in taglio, come si fa di tutte le lingue; e che una lingua bisogna prenderla da un luogo, perchè una lingua è in un luogo; è, di sua natura, una cosa unita e continua, che può dilatarsi, ma purchè sia; può esser acquistata da chi non l’ha, ma purchè ci siano quelli che l’hanno naturalmente e immediatamente. E l’averla così nasce dal trovarsi, per effetto della convivenza, in quell’universalità di relazioni che produce un’universalità di vocaboli.
« Aggiungerete senza dubbio (anzi è l’obiezione che avrei dovuta prevedere la prima) aggiungerete che molti di questi vocaboli da prendersi da Firenze, riusciranno novi a una gran parte degl’Italiani. Habetis confitentem reum. Saranno novi, lo so pur troppo; e lo so tanto, che sono io che vi prego d’andare a far conoscenza con essi nel Vocabolario domestico del bravo signor Carena. Ma perchè codesta avesse forza d’obiezione, bisognerebbe che venissero per prendere il posto d’altri vocaboli significanti il medesimo, e noti uniformemente a quella gran parte d’Italiani. Anzi, dirò, anche qui, giacchè è, in altri termini, la questione di poco fa, non ci sarebbe l’occasione di fare una tale obiezione, giacchè a chi sarebbe mai venuto in mente di proporre una massa di vocaboli novi, da sostituirsi a de’ vocaboli noti, e significanti il medesimo? Abbiamo già visto, e per vederlo è bastato aprir gli occhi, che il fatto è tutt’altro. Dico di più, che si poteva averne una fondata persuasione, anche senza esaminarlo, giacchè i fatti che sono i più facili a riconoscersi nella realtà, sono anche, il più delle volte, facili a congetturarsi dalle cagioni, quando siano manifeste. Date, infatti, un’occhiata a una carta dell’Italia, e un’occhiata alla sua non di rado splendida, ma sempre dolorosa storia. Nella prima, voi ci vedete Firenze, a un di presso nel mezzo; nell’altra, una divisione, uno sminuzzamento variato ogni momento, ma perpetuo, di Stati: sola inconstantia constans. E dite un poco donde sarebbe venuto che gli abitatori di questi pezzi e bocconi d’Italia si fossero formata tra di loro un’uniformità di vocaboli, saltando Firenze; dite che opportunità, che necessità avrebbero avuta di mantener tra di loro una continua, generale comunicazione d’idee; e Firenze in un cantuccio. No: ognuno di que’ vocaboli novi per una gran parte d’Italiani, non viene a prendere il posto d’un vocabolo noto ad essi, ma di molti vocaboli noti, uno a una parte di quella parte, uno a un’altra, e via discorrendo. Saranno novi! Sicuro: quando la cosa manca, bisogna o farne di meno, o adattarsi a prender del novo. Non si tratta qui di scegliere tra un novo e un noto, ma tra un novo, da potere, quando si voglia, far diventar noto, e il nulla; giacchè il diverso equivale al nulla, per chi cerca un identico.
Ricapitoliamo. Perchè si dice (e, del resto, con una bonissima ragione) lingua italiana: voi volete che la cosa significata da questo nome deva esser necessariamente una cosa comune di fatto a tutta l’Italia, senza cercar poi se i vocaboli comuni, in qualunque maniera, a tutta l’Italia costituiscano una lingua. Siccome però l’uomo può bensì (fino a un certo segno e nella sfera delle sue cognizioni) chiamare, anche lui, le cose che non sono come quelle che sono, ma con la differenza, che non vengono; siccome, per conseguenza, dovete par vedere che la cosa da voi chiamata lingua non ha di che produrre gli effetti veri, interi, naturali, essenziali, di lingua; così vi trovate costretti a concedere, ad approvare che le si cerchi un sussidio. E in questa maniera, dopo averla proclamata lingua, le imponete una condizione alla quale nessuna lingua che lingua sia, è stata nè sarà mai assoggettata; giacchè chi ha mai compresa nel concetto di lingua la necessità d’accattar vocaboli, non per arricchirsi, ma per essere? non per accrescere le sue operazioni, ma per farle? non per nominar cose novamente pensate, o scoperte, o venute di lontan paese, ma cose di cui parlano tutti quelli che la possedono? »
« Come poi sia nato questo concetto singolare d’una lingua che deve ricevere il compimento del suo essere da un dialetto; se questo sia stato veramente il concetto primitivo, o un ripiego immaginato più tardi da persone che, trovando quel dialetto accettato generalmente in Italia per lingua dell’Italia, non volevano accettarlo anche loro come tale, e insieme non vedevano, nè come poterlo far rifiutare affatto dagli altri, nè come se ne potesse far di meno; sarebbe una ricerca interessante; ma non è punto necessaria per aver ragione di dire che, con questo, venite a negare in fatto l’essere di lingua alla cosa a cui ne date il nome. Quando poi si viene un po’ più al particolare, e si cerca che ufizio deva fare l’altra cosa accettata da voi, solamente come sussidiaria, si trova che non può fare se non quello che conviene al suo essere, e al nostro intento, cioè l’ufizio di lingua; giacchè e essa è una lingua e non altro, e ciò che vogliamo tutti, se ci rendiamo conto di ciò che vogliamo, è una lingua sola da sostituire alle molte che pur troppo abbiamo. Tanto una realtà, appena appena le si conceda un po’ di posto accanto a una chimera, ha forza di scacciarla, e di prendere il posto intero, se, dopo averle messe insieme, si mettono anche alle prese!
« Scegliete dunque una delle due, per non rimanere in contradizione con voi medesimi. O volete che ci sia una lingua comune di fatto a tutta l’Italia; e ricredetevi, maravigliatevi d’aver trovata cosa naturalissima, che un dotto Italiano andasse a cercar vocaboli a Firenze: ridete ora per allora. Ma per aver ragione di ridere, dimostrate poi, anzi affermate semplicemente, se ve ne sentite, che, per significar le cose comuni a tutta l’Italia, ci sono vocaboli comuni in tutta l’Italia, e che, per conseguenza, avrebbe potuto, senza prendersi tanto incomodo, trovarli in Torino. Che dico trovarli? Li doveva sapere; giacchè cosa diamine vorrebbe dire una lingua comune a tutta l’Italia, e nella quale un dotto Italiano non sapesse nominare tante cose che gli occorre di nominare continuamente? O non vi sentite d’affermare, nè, per conseguenza, di ridere; e allora riconoscete che la vostra lingua italiana non ha ciò che è essenziale alle lingue, ciò che ognuno s’aspetta di trovare in ognuna, ciò che è implicito nel vocabolo medesimo; in somma che non è una lingua.
« Ho detto: la vostra; perchè non si tratta qui di cambiare una denominazione, ma di levarle un falso significato. Non si tratta di rinunziare al carissimo nome di lingua italiana, nome che l’Europa c’insegnerebbe, quando non l’usassimo noi, come chiama lingua spagnola quella che gli Spagnoli chiamano ancora castigliana; nome che ragionevolmente è prevalso a quello di lingua toscana, il quale, nè corrispondeva rigorosamente al fatto, Perchè la Toscana ha bensì lingue pochissimo differenti, ma non ha una lingua sola; nè esprimeva in alcuna maniera l’intento, che è d’avere una lingua comune all’Italia intera. Si tratta d’applicare quel nome a una cosa reale, e dalla quale si possa, per conseguenza, aver l’effetto che si desidera; a una cosa, alla quale convenga il sostantivo prima di tutto e poi anche l’aggettivo; a una cosa che sia e lingua e italiana; lingua per natura, e italiana per adozione, perché voluta dagli Italiani per loro lingua comune. E si tratta forse di dare ora per la prima volta questo senso alle parole: lingua italiana? No, di certo; chè, se è un pezzo che sono adoperate per combattere quella lingua reale, è anche un pezzo che sono adoperate per significarla. E per addurne un solo esempio, il Tasso citato poco fa, in un luogo del secondo discorso dell’arte poetica, dopo aver detto che molte cose, le quali stanno bene nella favella greca o nella latina «suonano male nella toscana,» aggiunge: «Ma fra l’altre condizioni che porta seco la nostra favella italiana, ecc.» adoprando così promiscuamente e indifferentemente le due locuzioni, «favella toscana, favella italiana,» come affatto sinonime.
« Non mancò poi anche chi le dichiarasse espressamente sinonime. E per citare anche qui uno scrittore non fiorentino, nè toscano, ma di Bosisio, sul lago di Pusiano, nel contado milanese, Giuseppe Parini dice, (nella seconda parte de’ Princípi delle Belle Lettere) che, per gli scritti principalmente di Dante, del Petrarca e del Boccaccio, la lingua toscana è stata promulgata in Italia, «talmente poi che è divenuta comune a tutti gli Italiani, e da ciò ha il nome più generale acquistato d’italiana.» Ecco come il fatto si manifesta, alla prima, nella sua forma propria e naturale, a chi lo guarda con un occhio tranquillo, e non intorbidato da false visioni. Lingua diventata comune per consenso, affinchè diventi comune, quanto è possibile, per possesso; diventata italiana di nome e affinchè diventi, per quanto è possibile, italiana di fatto, e perchè lo è già diventata in parte. «Chè questo pigro e svogliato, ma non interrotto consenso; combattuto e rinnegato con formali e risolute parole, ma confermato indirettamente e involontariamente, con altre parole, da que’ medesimi che lo rinnegano; consenso tutt’altro che aiutato da circostanze favorevoli, ma non potuto abolire dalle circostanze contrarie, ha pur dovuto produrre qualche effetto, anzi un effetto mutabile, quantunque ben lontano dal corrispondere all’intento. Vedete infatti quanta parte di quella che chiamate lingua comune, voglio dire quanti vocaboli noti, più o meno, alle persone colte di tutta l’Italia, e usati da questa, negli scritti principalmente, non siano altro che vocaboli comuni in Firenze, cioè usati da ogni classe di persone, usati in ogni circostanza, usati unicamente. Se, per esempio, vi domando come sapreste nominare in italiano quella cosa che alcuni di noi chiamano erbion; altri, arveje; altri, rovaiott; altri, bisi; altri, pois; altri, poisci; altri con altri nomi ugualmente strani per una gran parte d’Italia, rispondete tutti a una voce: piselli. Che è appunto il vocabolo usato in Firenze, e scrivendo e parlando, e dal padrone e dal servitore, e dal georgofilo e dall’ortolano, e nel palazzo Riccardi e in Mercato vecchio. E questo è un esempio tra mille, o, grazie al cielo, tra alcune migliaia. Ma se volete vederne una certa quantità tutt’in una volta, nulla è più a proposito di questo Vocabolario domestico, saggio prezioso d’un’opera necessaria. In esso voi trovate, insieme a que’ vocaboli novi, i quali (pare impossibile!) vi facevano uggia, anche dei vocaboli noti a noi altri e in tutta Italia, come il citato dianzi; e fiorentini gli uni e gli altri, meno poche eccezioni; tanto poche da potersi non tenerne conto. E che altro sono questi vocaboli noti, se non una parte di lingua fiorentina, diventata italiana anche di fatto? E questo per diversi mezzi, imperfetti, sconnessi, in parte opposti, che non importa qui d’enumerare; ma per la sola cagione di quel quantunque pigro e svogliato e combattuto consenso.
« È vero, verissimo che non sono questi i soli vocaboli comuni, in una o in altra maniera, a tutta l’Italia; ma cos’è il rimanente? Ho detto poco fa, che l’esame di questo fatto, messo sempre in campo, e non mai analizzato; sarebbe molto utile; e dovevo dire che è necessario; se si vuol trattare una volta la questione davvero, e quindi finirla; giacchè come si potrà mai trattare e finire una questione di fatto, se non s’esamina il fatto medesimo? se, parlando d’un fatto moltiplico e composto, non si guarda di quali elementi sia composto, e si crede che basti indicarlo con un termine collettivo, come: vocaboli comuni? Vedete dunque se i vocaboli comuni a tutta l’Italia non sono infatti un resultato di varie cagioni, e più particolarmente, se non si riducono in ultimo a quattro categorie.
« O sono vocaboli comuni materialmente a tutta l’Italia, perchè si trovano in tutti gli idiomi d’Italia, quantità accidentale e circoscritta, che non è, nè una lingua intera, nè parte d’una lingua sola, bensì di molte.
« O sono vocaboli nati in un luogo qualunque d’Italia, o anche, e per lo più, di fuori, e diffusi per tutta l’Italia insieme con la notizia delle nove cose significate da essi, per esempio, macchine, scoperte, istituzioni. opinioni: altra quantità accidentale e circoscritta, che non è una lingua, nè parte d’una lingua sola, ma di molte, e spesso di lingue le più disparate.
« O sono vocaboli diventati comuni a tutta l’Italia per essere stati messi fuori da scrittori, i libri de’ quali siano letti in tutta l’Italia; ed è ciò che da molti s’intende per lingua italiana, ora esclusivamente, ora insieme con dell’altre cose, perchè le teorie arbitrarie non possono star ben ferme in un punto; è ciò che, (tanto delle parole si può far ciò che si vuole!) fu anche chiamato lingua scritta. Ma, se vogliamo badare alle cose, e alla ragione delle cose, quantità accidentale e circoscritta anch’essa, e che non è una lingua, nè parte d’una sola lingua, nè potrà mai arrivare allo stato di lingua. E ciò per la ragione stessa, che non c’è mai potuta ritornare la latina morta, la quale, per quanto sia stata scritta dopo, è rimasta e rimane morta, che è appunto dire non più lingua; cioè per non esserci una società effettiva e intera, che l’adopri a tutti gli usi della vita. Chè lo scrivere non è, nè può essere l’istrumento d’un pieno commercio sociale, non c’essendo, e non ci potendo essere tra scrittori e scrittori quella totalità di relazioni che produce quella totalità, più o meno grande, di vocaboli, che si chiama una lingua. Quantità, ripeto, accidentale e circoscritta anch’essa, e alla quale non può convenire in nessuna maniera, e per nessun titolo, il nome di lingua, che, non propriamente, ma per un traslato manifesto e innocuo, s’adopra in tutt’altre locuzioni, come quando si dice: la lingua della chimica, la lingua dell’arti, la lingua del foro, e simili. In questi casi quel nome si trasporta, non senza un’analoga logica, e certamente senza pericolo d’equivoco, a una collezione parziale, ma sistematica e, relativamente, una e intera, di vocaboli; e le parole che ci s’aggiungono per indicare la materia particolare a cui si circoscrive il traslato, avvertirebbero, se ce ne fosse bisogno, che non si pretende di significare una lingua davvero. La formola «lingua scritta,» non è che un vero abuso di parole, che enuncia e propaga un concetto, non metaforico, ma falso. Enuncia un concetto falso, perchè trasporta quel nome, con l’intento di serbargli il suo significato proprio, e lo trasporta, non a una collezione, ma a un miscuglio di vocaboli, non intero in nessun senso, e vario nello stesso tempo; giacchè, dov’è la cagione per cui negli scritti devano entrare tutte le cose di cui occorre di parlare? e dov’è la cagione per cui da scrittori aventi diversi idiomi, quelle cose dovrebbero esser nominate in una maniera uniforme? E propaga questo falso concetto, perchè, lasciando al nome la nozione d’universalità, che gli è naturale, e non specificando che un modo, induce molti a creder di credere che quel fortuito e vario miscuglio sia una lingua. Dovrebbero, è vero, esaminare se la scrittura sia il modo naturale, essenziale, formale e adequato (che è tutt’uno) delle lingue; ma la potenza delle formole false, anti-logiche (come questa, che col sostantivo predica un tutto, e con l’aggettivo, alcune cose) viene appunto dall’esserci molti che non fanno di questi esami.
« O finalmente sono vocaboli fiorentini diventati più o meno comuni a tutta l’Italia, e questi soli sono, non meri fatti d’unità, ma fatti iniziali d’un’intera unità; sono una parte già acquistata d’un tutto, la vanguardia, dirò così, d’un esercito già formato. Sono vocaboli venuti o presi da un luogo dove c’è una lingua da potersi e diffondere e prendere; con de’ mezzi diversi bensì, ma concordi, perchè diretti da un solo principio, e a un solo e generale intento. E dico una lingua fatta: non fatta insieme e da farsi, come la vostra. Contradizione, del resto, comune a tutti i sistemi che propongono per lingua italiana tante cose diverse, e nessuno che abbia la vera ed unica cagione efficiente delle lingue. Ciascheduno vuol provare che la sua lingua c’è; quando poi si tratta di trovarla per servirsene, ciascheduno insegna una maniera, anzi più maniere di comporla. Promettono una lingua esistente, e danno una lingua possibile, cioè possibile secondo loro; giacchè com’è possibile una lingua senza una società che l’adopri a tutti gli usi della vita, val a dire una società che la parli? »
Quando ho chiesto all’indulgente, non meno che dotto e benemerito signor Cavaliere Carena il permesso di disputare con altri, per dir così, in sua presenza, e insieme gli ho chiesto anticipatamente scusa della lungaggine, non prevedevo, per dir la verità, che sarebbe arrivata a questo segno. Perdoni, di grazia, ogni cosa al mio desiderio di rendere omaggio, non al solo, ma a un essenzialissimo merito del suo Vocabolario, cioè l’essere il più fiorentino di tutti, e d’accennarle il perchè mi pare che produrrebbe ancora più pienamente e sicuramente l’effetto che si deve volere, se fosse affatto fiorentino. Per qual ragione infatti il suo lavoro potrà esserci, e ci sarà, spero, tanto utile, se non perchè ci somministra tanti e tanti mezzi di dir tutti in una sola maniera ciò che diciamo tutti, ma in tante maniere diverse? E per qual ragione ha potuto somministrarci tutti questi mezzi d’unità, se non perché l’autore è andato a prenderli da una lingua viva e vera, dove ci sono naturalmente e necessariamente? Ma quando, per esempio, trovo il vocabolo Panna accompagnato da quattro altre denominazioni, non posso a meno di non dire tra me, come lo dico a Lei con una sincerità ardita, perché viene dalla stima: cosa ci giova, in questo caso, d’avere un’abile e esperta guida, se ci conduce a un crocicchio, e ci dice: prendete per dove vi piace? Cosa ci giova in questo caso, che ci sia chi ha riconosciuto con ottimo giudizio, e acquistato con nobile fatica il mezzo di sostituire l’unità alla deplorabile nostra moltiplicità, se sostituisce una moltiplicità a un’altra?
Voglio forse dire con questo, che nelle lingue non ci siano de’ sinonimi propriamente detti? o che un vocabolario non deva registrarli? Tutt’altro. I sinonimi sono un inconveniente quasi inevitabile delle lingue, e un vocabolario è il raccoglitore, e per dir così, il relatore de’ fatti d’una lingua; e deve perciò ammettere anche quelli che si può ragionevolmente desiderare che si cambino, come è appunto il fatto d’esserci più d’un vocabolo per significare una medesima cosa. Ma, se l’aver dei sinonimi è un inconveniente inevitabile delle lingue, è anche un inconveniente rarissimo: intendo sempre delle lingue davvero. Infatti, un piccol numero di sinonimi è compatibile con una piena e continua comunione di linguaggio; giacchè, da una parte, non è difficile che molti, o anche tutti, conoscano alcune poche coppie di parole aventi un medesimo significato; dall’altra, qualche parola sconosciuta a chi la sente insieme con molte altre conosciute, o si fa intendere per l’aiuto del contesto, o non può interrompere, se non momentaneamente, quella comunione. Se in vece i sinonimi d’una lingua fossero in gran numero; o bisognerebbe che coloro i quali la possedono e l’adoprano, conoscessero il doppio, o che so io? de’ vocaboli necessari alle loro relazioni reciproche, o non riuscirebbero a intendersi. Delle cagioni particolari poi fanno spesso, che una di quelle locuzioni sinonime prevalga, in più o meno tempo, e rimanga sola; mentre altre cagioni particolari fanno che nascano de’ novi sinonimi: dimanierachè ce n’è sempre alcuni, ma sempre alcuni solamente. L’uso vivente di Firenze non ha cinque denominazioni per significare la panna: je ne le sais pas, mais je l’affirme, come diceva quello. Lo so dell’uso di Milano, l’affermo di quello di Firenze e di tutte l’altre città d’Italia, perchè una tale moltiplicità non è compatibile col parlar che si fa della cosa continuamente tra persone d’ogni classe. Non dico da persone d’ogni classe: chè questo accade di molte anzi di moltissime cose, non solo in Italia, ma nel mondo. Dico tra persone d’ogni classe, cioè in una società effettiva e continua, che è ciò che fa esser le lingue. E oso concludere che se, in questo caso e in qualche altro, Ella si fosse ristretta al solo uso di Firenze, e s’intende l’uso attuale e vivente, cl avrebbe, anche in que’ casi, come nella più parte, data la cosa di cui abbiamo bisogno: un vocabolo da prendere, e non de’ vocaboli tra i quali scegliere. Che questa facoltà di scegliere è appunto la nostra miseria: è la conseguenza del non avere, come la facoltà di congetturare è la conseguenza del non sapere. Ci sono bensì di quelli che chiamano libertà il non avere un vocabolo certo, esclusivamente proprio, e quindi obbligatorio, per significare una cosa; e chiamano ricchezza l’essercene vari, più o meno probabili, dirò così, quale per una ragione, quale per un’altra. Ma non c’è da maravigliarsene; per svolgere o per sostenere un falso concetto, è indispensabile di falsificarne molt’altri.
Ma cosa avrebbero detto?
Oso rispondere che, o non avrebbero detto niente, o avrebbero detto tanto poco da non disturbare sensibilmente il bon effetto del suo lavoro. Molte volte quell’errore medesimo (e ne parlo come d’un solo errore, perchè i diversi sistemi in fatto di lingua italiana, per quanto differiscano ne’ particolari, sono simili nel voler tutti qualche cosa che non è una vera lingua, e nel concedere o nell’attribuire qualcosa di particolare a quella vera lingua che non vogliono riconoscere per tale) quell’errore medesimo, che nel campo della teoria, sarebbe andato avanti, con imperturbabile coerenza, a negare una verità, esita, si ferma e, se non rende l’armi, le ripone, quando si veda comparire davanti quella verità realizzata in un fatto, e molto più in un ordine, in un complesso di fatti. E codesto é uno di que’ casi, se ce ne può essere. Il suo Prontuario, anzi codesta sola parte del suo Prontuario non può a meno di non produrre due effetti efficacissimi a prevenire ogni seria e ostinata opposizione. Effetti che ho già accennati in diverse maniere; ma che le chiedo il permesso d’accennar di novo, come un sunto di tutta questa lettera.
Uno è di far sentire che, della cosa che ci dà, c’era un vero bisogno. Chè, per quanto i sistemi abbiano potuto far perdere di vista cosa sia una lingua davvero, e quali siano i suoi effetti essenziali e necessari, una raccolta di vocaboli significanti cose comuni, usuali, si presenta addirittura, e con immediata evidenza, come una parte essenzialissima di ciò che si vuole quando si vuole una lingua. Que’ medesimi i quali, se parlassero in astratto di ciò che deva entrare nel vocabolario della lingua italiana, penserebbero a ogni cosa prima che a questo, anzi non ci penserebbero punto, sono come costretti a pensarci, al vedersi comparir davanti una schiera di tali vocaboli, che pare che gli dicano: Ebbene? Volete dire che noi siamo roba che non ha che fare con una lingua? Vi sentireste di consigliare alle nazioni che hanno veri vocabolari di vere lingue, di cacciarne fuori i nostri equivalenti? O superflui là, o mancanti qui: quale di queste due proposizioni vi pare la vera?
L’altro effetto è di far pensare all’assoluta, intrinseca, incurabile impotenza de’ vari sistemi a soddisfare un tal bisogno. E quella che hanno chiamata lingua del bon secolo, e che in fatto non è altro se non que’ tanti scritti che rimangono d’un secolo; e una categoria di scrittori; e tutti gli scrittori insieme; e il tal vocabolario; e tutti i vocabolari; e il parlare di tutte le colte persone d’Italia; e quella qualunque cosa, o quelle qualunque cose, che si possano o si vogliano intendere per le parole: Illustre, cardinale, aulicum Vulgare in Latio, quod omnis latice civitatis est, et nullius esse videtur; e se c’è altro, son tutte cose, non solo incapaci, ma evidentemente incapaci di somministrar l’equivalente del suo Vocabolario domestico, come degli altri importanti e utili lavori che aspettiamo da Lei. Se delle persone a stomaco voto (mi passi una similitudine non troppo nobile, ma abbastanza spiegante) stessero disputando a chi tocchi a fare il desinare, e venisse uno a dire: è in tavola; e quelle persone entrando nella stanza da mangiare, vedessero una tavola apparecchiata davvero, con delle vivande davvero; si può credere che, dimenticando le dispute, si metterebbero a mangiare, e sarebbero tanto meno disposte a far dell’eccezioni, quanto più la vista di quelle vivande gli obbligasse a riflettere che tutt’intenti a sostenere ognuno il suo cuoco, nessuno aveva pensato al mezzo di far la spesa. E non mi par da temere che la forza di que’ due effetti sarebbe stata minore, se il Vocabolario fosse stato in tutto e per tutto fiorentino; crederei anzi, che quella maggiore semplicità e risolutezza avrebbe fatta sentire di più l’idoneità del mezzo adoprato da Lei, e l’inettitudine degli altri.
M’avvedo un po’ tardi, che il chiederle scusa della lungaggine è stato quasi un chiederle il permesso di fare un’altra lungagnata. Il piacere di parlar della cosa, e il piacere rarissimo di parlarne con chi ne è tanto benemerito, m’ha portato via una seconda volta. Non posso però finire senza toccare, almeno di fuga, il merito delle definizioni nette e precise, frutto di molta e tutt’altro che materiale fatica; e nelle quali sono incidentemente messi in atto altri vocaboli o poco noti, o anche sconosciuti in una gran parte d’Italia; dimanierachè, spiegando il Vocabolario, l’accrescono. E non che io non creda molto utile per diffonder la lingua, l’espediente de’ vocabolari de’ diversi dialetti (ben inteso, quando ai diversi dialetti si contrapponga in tutti, un solo dialetto); ma non si può non riconoscere il vantaggio speciale del metodo prescelto da Lei; metodo, col quale il Vocabolario diventa addirittura, e senza bisogno d’altri lavori intermediari, utile a tutta l’Italia; e può diventarlo anche in una seconda maniera, servendo alla compilazione di quegli altri.
Così fosse piaciuto, o almeno piacesse una volta ai Fiorentini di darci (cosa comparativamente tanto facile per loro) un vocabolario generale della loro lingua! dico un vocabolario come il francese dell’Accademia, francese, con quella ricchezza e sicurezza d’esempi presi dall’uso d’una città; cioè da una lingua una, intera, attuale. Chè un tal fatto avrebbe levato o leverebbe di mezzo, ancora più interamente e durevolmente, ogni opposizione de’ sistemi; un tal vocabolario, offrendo agl’Italiani un vero equivalente delle loro diverse lingue, avrebbe acquistata o acquisterebbe immediatamente quell’autorità che non manca mai a ciò che è richiesto da un vero bisogno e proporzionato ad esso, e praticamente applicabile, natum rebus agendis. E senza dubbio un tal vocabolario sarebbe subito tradotto in tutti gli altri idiomi d’Italia; chè l’utilissimo espediente sarebbe diventato tanto più facile, quanto più efficace. Infatti, chi domandasse agli autori de’ diversi vocabolari originali, che abbiamo di questa specie, qual differenza abbiano trovata nel comporre le due parti di tali lavori, si può esser sicuri della risposta; cioè che, per raccogliere i vocaboli e i modi di dire de’ rispettivi idiomi particolari, non hanno avuto quasi altra fatica da fare, che rammentarsi e mettere in carta; ma per trovare i vocaboli e modi di dire corrispondenti in italiano, c’è voluto, eh che studio! e spesso per non riuscire che a mettere a fronte del certo che avevano negli idiomi particolari, un probabile italiano, o vari probabili, che è non so se lo stesso, o peggio. Chè tale è la differenza che passa necessariamente tra il trovare una cosa che è, e il cercare una cosa che è supposta dover essere.
Ma per ora, e per fino Dio sa quando, quella cosa tanto desiderabile non è da sperarsi. I Fiorentini, su ciò che forma, o piuttosto che dovrebbe formare la vera questione, la pensano come i loro avversari; e in verità, quando si osserva quanto accessorie e inconcludenti siano le differenze tra gli uni e gli altri, come le dispute siano quasi sempre andate girandolando intorno a un più e un meno, mentre la questione doveva essere d’un tutto, non si sa trovare altra cagione dell’animosità di tali dispute, che quelle sempre deplorate, sempre maledette, e sempre coltivate rivalità municipali.
E qui non posso tenermi dall’addurne un esempio, tanto notabile quanto doloroso, che mi s’affaccia alla mente. Quante volte, in queste nostre perpetue, perchè mal poste, questioni sulla lingua, non è stata citata l’autorità del Tasso contro la pretensione attribuita ai Fiorentini, d’esserne loro i possessori! Dico di quel Torquato medesimo che, quando parlava a sangue freddo, e ex abundantia cordis, diceva a tutto pasto: lingua toscana. E cosa s’allega del Tasso su questo proposito? Queste parole: «Mi contento, che se la vivacità dei Fiorentini ingegni dalla natura mi è stata negata; non m’è stato almeno negato il giudizio di conoscere, che io posso imparare da altri molte cose, assai meglio, ch’essi per sè non sono atti a ritrovare, e quella favella stessa non che altro, la quale essi così superbamente appropriandosi, così trascuratamente sogliono usare.» E dove si trovano queste parole? In un qualche trattato sulla lingua italiana? O in una qualunque altra opera del Tasso, dove il soggetto sia discusso incidentemente, ma, più o meno, alla distesa? Oh appunto! Sono le prime e l’ultime su quell’argomento, e si trovano in un «Dialogo del piacere onesto», dove un interlocutore riferisce due aringhe contradittorie, dette alla presenza del principe di Salerno, una da Vincenzo Martelli, suo maestro di casa, l’altra da Bernardo Tasso, suo segretario, sul punto se il principe sullodato dovesse, o no, accettare un’ambasceria a Carlo V, in nome della città di Napoli. Il Martelli principia dal dire che lui non è «d’una piccola e ignobile città del Regno di Lombardia;» e segue con lodi a Firenze, e con ingiurie almeno secondo l’intenzione, a Bergamo. Bernardo Tasso (giacchè quelle parole sono messe in bocca sua) risponde con lodi a Bergamo, e con ingiurie dell’egual merito a Firenze: e «i ladroni di Catilina, e i villani di Certaldo e di Figline, e l’arroganza delle repubbliche popolari, e i Bacci e i Valori che questionano della seta col setaiolo, e del velluto col tessitore:» che non doveva venire in campo anche la lingua? È doloroso, ripeto, il pensare che quelle triste parole messe fuori dal Tasso (siano del padre o sue) gli abbiano suscitate contro tante critiche, che per lui furono vere e crudeli tribolazioni: se vivesse ora, avrebbe dovuto far la corteccia più dura. Ma è anche strano che una sentenza, nuda affatto di prove, e detta in un’occasione dove l’intento principale e certo non era di definire, ma di pungere; una sentenza espressa, per una conseguenza molto naturale, in una forma più oratoria che logica, sia stata tante volte allegata con tanto trionfo dagli uni, e sentita con tanto sgomento dagli altri. In verità, si direbbe che, in una questione, le ragioni siano un di più, e che non ci sia nemmeno bisogno d’enunciarla in termini chiari e diretti. Infatti, cosa vuol dire superbamente? Senza ragione? o senza modestia? E non si dà, anzi non è frequente il caso, che uno usi trascuratamente ciò che s’appropria giustamente? E, certo, il Tasso non prevedeva che quella sentenza sarebbe diventata una ragione essa medesima. Non erano due italiani che discutessero sulla lingua; era un bergamasco e un fiorentino, che facevano a beccarsi. Se quel benedetto principe di Salerno avesse preso un maestro di casa da tutt’altra parte d’Italia, mancava alla questione della lingua un argomento, e de’ più ricantati. È vero che ne rimanevano molt’altri dello stesso valore.
Del resto, e per tornare al proposito, non so se, in altri tempi, i Fiorentini si siano mai appropriata davvero la lingua italiana; se siano mai stati persuasi, fermamente e coerentemente, d’averla essi, viva e vera e intera. Quello che mi pare fuor di dubbio è che, nel momento presente sono pur troppo lontani dal pretender tanto. Ammettono, cioè suppongono anch’essi una certa lingua nominale, che intera non l’ha nessuno, ma loro n’hanno più degli altri; val a dire hanno la porzione più grossa d’un tutto che non è; una certa lingua, della quale non sono i possessori, ma nella quale sono i primi. E come il conceder loro questo primato pare ad altri giustizia; così il contentarsene pare a loro moderazione: due false virtù, che sono in effetto due modi d’un vero errore.
E questo esser la vera lingua così debolmente riconosciuta da tutti, anzi riconosciuta e rinnegata nello stesso tempo, viene principalmente dalla mancanza di circostanze che ne promovano la diffusione e il dominio. Chè, dove gli uomini non sono aiutati o anche forzati dalle circostanze a stare in proposito, facilmente l’abbandonano o lo alterano. All’opposto, dove c’è un tale aiuto, la cosa cammina da sè, senza bisogno di ragionamenti, anzi malgrado i ragionamenti e le proteste in contrario. Per citarne un esempio, e d’uno scrittore tutt’altro che oscuro, il Nodier, tra tante altre cose singolari in materia di lingua, esce in questo lamento sulla sua: Il est peut-être malheureux, et on ne sauroit trop le répéter, que le Dictionnaire de la langue françoise n’ait été jusqu’ici que le Dictionnaire de Paris (Examen des Dictionnaires, etc.; alla voce Bresse). Gli rimproverava d’essere ciò che dev’essere, cioè il vocabolario d’una lingua reale, e d’una lingua che, per ciò appunto, ha potuto diffondersi tanto, anche fuori di Francia; giacchè, se le cagioni del diffondersi una lingua possono esser molte e diverse, la condizione prima e sine qua non, è che quella lingua sia. Avrebbero una bella lingua i Francesi, se, perchè si chiama francese, si fossero immaginati di doverla e di poterla prendere da tutte le città di Francia. Certo, in quelle città c’è molta lingua francese, ma perchè c’è venuta da un luogo: è la lingua di Parigi trapiantata e stabilita accanto a molte; e si va sempre più sostituendo alle molte, perchè è una. Ma in Francia tali proteste rimangono a terra, soffogate dalla forza e, direi quasi, dal rigoglio del fatto. Noi, alla mancanza d’un simile aiuto, dovremmo supplire con quelli della riflessione e della volontà; e, cosa, del resto, tutt’altro che singolare, accade per l’appunto il contrario. L’avere un motivo di più diventa un ostacolo; il non realizzarsi la cosa da sè, e come spontaneamente, ne rende confuso e incerto il concetto. Pare strano di dover riconoscere per lingua italiana una che non si vede scorrere, come per un pendio naturale, in tutta l’Italia; e quelli che in Francia rimangono sterili lamenti contro un fatto, sono, dà noi, impedimenti efficacissimi a un da farsi.
Non voglio dire però, che con quegli aiuti artifiziali si possa supplire adequatamente a quel grandissimo, anzi unico, delle circostanze, accennato dianzi; non voglio dire che, per essi, la lingua d’una città d’Italia possa diventare italiana di fatto, quanto quella di Parigi è, e va sempre più diventando, lingua francese. Ma è il solo mezzo d’accostarsi, più che sia possibile, a un tal resultato. In mancanza del sole, disse il Franklin, accender le candele.
Ma ecco che, per la terza volta, entravo, senza avvedermene, nell’uno via uno. Fortuna che il foglio m’avverte di finire: giacchè ci vorrebbe troppa faccia tosta per avviarne un altro. Tronco dunque, e in qualche maniera concludo, terminando come ho principiato, col ringraziarla. Poichè que’ medesimi ai quali sarebbe facile il darci la cosa di cui abbiamo così gran bisogno, nè l’hanno voluto, nè par Bloccoche vogliano volere, tanto più dobbiamo esser grati a chi ha superata la difficoltà, e durata volentieri la fatica di procurarcela, almeno in parte, e in una parte importantissima. Ai ringraziamenti vivissimi aggiungo vivissime preghiere per la continuazione del benefizio, e a tutto le sincere proteste dell’alta stima e del profondo rispetto, col quale ho l’onore di dirmele
Devotissimo, obbligatissimo servitore |