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LETTERA

al Signor Professore

GIROLAMO BOCCARDO

INTORNO A UNA QUESTIONE

DI COSÌ DETTA PROPRIETÀ LETTERARIA

RIVEDUTA E CORRETTA DALL’AUTORE



Illustre Signore,

Non le renderò grazie de’ modi cortesi coi quali Ella ha combattuta la mia causa nel Parere da Lei pubblicato sulla Questione legale tra il signor Le Monnier e me: era una cosa naturale in Lei, e inseparabile dalla sua dignità. Bensì le lodi che una gratuita indulgenza Le ha suggerite a mio riguardo, m’impongono il dovere d’esprimerle una viva riconoscenza, quantunque in realtà mi confondano, e la coscienza non mi permetta d’accettarle. Un simile dovere mi viene imposto dall’aver Lei avuta la bontà di inviarmi il suo opuscolo, accompagnandolo con una lettera, anch’essa, troppo gentile. E non so s’io non presuma troppo; ma mi pare che l’aver cosi trovato un avversario benevolo, dove avrei potuto temer solamente un avversario forte e illustre, mi dia, in certa maniera, un titolo per trattar direttamente con Lei la mia causa, e appellare, dirò così, da Lei a Lei, mi pare, dico, che in questo procedere Ella sia per vedere, in mezzo alla contradizione medesima, una continuazione, per me onorevolissima, di boni ufizi.

Con questa fiducia, entro addirittura, nell’argomento.

E prima di tutto, trascrivo, meno qualche parola indifferente all’argomento medesimo1, l’Avvertenza premessa da Lei al Parere, e che torna opportuna a me ugualmente per render conto delle stato della causa, fino a un certo tempo. Aggiungerò poi un breve cenno de’ fatti posteriori, necessari a sapersi per conoscere lo stato attuale della causa medesima, e d’una parte almeno de’ quali Ella non ha probabilmente notizia.


AVVERTENZA




«Alessandro Manzoni pubblica nel 1827 i suoi Promessi Sposi. — Non esistendo allora fra i vari Stati d’Italia alcuna convenzione per guarentire agli Autori la proprietà letteraria, si fanno... in Piemonte, in Toscana ed in ogni altra parte della penisola, molte ristampe... senza chiedere l’assenso dell’Autore. — Nel 1840 interviene fra il Piemonte, l’Austria e la Toscana un patto internazionale, per assicurare la proprietà letteraria degli scrittori in questi vari stati. — Posteriormente, Manzoni corregge, rifà i Promessi Sposi. — Felice Le Monnier eseguisce una nuova edizione del romanzo, non già su quella ultimamente modificata dall’Autore e nata sotto l’impero della legge del 1840, ma bensì su quella fattane dal Passigli nel 1832, cioè otto anni prima che la convenzione sulla proprietà letteraria fosse posta in vigore. Manzoni cita in contraffazione il Le Monnier. — il professore Giuseppe Montanelli pubblica nel 1846 in Livorno coi tipi di F. e G. Meucci una dotta allegazione a favore del Manzoni.»

Le ragioni esposte dal valente e cordiale mio patrocinatore in quella veramente dotta allegazione, ebbero la sanzione del Tribunale di prima Istanza di Firenze che, con sentenza del 3 agosto 1846, dichiarò che l’edizione del sig. Le Monnier cadeva sotto il divieto della convenzione del 1840, e lo condannò alla refezione dei danni.

Sperando che quella prima sentenza avesse a far cessare la vendita della ristampa, e a preservarmi così da ulteriori pregiudizi, io non mi diedi allora cura di valermi del diritto che m’era conferito di rifarmi de’ già sofferti. Ma una lunga e dannosa esperienza venne a disingannarmi. In questa città medesima, la vendita continuò più che mai. E non si potrebbe dire che fossero rimasugli di spedizioni fatte prima della sentenza suddetta. Oltrechè la quantità d’esemplari messi, senza interruzione, in commercio, non lasciava adito a una tale supposizione, il tipografo sig. Giuseppe Redaelli, che aveva acquistata da me la facoltà di pubblicare un’edizione economica del libro in questione, potè aver la prova, anche legale, che quella vendita proveniva da delle nove spedizioni. Per ovviare al danno immediato che portava a lui in particolare una tale concorrenza, chiese e ottenne dal governo d’allora, che gli fossero denunziati gli esemplari contraffatti che arrivassero in dogana; e con questo mezzo, potè procedere a diversi sequestri. Di più non solo da altre parti d’Italia, ma anche dal di fuori, l’editore medesimo fu più volte avvertito da chi aveva incaricato di vendere la sua edizione economica, chè lo spaccio di questa trovava un grande e continuo ostacolo nella concorrenza dell’edizioni del signor Le Monnier. E credo di poter dire «dell’edizioni;» perchè, lasciando anche qui da una parte l’improbabilità che una sola edizione potesse bastare a un così esteso e continuato smercio, si vede in diversi esemplari, quantunque aventi la stessa data, un gran numero di varietà tipografiche, che attestano chiaramente diverse composizioni.

Finalmente, dopo più d’undici anni dalla prima sentenza, mi trovai costretto a dire un’altra volta, a imitazione del mugnaio di Sans-Souci: Ci sono de’ giudici a Firenze; e, con atto del 15 febbraio 1858, l’egregio signor Avvocato Panattoni mio patrocinatore fece istanza alla Regia Corte di Firenze per la conferma della prima sentenza, contro la quale il signor Le Monnier aveva appellato. La Corte «confermò quella sentenza in ogni sua parte, e ne ordinò l’esecuzione secondo la sua forma e tenore.»

Il signor Le Monnier ha appellato da questa seconda alla Corte di Cassazione; e la nova discussione dev’esser portata all’udienza tra pochi giorni. La bontà, mi lasci dire, della mia causa, due sentenze conformi, e il valore già utilmente esperimentato del patrocinio, non mi lasciano inquietudine per l’esito; ma Ella vede, Chiarissimo signor Professore, quanto mi deva importare di non rimanere intanto sotto il peso della grave e, a ragione, temibile sua autorità. Il breve spazio di tempo che mi resta tra la pubblicazione del di lei scritto e la trattazione della causa, obbligandomi a tirar giù in furia, aggiunge un novo svantaggio all’inferiorità delle mie forze; ma a ogni modo, la cagione addotta mi costringe a adoprarle quali sono, e come la circostanza me lo permette.

«Nell’Avvertenza sopra citata, Ella annunzia che, seguendo il sistema tenuto dall’egregio Montanelli, divide in tre parti lo scritto, cioè esamina, nella prima, il quesito col criterio del diritto filosofico; nella seconda, con quello della legislazione comparata; nella terza, con quello della legge patria.»

Terrò anch’io questa distinzione riguardo alle due parti principali, cioè la prima e la terza: il poco che avrò a dire sulla legislazione comparata troverà un luogo opportuno in una di queste. E prendo da Lei il titolo della prima.




§ 1.


La questione esaminata filosoficamente.



Ella principia la discussione dall’impugnare il diritto di proprietà messo in campo da molti, come il motivo naturale e necessario d’una legge che riservi esclusivamente agli autori la facoltà di far ristampare le loro opere. «Nulla» sono sue parole «di più inesatto e di più falso, a creder nostro, del nome di proprietà attribuito a questo privilegio.» E in ciò ho la soddisfazione di trovarmi interamente d’accordo con Lei; essendo persuaso, da un pezzo, che questa formola «Proprietà letteraria» è nata, non da un intuito dell’essenza della cosa, ma da una semplice analogia. È un traslato che, come tutti i traslati, diventa un sofisma quando se ne vuol fare un argomento: sofisma che consiste nel concludere da una somiglianza parziale a una perfetta identità.

Ho poi un motivo particolare per combattere e escludere dalla questione un tale falso concetto, come quello che in questa causa è il mio principale, anzi il mio unico nemico; giacchè, come spero di poter dimostrare a suo luogo, (interpretazione che la parte avversaria mette in campo, degli articoli della Legge ne’ quali sta tutta la causa, non ha altro fondamento che la supposta Proprietà letteraria. Mi permetta dunque che, anche per non parer di valermi semplicemente d’un argomento ad hominem, accenni qui brevemente, a costo di ripetere cose già dette, i motivi principali che mi fanno essere della sua opinione, e di quella d’altri distinti giureconsulti (segnatamente nella discussione avvenuta nel 1841, alla Camera dei Deputati di Francia) intorno alla così detta, e mal detta, Proprietà letteraria.

La proprietà ha per sua naturale e necessaria materia, degli enti reali; giacchè, solamente, com’Ella dice benissimo, «le cose corporali e limitate possono appartenere esclusivamente a taluno,» val a dire a un essere limitato come loro. Ora, quale è la vera proprietà che una legge possa vedere e riconoscere nell’autore d’un libro, di cui abbia pubblicata un’edizione di tanti o tanti esemplari? Questi esemplari medesimi, dal primo all’ultimo, senza dubbio, e il manoscritto, se l’ha conservato; ma questa vera e reale proprietà, una tal legge non poteva pensare a assicurargliela c’erano per questo le leggi più vecchie (e di quanto!) che proteggono ogni sorte di proprietà. Le leggi relative all’argomento in questione non fecero, e non potevano ragionevolmente far altro, che proibire agli altri la ristampa del libro medesimo. È un intento e un effetto, giustissimo per tutt’altre ragioni, ma puramente negativo. Ora, chi potrebbe mai intendere, o come si potrebbe pensare una proprietà che consistesse tutta quanta in una mera negazione

Di più, com’Ella osserva ugualmente bene, la proprietà è trasmissibile indefinitamente; e, certo, sarebbe cosa assurda in sè e impraticabile, la proprietà d’una tale privativa, che avesse a passare per una successione indefinita d’eredi e di compratori, e, s’intende, degli eredi anche di questi. Ella dimostra poi che sarebbe un’assurdità, anche maggiore, quella di far materia di questa proprietà anche l’idee. Ma, se non m’inganno, questo strano concetto non fa parte della questione. I più ardenti propugnatori della Proprietà letteraria non l’applicano che agli scritti. Se, al tempo del Galileo, fosse stata in vigore una legge quale è voluta, credo, quasi da ognuno, e intesa da tutti, non avrebbe conferito al grand’uomo alcun novo diritto contro quelli che davano per fatte da loro le sue mirabili scoperte si sarebbe trovato ugualmente con quello solo che aveva e di cui fu costretto a fare tanto uso: cioè il diritto di dire e di provare che le scoperte le aveva davvero fatte lui. E perchè il confronto dei vocaboli che esprimono idee chiare, è un mezzo tanto breve quanto efficace di significare la distinzione delle cose, i vocaboli plagio e contraffazione servono benissimo a un tale effetto. La legge colpisce la seconda, e non si dà, nè deve darsi pensiero del primo.

Finalmente, la proprietà è tutta intera in ogni parte dell’ente posseduto. Se d’un fondo di mille tornature2, un vicino n’usurpa una, il proprietario la può rivendicare, come farebbe del fondo intero: se d’un poema di mille ottave uno ne ristampa anche molte, in un articolo di giornale, o in un libro, e, se occorre, col fine di criticarle; a nessuno, nemmeno all’autore criticato, viene in mente di fargli carico d’aver violata una proprietà. Messo per ora fuor de’ concerti quest’intruso e importuno concetto di Proprietà letteraria (giacchè mi converrà affrontarlo di novo dove si tratterà dell’applicazione della legge positiva al caso in questione) s’è condotti a cercare se ci sia una ragione, e quale, di riservare esclusivamente agli autori, per mezzo d’una legge, la facoltà di ristampare i loro scritti. E anche su questo punto, ho la soddisfazione di trovarmi, ma solo in parte, con Lei. Pare ch’Ella riconosca per cosa giusta il sancire questo che chiama privilegio, come «un prezzo del lavoro, un compenso del servigio, prestato alla società,» purchè sia fissato un termine alla durata del privilegio medesimo. Su di che non può nascer dubbio; e il solo titolo erroneo d’una proprietà letteraria potrebbe condurre alla strana conseguenza che una tal privativa abbia a durare in perpetuo.

Ma c’è un’altra ragione non meno, se non più, importante, di riservare, all’autore quella facoltà esclusiva; e è che la contraffazione, non solo può privarlo d’un giusto vantaggio, ma anche cagionargli un danno positivo. E, a me, com’Ella vede, torna necessario d’aggiungere quest’altra ragione alla sola menzionata da Lei, e di dimostrarne brevemente la giustezza e l’importanza.

L’uomo che, dopo aver impiegato più o meno tempo, studio e, se occorre, anche spese a comporre un libro, si risolve a pubblicarlo, s’espone a un doppio risico. L’opera che a lui pareva dover essere gradita e forse avidamente cercata dal Pubblico, il Pubblico che, a ragione o a torto, sarà d’un gusto diverso, gliela può lasciare; e allora, tempo, studio, e spese della stampa, con dell’altre, se ce ne furono, tutto riesce a un disinganno costoso. Condizione incomoda davvero, ma che nasce dalla natura della cosa, e alla quale nessuna legge può voler metter riparo.

Ma a questo risico nato dalla cosa medesima se ne può aggiungere un altro, cagionato dalla volontà arbitraria d’altri uomini, e da un motivo di speculazione privata; cioè che l’opera sia, senza il consenso dell’autore, ristampata da un terzo che, non ci avendo messo nè tempo, nè studio, nè spese, trovi cosa comoda il profittare, a danno dell’autore medesimo, de’ molti vantaggi della sua diversa condizione. Primo vantaggio è il non esporsi a quel risico, a cui l’autore non si può sottrarre; perchè chi vien dopo non ristampa se non gli scritti, ai quali la prima prova dia una forte probabilità d’un novo smercio. S’aggiungano altri vantaggi secondari e, minori, come quelli di stampare sullo stampato, di non aver a fare correzioni per cagione di pentimenti, e, se dà il caso, di servirsi anche, per la correzione tipografica, d’un’Errata corrige. Ma il vantaggio maggiore e, dico senza esitare, il più contrario all’equità, è quello di non aver a dividere il provento con nessuno, e di poter quindi, con l’offrire il libro a un minor prezzo, far che l’edizione dell’autore rimanga all’autore, e cagionargli così una perdita positiva, oltre all’averlo privato «del prezzo del lavoro, del compenso del servigio prestato alla società» ch’Ella pure trova dovuto in una certa misura.

A Lei, autore di belle, utili e reputate opere d’economia politica (del che ogni amatore del ben pubblico, e particolarmente ogni Italiano, deve ringraziarla), sarebbe ridicolo il rammentare la potenza del minor prezzo. Ma gli effetti più immediati, anche in questo particolare, sono manifesti a ognuno; e chi ha l’onore d’indirizzarle queste righe, è di quelli che li conoscono anche per esperienza, avendo acceso molte volte il foco con esemplari di qualche suo scritto stampato qui a sue spese, mentre le contraffazioni dello scritto medesimo si spacciavano nell’altre parti d’Italia, e in questa piccola parte medesima, di dove si sarebbe potuto col favor della legge, ma era difficile in fatto, tenerle fuori.

«Il produttore di ricchezze immateriali» dic’Ella, «fa con la civile società un contratto sui generis.» Accetto la tesi, e dico che, se un autore potesse (mi passi l’ipotesi) venir con la società a un vero e formale contratto, gli parlerebbe a un di presso in questa forma:

Io ho qui un mio scritto che posso buttar nel foco o dare alle stampe; e, dico la verità, proferirei il secondo partito. Ma, o il libro sia per piacervi, o no, la mi può andar male ugualmente. Se il libro non vi piace, lo lasciate dormire nelle vetrine; e in quanto a questo, pazienza! non avrò ragione di prendermela con nessuno. Ma se il libro vi piacesse, potrà venire un altro, o più d’uno che, trovando il suo conto a farne un’edizione lui, metta a dormire la mia in un’altra maniera. Per liberarmi da questo non meritato pericolo, vi propongo un patto: che voi società, cioè voi tutti che la componete, v’impegniate a non ristampare il mio libro. Voi non ci mettete punto di vostro, perchè, a pagarlo un po’ meno di quello che dovrei farvelo pagar io, non avete nemmeno l’ombra d’un diritto; e io posso, senza lederne alcuno, fare che non abbiate il libro in nessuna maniera. Non vi chiedo altro, che di liberar me da un risico, senza correrne alcuno voi altri. Ci state?

È una cosa evidente, che la società non potrebbe, senza stravaganza, rifiutare un contratto così equo riguardo a uno de’ suoi membri, e che agli altri potrà portare o qualche utilità o certamente nessun danno. E non si potendo con la società fare un contratto di sorte veruna, la legge, uno degli ufizi importanti della quale è per l’appunto di stipulare per la società, fa una cosa e sensatissima e giustissima realizzando gli effetti di un tal contratto coi mezzi propri a lei, cioè con un divieto e con una sanzione.

Non crederei di farla ridere, aggiungendo che, oltre il danno che può venire a un autore della contraffazione gliene può venire anche un dispiacere, che la legge, se può, deve risparmiargli. Non già che leggi devano prevedere e impedire tutti i dispiaceri non meritati, grossi e piccoli, come cercano di fare per i danni; ma una legge che non abbia uno scopo iniquo, fa questa cosa naturalmente, senza alcuna clausola diretta, e per mezzo dell’altre sue disposizioni; e in questo senso mi par che si deva interpretarne ognuna, quando non ci sia nulla di manifesto in contrario. Poco prima, o poco dopo aver pubblicato il Gènie du Christianisme, il celebre suo autore ricercò e raccolse, con gran cura e con dispendio, gli esemplari d’un’opera irreligiosa pubblicata da lui, qualche anno prima, in Inghilterra: e distrusse tutti quelli che potè ripescare. Mettiamo che quest’opera fosse stata pubblicata dall’autore in Francia, e prima del 93; non mi par davvero che sarebbe stata equa una legge, o l’interpretazione d’una legge, per cui qualunque stampatore avesse potuto riprodurre quell’opera odiosa sul viso, dirò così, dell’autore, e fargliela vedere annunziata sulle cantonate, esposta nelle vetrine de’ librai, registrata ne’ cataloghi; e, a un bisogno, fargliela anche vedere nelle mani de’ suoi conoscenti. Per questo riguardo, si sarebbe trovato in peggior condizione, che se gli fosse stata ristampata un’opera pubblicata di fresco.

Facendo ora un salto a precipizio da Châteaubriand e dal Gènie du Christianisme a me e a un romanzo, Le dirò che un dispiacere dello stesso genere, ha fatto provare a me l’incessante riproduzione del romanzo medesimo. Riuscendomi (dopo il fatto, come avviene in altri casi non pochi) odiosa, in tutt’altro grado, s’intende, la dettatura di esso; e vedendo che c’erano ancora persone disposte a leggerlo; avevo procurato, con un’edizione corretta, di levar la prima dalle mani di questi lettori; e il vederla riprodotta, con la realtà degli effetti che ho supposti nel caso del celebre autore citato, avrebbe potuto essere un motivo bastante per determinarmi a usar tutti i mezzi che mi fossero concessi, per far cessare questo che per me era e è un vero dispetto.

Sugl’inconvenienti del privilegio, del monopolio ch’Ella adduce, citando anche un passo dell’illustre Macaulay (autorità imponente, senza dubbio), il quale chiama perfino la facoltà esclusiva riservata agli autori una tassa pei lettori, non m’occorre di parlare, perchè tanto Lei quanto lo scrittore citato non professano di combattere altro che una troppo lunga durata della facoltà suddetta.

Se s’avesse a trattar la questione più in esteso e posatamente, non sarebbe, credo, difficile di mostrar le ragioni per cui quella facoltà differisce, come specie, da quelle poco belle cose, monopolio, privilegio, tassa, con le quali ha una somiglianza generica. Ma, per levare da essa l’odiosità che le viene da quella trista compagnia, può esser bastato il dimostrare, anche succintamente, l’equità del fine a cui è diretta; cioè, non solo di procurare, per quanto ci concorrano altre circostanze, e senza offesa di alcun diritto, un legittimo e limitato compenso a chi ha lavorato; ma di impedire a delle speculazioni private di punire il lavoro.

Del resto, riguardo al sentimento universale, non ci sarebbe nemmeno bisogno di levare una tale odiosità, perchè nel sentimento universale non è mai entrata: que’ nomi non sono mai stati associati dal Pubblico, oserei dire di nessuna parte d’Europa, alla causa degli autori; e, nel tanto scrivere e parlare che s’è fatto su questa materia, non è contro le loro proteste, che s’è gridato; ma bensì contro la speculazione che gli opprimeva; e questo in Italia principalmente, dove la divisione in diversi che si chiamavano Stati (e al bisogno anche nazioni!); dove, dico, quella divisione, funesta per tanti e tanti altri ben più importanti e vitali riguardi, rendeva più facili e più disastrosi anche gli effetti d’una tale speculazione; e dove il tristo, ma allora unico rimedio, delle convenzioni tra alcuni di questi Stati, invocato da gran tempo come un mancomale, fu accolto come una tarda giustizia.

L’abuso poi che gli autori possano fare della privativa, mettendo alle loro opere un prezzo esorbitante oltrechè non sarebbe mai ingiusto, anzi non si potrebbe rettamente chiamare abuso, trattandosi di cosa che avrebbero potuta, con pieno diritto, sottrarre affatto al pubblico), è poco da temersi, per la ragione, che sarebbe anche qui ridicolo il rammentare a Lei; cioè che chi vuol vendere una merce qualunque, è costretto a proporzionare il prezzo, non alla sua cupidigia, ma, alla probabilità di trovar de’ compratori. E ben più d’un tale pericolo è degno di considerazione il vantaggio reale che la privativa porta alla società, con l’incoraggire i lavori dell’ingegno, rassicurandoli, com’è generalmente riconosciuto.

Passo ora all’esame della questione particolare, prendendone anche qui l’intitolazione da Lei.


§ 2.

La questione esaminata col criterio della legge patria.


Nell’esaminare il punto controverso di quella legge, cioè: Se essa estenda la privativa degli autori a tutte le opere pubblicate da loro in qualunque tempo; o se la restringa a quelle sole che essi possano venir pubblicando dopo la sua promulgazione, Ella frammischia delle considerazioni generali sulla giustizia e sulla ragionevolezza dell’uno e dell’altro di questi partiti. E opportunatamente; perchè, se non se ne può, di certo, ricavar nessuna prova di ciò che la legge prescriva per l’appunto, se ne può però cavare un certo lume, dirò così, sussidiario per l’interpretazione di essa. Tratterò anch’io questi due capi, ma riservando, come si deve, la ragione di vero e definitivo criterio al secondo.


1.


Principiando dunque dalle considerazioni generali, tutte le ragioni addotte da Lei tendono a dimostrare che una legge su questa materia non può, nè deve ragionevolmente occuparsi, se non dell’opere che gli autori siano per pubblicare dopo la sua comparsa.

Ora, mi pare che una legge tale verrebbe, a un di presso a parlare (mi passi quest’altra prosopopea) in questa forma:

Ho finalmente capito che è giusto d’impedire le ristampe fatte senza il consenso degli autori, dette comunemente contraffazioni, e che apportano a quelli un doppio danno. E però chiunque pubblicherà qualche opera d’ora in poi, goderà questo benefizio. Ma voi altri che avete già sofferto un tal danno per la contraffazione di qualche opera, dovrete, riguardo a questa, continuare a soffrirlo. Non solo quello che è fatto è fatto, ma deve potersi fare in avvenire. E abbiate pazienza.

Confesso che non avrei saputo pensare una ragione per cui s’avesse a trovar giusta una legge di questa sorte. Ma una ragione m’è stata opposta, e mi s’oppone anche da Lei; e è, che una legge la quale sancisse il contrario, cioè estendesse il divieto anche all’opere ristampate prima di essa, produrrebbe un effetto retroattivo.

Sarebbe un difetto grave assai, o piuttosto un vizio essenziale; ma non vedo dove si possa trovarlo in questo caso. Per legge retroattiva s’intende una legge, che, guardando indietro, come dice il Macchiavelli, colpisca de’ fatti consumati nel tempo ch’essa non era ancora venuta a proibirli. Ma la legge in questione non farebbe altro che proibire de’ fatti possibili nell’avvenire, cioè delle nove ristampe; e tra il colpire de’ fatti consumati, e il proibire de’ fatti possibili, c’è, non una semplice differenza, ma un’assoluta diversità. Opporre la retroattiva a una legge tale, mi par che sia come il dire che una legge la quale proibisse a tutti senza distinzione, nè eccezione, di portar armi nell’avvenire, peccasse d’effetto retroattivo riguardo a quelli che ne avessero portate nel passato. Una legge che, dopo aver proibite le nove ristampe, aggiungesse: — Quelli poi, che per il passato hanno profittato del silenzio delle leggi, per ristampare dell’opere senza il permesso degli autori, e con danno di questi, dovranno rifar loro un tal danno, in quella proporzione che, nei rispettivi casi, sarà giudicata da’ tribunali; — questa sì, che produrrebbe un effetto retroattivo; e però nessuno ha mai pensato a farla, e nessuno penserebbe a chiederla. Ma in quella di cui si tratta, non saprei, ripeto, con qual ragione si potesse trovare un tale effetto.

Però anche qui se n’adduce una, già stata confutata due volte davanti ai Tribunali di Firenze, e rigettata da questi, e che ho il dispiacere di dover impugnare, anche a fronte di Lei: e questa ragione è, che una tal legge violerebbe un diritto acquistato. E se la cosa fosse così, non c’è dubbio che la legge verrebbe a peccare di retroattività. Ma è poi così?

Per sostenere una tal tesi, Ella adduce una teoria e di più due giudicati d’altri Tribunali. Uno di questi giudicati allega in termini espressi il principio su cui è fondata la teoria; e mi dà così una prima occasione d’entrar nell’esame di essa. Lo riferisco con le di Lei parole.

«Il Tribunale di Commercio della stessa città» Parigi «dichiarava il «21 ottobre 1830, che, la canzone famosa conosciuta sotto lo storico nome di Marsigliese, perchè stampata e pubblicata nel 1792, cioè un anno prima della legge surriferita, era caduta nel pubblico dominio, e poteva da chiunque essere riprodotta.»

Oh vede se non avevo ragione di dire che quel falso concetto di proprietà letteraria era il mio principale, anzi il mio unico nemico in questa controversia. Tutta la forza apparente di quel giudizio, e d’ogni persuasione conforme a quello, viene di lì. Difatti, in cosa può consistere, e a cosa si può riferire il dominio, se non a proprietà?

Due cose, secondo i diversi casi, s’intendono, se non m’inganno, da tutti, per dominio pubblico: o i beni e i redditi appartenenti allo Stato; o le cose appropriabili e che, non essendo state appropriate da nessuno, lo possono essere da ognuno. E in tutt’e due questi sensi l’idea essenziale, quella che li forma, è sempre l’idea di proprietà o attuata o attuabile.

L’eccellente Dizionario dell’Accademia francese dà, per il caso speciale di cui si tratta, la definizione che traduco qui letteralmente: «Essere nel dominio pubblico, cadere nel dominio pubblico, si dice dell’opere letterarie e dell’altre produzioni dello spirito e dell’arte, le quali, dopo un certo tempo determinato dalle leggi, cessano d’esser la proprietà degli autori, o de’ loro eredi.

È sempre la proprietà e dico la proprietà degli autori, rigettata da Lei e da me, come un concetto falso e chimerico, quella su cui si fonda la supposta devoluzione al dominio pubblico. Cessano, dice la definizione, d’esser la proprietà degli autori o de’ loro eredi. E non è questo un incontro accidentale e fortuito di parole. L’idea antecedente dell’essere le opere state originariamente proprietà degli autori, è necessaria per formare il concetto del loro esser passate nel dominio pubblico; giacchè come mai potrebbe appartenere a questo, esser fatto, com’Ella dice, cosa pubblica ciò, che non avesse avuto antecedentemente l’essenza e i caratteri della proprietà? E ecco come i falsi concetti, nel loro corso naturalmente irregolare e capriccioso, si rivolgono alle volte contro quelli, in favore de’ quali furono da principio, messi in campo.

Ella medesima in un passo che avrò occasione di citare più tardi, dice: «Un libro pubblicato dieci anni prima della convenzione del 1840, ma non mai riprodotto, non fu usucapito dal pubblico, restò proprietà dell’autore.» Tanto l’idea d’una proprietà antecedente dell’autore si ficca da sè, come necessaria e fondamentale, in un ragionamento dove si voglia stabilire una proprietà letteraria del Pubblico.

Se ho bene osservato il valore del principio su cui si fonda quel giudicato, avrò nello stesso tempo mostrato di che peso possa essere la sua autorità.

Ho detto che ogni persuasione conforme ad esso non ha altro fondamento; e la maggior prova di ciò è per me il vedere che gli argomenti addotti da Lei, sia per favorire un’interpretazione contraria a me, degli articoli della legge positiva, sui quali s’aggira tutta la causa; sia per combattere l’interpretazione proposta da’ miei difensori, sono ricavati da quella supposizione che le produzioni dell’ingegno siano una materia di proprietà; di maniera che, levato a quegli argomenti un tale appoggio, perdono ogni efficacia. E è ciò che mi cercherò ora di dimostrare.


2.


Trascrivo il primo de’ due articoli in questione, che è anche il primo della legge:

«Le opere o produzioni dell’ingegno o dell’arte pubblicate negli Stati rispettivi costituiscono una proprietà che appartiene a quelli che ne sono gli autori per goderne o disporne durante tutta la loro vita; eglino soli o i loro aventi causa hanno diritto di autorizzarne la pubblicazione.»

Qui la legge si serve della denominazione invalsa e abusiva, di proprietà; il che però non invalida punto legalmente, nè contradice logicamente le prescrizioni della legge medesima, sulle quali e Lei e io pretendiamo di fondare le nostre opposte ragioni.

Vengo dunque addirittura a esporle alcune riflessioni sul significato ch’Ella attribuisce alle prescrizioni del citato articolo, con queste parole:

«Che dice mai l’articolo primo? Esso afferma e stabilisce il principio generale, mercè cui gli autori avranno la proprietà letteraria, precisamente come faceva il decreto francese del 19 luglio 1793, come far deve qualunque legge sulla proprietà letteraria, per mettere in essere questa proprietà, la quale dalla legge, e solo dalla legge, ripete appunto l’essere suo. Ma nulla, nulla affatto dice l’articolo intorno al diritto degli autori sulle loro opere già pubblicate.»

A me pare in vece che dica molto, anzi tutto, dicendo appunto: «le opere pubblicate.» È vero che ci manca il già; ma non ce n’era bisogno; perchè la parola pubblicate comprende nel suo senso generalissimo le opere pubblicate in qualunque tempo da quelli che ne sono gli autori. Quello che una tal parola esclude affatto davvero, è il senso ch’Ella le vorrebbe attribuire, cioè: le sole opere che saranno pubblicate. Se tale fosse stata l’intenzione del legislatore, sarebbe anche stato così facile, così naturale e, direi quasi, cosi inevitabile il dire: L’opere che saranno pubblicate dal giorno della promulgazione della presente legge, costituiranno una proprietà de’ loro autori!

«E noi abbiamo veduto,» prosegue Ella, «nel precedente paragrafo quale interpetazione la giurisprudenza francese abbia costantemente data a quel decreto; interpretazione che, conforme alla massima generale di diritto, la quale non ammette retroattività nelle leggi, è la sola che deve evidentemente darsi alla patria legislazione.»

«Che se il nostro legislatore avesse voluto fare a siffatta regola di universale giurisprudenza una eccezione, se avesse inteso che le sue disposizioni dovessero applicarsi alle opere già edite non che all’inedite, e non si sarebbe per fermo limitato ad enunciare in generale la creazione da lui fatta della proprietà letteraria, ma avrebbe seguito l’esempio di quei legislatori che, nel Belgio ed in qualche Stato di Germania, esplicitamente statuirono questa deroga al comune diritto. L’avere egli conservato il silenzio, l’essersi contentato di dire: io creo una specie di proprietà che finora non esisteva, è la più manifesta e la più solenne delle prove ch’egli non intese far rimontare questa proprietà ad un’epoca anteriore al giorno in cui egli la creava.»

E perchè mai avrebbe il legislatore dovuto immaginarsi che, dicendo lui solamente: le opere pubblicate, si sarebbe potuto credere che voleva parlare, non di tutte, ma esclusivamente di quelle che fossero per pubblicarsi in futuro; quando la sola parola pubblicate, appunto perchè sola, aveva per sè la virtù d’indurre il primo significato e di chiuder l’adito al secondo ?

Perchè, dic’Ella, l’estendere il divieto anche all’opere già riprodotte, sarebbe stato fare un’eccezione a una regola d’universale giurisprudenza, «una deroga al comune diritto»; e diveniva perciò necessario avvertirne espressamente il Pubblico, per cui la legge era fatta.

Ma da nessuna parola della legge appare che il legislatore avesse una simile preoccupazione; e non si vede il perchè dovesse supporla nel Pubblico.

Io non so se i giudicati che possano essere avvenuti, oltre i due francesi citati da Lei, e nel senso di questi, siano tali e tanti da meritare il nome di giurisprudenza universale; a ogni modo una tale giurisprudenza non era, di certo, entrata nella cognizione del Pubblico; e qui si tratta unicamente di ciò che il legislatore abbia dovuto creder necessario di specificare, per non esser franteso dal Pubblico. E, se fosse possibile, avrebbe avuto ancor meno bisogno d’avvertire che faceva una deroga al comune diritto. Il Pubblico, da cui doveva farsi intendere, non vedeva e non vede in questa materia altro diritto, se non quello che attribuisce agli autori, come nato dalla cosa stessa, scambiando per diritto un titolo di somma equità il quale, per diventare diritto positivo, ha bisogno d’una prescrizione legislativa, che, del resto, in via d’equità, gli è dovuta. Ma, in quanto a un altro diritto che potesse nascere in chi non è autore d’un’opera dall’esser questa passata nel dominio pubblico; il Pubblico non se ne fa carico; e, nella facoltà che ha ognuno di ristampare senza permesso l’opera altrui dove ciò non è proibito da una legge, non pensa se ci sia, o no, un diritto; ci vede solo un potere di farlo impunemente. Per altro, i legislatori del Belgio e di qualche Stato della Germania hanno fatto bene a proibire esplicitamente la ristampa dell’opere già pubblicate; e ciò, non per evitare uno sbaglio del Pubblico, ma per levare ogni appiglio a una falsa interpretazione; avvertiti probabilmente da quella ch’era prevalsa nelle sentenze summentovate, e della quale, credo d’aver mostrato qual fosse il fondamento.

Vengo ora all’articolo XIV, che tocca direttamente il nostro caso speciale:

«La presente Convenzione non farà ostacolo alla libera riproduzione nei rispettivi Stati di opere che fossero già pubblicate in alcuni di essi prima che la detta Convenzione fosse posta in vigore, purchè la riproduzione abbia avuto cominciamento e sia stata legalmente autorizzata avanti di quel tempo.

Qualora però si fosse pubblicata parte di un’opera prima che la presente Convenzione fosse posta in vigore, e parte dopo, la riproduzione di questa ultima parte non sarà permessa che col consenso dell’autore o de’ suoi aventi-causa, purchè si dichiarino pronti a vendere agli associati la continuazione dell’opera, senza obbligarli all’acquisto dei volumi dei quali fossero già possessori.»

Il bisogno d’esporle le mie ragioni m’obbliga a rimetterle davanti l’interpretazione di quest’articolo, già propugnata da’ miei difensori, e che fu repudiata vivamente da Lei. Eccole dunque quale sia, secondo loro e secondo me, il motivo e la prescrizione dell’articolo suddetto.

Il divieto in genere e senza eccezione portato dal primo paragrafo, di riprodurre senza il permesso degli autori, le opere già pubblicate poteva, venendo applicato a tutti i casi, ledere degl’interessi legittimi, o almeno legali. Un editore che, quando non c’era alcuna legge in contrario, avesse stampata una parte d’un’opera già pubblicata dall’autore; non potendo, in forza della nova legge, terminarne la stampa, sarebbe stato condannato a perder le spese già fatte; e la legge avrebbe avuto, questa volta davvero, un effetto, indirettamente, ma efficacemente retroattivo. A ciò provvede quel primo paragrafo, dichiarando che «la legge non farà ostacolo alla libera riproduzione di tali opere, purchè abbia avuto cominciamento.»

A quest’interpretazione Ella fa due obiezioni: la prima, che, intesa a questo modo, la prescrizione sarebbe senza motivo; la seconda, che cagionerebbe una quantità d’incertezze e di pericoli.

Ella fa precedere a queste obiezioni la spiegazione che a Lei pare la vera, e sulla quale verrò a ragionare più tardi; e poi espone la prima nè termini che trascrivo:

«Una prima osservazione che balza ad occhi veggenti, si è che, secondo la nostra spiegazione, l’articolo 14 ha un senso filosofico, una ragione d’essere, siccome quello che si collega con tutta la teoria della proprietà letteraria; secondo quella degli avversari, l’articolo 14 non avrebbe altra motivazione che lo stat pro ratione voluntas; sarebbe un fatto isolato e senza alcuna connessione logica con un sistema giuridico qualunque: — Si comprende infatti benissimo che il legislatore, dopo avere dichiarato proprietà degli autori le opere che questi fossero per pubblicare; dopo aver permessa la ristampa di quelle che fossero già pubblicate, aggiunga, siccome condizione di questo permesso, che siffatte opere abbiano già avuto ristampe le quali provino nel Pubblico la coscienza e l’uso d’un diritto, d’un dominio. Tutto ciò si comprende; ma non si capisce punto il purchè il legislatore voglia limitare il permesso della riproduzione a quelle sole opere le quali, al momento preciso in cui egli ha parlato, si trovavano materialmente sotto i torchi. Nel primo caso (lo ripeto) v’ha una ragione; nel secondo non v’ha che l’arbitrio.»

Ma non è forse, per una legge, una ragione sufficiente, che dico? imperiosa, quella d’impedire un danno indebito che avrebbe cagionato essa medesima, con una proibizione incondizionata? Non prevedendo il caso in questione, la legge sarebbe stata cieca; non facendo un’eccezione per esso, sarebbe stata ingiusta. Non fu punto arbitrio; era dovere: non fu una volontà che prendesse il luogo d’una ragione; era una ragione che imponeva un obbligo alla volontà. E così essendo, come si potrà mai dare all’interpretazione riprodotta qui da me, la taccia di non avere «alcuna connessione logica con un sistema giuridico qualunque?» Oso anzi dire che l’ha con tutti. Certo non n’ha alcuna con la «teoria della proprietà letteraria,» della quale ho avuta e avrò di novo l’occasione di parlare; ma quando la spiegazione ch’Ella deduce da quella teoria non avesse altro inconveniente, che di lasciare senza alcun provvedimento il caso di quel povero stampatore, dando all’articolo un senso affatto diverso, mi pare che sarebbe da sè un forte motivo per non accettarla.

Mi pare anzi di poter aggiungere che un provvedimento così necessario sia da Lei indirettamente escluso dove, dopo aver posto che il legislatore volle tutelare, insieme coi diritti degli autori, il presunto diritto del Pubblico, premette che a questo secondo diritto avrebbe potuto provvedere in due diverse maniere; cioè «o statuire puramente e semplicemente che TUTTE le opere già pubblicate potrebbero essere liberamente riprodotte: oppure limitare questa libertà di riproduzione a quelle opere che, oltre all’essere già pubblicate dall’autore prima della emanazione della legge, eran già state oggetto di ristampa, a quelle opere che già la società aveva mostrato di considerare come cadute nel proprio dominio, col fatto caratteristico del riprodurle.» E posto ciò, Ella interpreta la mente del legislatore nel seguente modo:

«Fra cotesti due sistemi, il legislatore preferì saviamente il secondo. Reputò che il pubblico non fa atto di dominio sulle opere stampate se non se quando ne intraprende, ne vende, ne compra, ne commercia le ristampe. Un libro pubblicato dieci anni prima del 1848, ma non mai riprodotto, non fu usucapito dal pubblico, restò proprietà dell’Autore; un libro, invece, che, pubblicato alla stess’epoca, venne più volte edito, è fatto cosa pubblica, e tale vuole la legge che resti anche dopo la convenzione del 1840, dicendo che questa convenzione non farà ostacolo alla riproduzione di opere che fossero già pubblicate, purchè la riproduzione abbia avuto cominciamento prima della formazione della legge medesima. In altri termini (lo ripetiamo), perchè la convenzione non faccia ostacolo alla riproduzione delle opere già pubblicate, il legislatore ha voluto che di queste opere si fosse già praticata la riproduzione, considerando questo fatto come l’indizio evidente che la società reputava cosa sua, sua proprietà, le opere di cui facevasi la ristampa.»

Mi pare, dico, che condizioni tali non si possano applicare a una ristampa principiata tra quattro mura, e sulla quale, per conseguenza, il Pubblico non aveva potuto fare atto di sorte veruna. Che se m’ingannassi, s’Ella avesse creduto che, con tutto ciò, e in qualche maniera ch’io non saprei congetturare, il diritto dello stampatore suddetto potesse esser contemplato anche con la di Lei spiegazione, ne verrebbe un’altra conseguenza che accennerò dopo aver risposto alla seconda obiezione, che passo a trascrivere.

«Evvi più, dice Ella: stando a quest’ultima interpretazione dell’articolo 14, incertissima e piena di questioni e di pericoli diverrebbe l’applicazione della legge del 1840. Quando è che si dovrà ammettere che la riproduzione abbia avuto cominciamento? Bisognerà per avventura che i torchi già lavorino, o basterà che i caratteri tipografici siano in composizione? Qual è il numero di carte o di volumi che dovranno già essere in via di ristampa, per conferire diritto a riprodurre tutta l’opera? Ad un editore di mala fede che volesse provare di avere già cominciata la riproduzione, non sarà egli agevole il farlo porgendo ristampato il primo foglio del libro, od anche solo il frontispizio? Ed in questo caso, dove sarebbero mai le spese fatte dall’editore, il danno a lui minacciato dall’interruzione, danno e spese che giusto il signor Montanelli, sono la sola ed unica motivazione dell’articolo 14? In qual modo mai coloro stessi che danno al diritto degli autori il nome ed il carattere d’una proprietà, non veggono essi che l’estensione d’un diritto così sacro, così fondamentale qual è la proprietà, non si può far dipendere da queste dubbiezze, e dall’incerta soluzione che i vari tribunali possono stimar di dare al quesito: se la riproduzione abbia avuto cominciamento effettivo il giorno 17 dicembre 1840?»

Sono inconvenienti, senza dubbio; ma non particolari a questo caso. Qual è, sto per dire, la legge che possa prevenir tutte le dubbiezze, specificando tutte le diverse applicazioni di cui sia capace, e dando per ciascheduna una particolar decisione? Perciò le leggi sano spesso costrette a rimetterne molte alla retta e discreta interpretazione de’ giudici; ai quali, nel caso in questione, toccherà a discernere se ci siano le condizioni d’un vero danno. Altri articoli di questa legge medesima possono dare occasione a delle dubbiezze dello stesso genere. L’articolo VII, per esempio, dice: «La contraffazione è l’azione per cui si riproduce con mezzi meccanici, un’opera in tutto od in parte, senza il consenso dell’autore o de’ suoi aventi-causa.» Ecco subito, nelle parole in parte, la difficoltà di trovare quanta deva essere una parte che possa far riguardare una ristampa come contraffazione. Anche qui si potrebbe domandare: Ci vorranno pagine? e quante? O ne basterà una? o anche mezza? o de’ periodi sparsi qua e là nella ristampa? o anche un periodo solo? com’Ella domanda se, nel nostro caso, potrebbe bastare «anche solo il frontispizio?»

La legge, è vero, dà alcune spiegazioni di quest’articolo, in quello che vien dopo; le quali però sono indicazioni d’altre dubbiezze, che dovrà sciogliere la discrezione de’ giudici. Ecco quest’altro articolo:

«V’ha contraffazione, nel senso dell’articolo precedente, non solo quando v’ha una somiglianza perfetta fra l’opera originale e l’opera riprodotta, ma eziandio quando sotto ad un medesimo titolo o sotto ad un titolo diverso v’ha identità d’oggetto nelle due opere, e vi si trova lo stesso ordine e la stessa distribuzione di parti.

«L’opera posteriore è in questo caso considerata come contraffazione, quand’anche fosse stata notevolmente diminuita od accresciuta.»

Ella vede quante domande simili a quell’altre si potrebbero fare anche qui. Come si definisce l’identità dell’oggetto? E quando si sia potuta trovare quest’identità, l’opera che, prendendo l’idee principali dell’opera originale, le esporrà con maggior evidenza, e le rinforzerà con novi argomenti, sarà nel caso della contraffazione? E se le parti distribuite nella stessa maniera porteranno però de’ titoli diversi, e che annunzino un intento più o meno differente, più o meno vasto? Quale sarà poi la misura del «notevolmente diminuita od accresciuta?» Ora, si dovrà egli, a cagione di tali dubbiezze, escludere il significato naturale dell’articolo ?

E si noti che le accennate qui possono ricorrere in tutto il tempo che dura la privativa; mentre quelle ch’Ella ha enumerate riguardo all’articolo 14, non possono venir in campo che per un tempo brevissimo; giacchè nessun tribunale accetterebbe come prova che una ristampa abbia avuto cominciamento prima della legge, un pezzo che potesse essere stato ristampato nell’intervallo tra la promulgazione della legge e le presentazione di quello.

Con questo credo d’aver risposto all’obiezione ch’Ella cava dagli inconvenienti suddetti, contro l’interpretazione dell’articolo propugnata da’ miei difensori e da me; cioè che la frase: purchè la riproduzione abbia avuto cominciamento, contempli il fatto «d’un materiale principio dato alla ristampa.» Se poi, come ho accennato, Ella volesse che la sua interpretazione possa essere applicata anche a questo fatto; allora l’obiezione cade da sè; perchè Ella medesima verrebbe a accettare quegl’inconvenienti. Qui infatti non c’è mezzo: o la legge trascura quel fatto; e commette un’ingiustizia; o lo contempla; e ne vengono le difficoltà dell’applicazione. E questo, per la natura medesima della cosa; giacchè una legge che proibisca de’ fatti fino allora permessi, e fatti che non possono esser realizzati in un colpo solo, ma sono di loro natura, il resultato d’operazioni successive; una tal legge, dico, deve necessariamente poter trovarsi a fronte di fatti principiati e non compiti; sui quali le è forza, o tacere, o pronunziare.

Passo ora a parlare del secondo paragrafo dell’articolo.

Il permesso accordato giustamente nel primo, poteva esser preso in un senso più largo di quello che la legge si proponesse. Mettiamo che un autore avesse pubblicati in Milano due volumi d’un’opera che doveva, per il suo compimento, averne successivamente degli altri; e che un editore di Firenze avesse, prima della legge, riprodotti i primi due. Quest’editore, allegando che, per quel fatto, la sua riproduzione avea avuto cominciamento avrebbe potuto pretendere che gli fosse permesso di riprodurre quelli che verrebbero in seguito. E è ciò che la legge dichiara di non voler permettere. Ma qui entrava di mezzo l’interesse d’altre persone; e se la legge non ci avesse provveduto, gli associati alla ristampa, che avevano pagati que’ due primi volumi, sarebbero stati nell’alternativa, o di rimanere con un’opera imperfetta, e senza valore, meno quello della carta; o di comprar di novo i due volumi dall’autore. Per ovviare a ciò, la legge dichiara che, in questo caso, l’autore, o chi per lui, non godano della privativa, se non a condizione che «si dichiarino pronti a vendere agli associati la continuazione dell’opera, senza obbligarli all’acquisto dei volumi dei quali fossero già possessori.»

Da alcune parole di questa seconda parte dell’articolo, Ella crede che si possa cavare una conseguenza, intorno alla quale m’importa di presentarle le mie osservazioni. Trascrivo anche qui il passo intero, per non correr risico d’alterare o d’indebolire involontariamente i suoi argomenti, dandone un sunto con parole mie.

«A tante considerazioni che invincibilmente concorrono a rimuovere un così strano concetto» (cioè quello de’ miei difensori intorno al senso del primo paragrafo) un’altra se ne aggiunge e poderosissima.

«Siccome di sopra il lettore ha veduto, l’articolo 14 dividesi in due paragrafi: il primo stabilisce la massima generale intorno alle opere già stampate, e dice quando la loro riproduzione è permessa. Il secondo si riferisce alle opere composte di più volumi, ed al caso in cui uno o parecchi di questi volumi si fossero già pubblicati prima, ed altri fossero per stamparsi dopo la pubblicazione della legge. Or bene, che mai dispone per questa ipotesi il legislatore? La riproduzione, dice, di quest’ultima parte, cioè dei volumi non ancora pubblicati, non sarà permessa che col consenso dell’autore... Dunque la riproduzione della prima parte (cioè dei già pubblicati volumi) sarà permessa. Di qui si vede quanta cura abbia messo il legislatore nel non dare alle sue disposizioni una forza retroattiva. E se tale fu la sua mente nel secondo paragrafo del«l’articolo 14, paragrafo in cui pur nondimeno trattavasi di opere pubblicate in parte ed in parte no, chi oserà asserire ch’ei volle invece fare retroattiva la legge del primo paragrafo dell’articolo stesso, in cui trattavasi d’Opere già interamente pubblicate? Come mai e perchè tanta contraddizione in un solo e medesimo articolo?»

Le parole: di questa ultima parte, erano necessarie al legislatore, per far intendere cosa volesse non permettere; erano la materia medesima del divieto. Se, dopo aver detto: «Qualora però si fosse pubblicata parte di un’opera prima che la presente Convenzione fosse posta in esecuzione, e parte dopo, la riproduzione...» fosse saltato a dire: non sarà permessa, si sarebbe dovuto domandargli di qual riproduzione intendesse parlare. Non mi pare dunque che si possa qui supporre l’intento di mettere in opposizione quest’ultima parte con quella de volumi già pubblicati; la quale non cadeva punto in questione, e non è nominata, che come un antecedente necessario all’esposizione del caso a cui la legge voleva provvedere.

Ma una ragione, oso dire, ancor più perentoria, per non credere che, con quelle parole, il legislatore abbia voluto riconoscere indirettamente che la riproduzione della prima parte sarà permessa, è il non potersi supporre che un legislatore pensi; nè a dare un permesso, nè a riconoscere un diritto, di cui nessuno saprebbe cosa fare.

E, per verità, nel caso di cui si tratta, cosa potrebbe fare un editore del diritto di ristampare un pezzo d’un’opera che si vendesse intera, per conto dell’autore? A chi potrebbe sperar di vendere quel rottame? Se, per fare una strana ipotesi, Ella volesse permettere a un editore di ristampare i due primi volumi del Dizionario della Economia politica e del Commercio, cioè fino alla lettera M, e fermi lì; è certo che quest’editore, per quanto fosse persuaso da sè, o avvertito dall’opinione delle persone colte, dell’importanza dell’opera, non vorrebbe profittare d’un tal permesso. Sarebbe bensì molto contento se credesse di poter trovare una ragione di fare a Lei una facile e fortunata concorrenza, ristampando l’Opera intera, e vendendola a un prezzo minore.

Da tutto il detto fin qui intorno alle disposizioni della legge, in ciò che tocca la nostra particolare controversia, resulta, mi pare chiaramente, che il significato da Lei attribuito a quelle, si fonda unicamente, come avevo accennato da principio, sulla supposizione di un diritto di proprietà inerente alla pubblicazione degli scritti, e che, nel caso attuale, sarebbe devoluto al Pubblico.

Pare bensì ch’Ella voglia escludere il concetto dell’inerenza d’una proprietà nella cosa medesima, dove fa dire alla legge: Io creo una specie di proprietà che finora non esisteva; dove dice che «la così detta proprietà letteraria è una mera creazione della legge;» e più ancora dove dimostra espressamente che la cosa non è capace di proprietà. Ma mi permetta di dire di novo, che, volendo stabilire il libero diritto di riprodurre l’opere altrui quando ciò non è vietato da una legge; sull’esser queste nel pubblico dominio, viene necessariamente a ammettere, in questa maniera, una proprietà anteriore alla legge medesima. E che altro potrebbe Ella voler dire, dicendo che, prima della legge, lo scritto su cui verte la causa «era giuridicamente res nullius, apparteneva al pubblico?»

«Nuova, strana proprietà, invero,» dic’Ella, parlando di quella che è da moltissimi attribuita agli autori. Ma non esito di dire che quella che s’attribuirebbe al pubblico ha qualcosa di più strano. Nella prima c’è almeno un’apparente, ma molto apparente analogia. L’autore che dice: mi hanno ristampata una mia opera, dice una cosa non falsa in un senso; e è facile il trasportare quel mia a un senso di vera proprietà. Ma quanto di più ci vuole per fare di quell’opera una cosa di pubblico dominio! S’intende benissimo che appartengano al pubblico dominio, i fiumi, per esempio; e che gli possano appartenere, per una legge, i terreni lasciati incolti per un dato spazio di tempo. Sono gli uni e gli altri materia di proprietà; e non c’è nessuno che possa dire: gli ho fatti io. Ma, s’intende ben più difficilmente che chi ha fatta l’opera si trovi a fronte un rigoroso proprietario, cioè il Pubblico, che gli dica: quest’opera è mia. Padrone però anche voi, di ripubblicarla; non perchè ne siete l’autore: questo non ci ha che fare; ma in quanto siete anche voi una parte di me, padrone universale.

Ma, per fortuna, il Pubblico non dice questo.

E veda quale altra strana conseguenza verrebbe nel nostro caso, da quella teoria.

Ella domanda se si possa dire che, ristampando, senza il permesso dell’autore, il romanzo in questione, il signor Lemonnier abbia commesso un furto. E io, persuaso, com’Ella ha potuto vedere, che qui non si tratta di proprietà, sono ben lontano dall’attribuire alla di lui azione un tal carattere. Credo solamente che sia incorso nella sanzione d’una legge fatta per tutelare un interesse legittimo contro delle speculazioni arbitrarie. Bensì, secondo quella teoria, i miei difensori e io saremmo le anime fuie, i rei, non d’un furto consumato, ma d’un tentativo di furto, cercando di sottrarre al pubblico dominio la roba sua.

Termino col ricapitolare l’osservazioni che ho avuto l’onore d’esporle.

In tesi generale,

Senza ricorrere a un supposto diritto di proprietà, un motivo d’equità evidente giustifica, anzi richiede una legge che riservi agli autori la facoltà esclusiva di ripubblicare le loro opere. Un tal motivo vale del pari, se non di più, per l’opere già state ripubblicate da altri, che per quelle che non siano in questo caso.

Una tal legge, non prescrivendo, che per l’avvenire, non produce alcun effetto retroattivo; e l’appunto che le si fa di violare un diritto acquistato, non ha altro fondamento, che quel supposto diritto di proprietà.

Sull’applicazione della legge positiva:

Concorde con que’ principi, l’articolo I di essa, riservando agli autori o a’ loro aventi-causa di diritto di riprodurre le opere pubblicate, comprende naturalmente sotto questo titolo tutte queste opere, senza distinzione di tempo; e non si può, senza far violenza alla parola medesima, restringerlo alle sole opere che fossero per esser pubblicate dopo la legge.

Ciò stesso dispensava il legislatore dall’avvertire che intendeva parlare dell’opere pubblicate in passato: una tale precauzione sarebbe bensì stata necessaria, se avesse voluto restringere il divieto alle sole opere da pubblicarsi.

Il primo paragrafo dell’articolo XIV, eccettuando dal divieto le opere la di cui riproduzione abbia avuto cominciamento, riguarda naturalmente l’opere di cui un editore avesse ristampata, e non pubblicata una parte; l’intendere che quel cominciamento di riproduzione si riferisca a delle ristampe già compite e pubblicate, non ha anch’esso, altro fondamento, che l’intenzione attribuita al legislatore, e, nè espressa, nè accennata da lui, di voler tutelare un supposto diritto di proprietà.

Il secondo paragrafo dell’articolo suddetto non ha altro motivo, che di prevenire un’erronea interpretazione del primo; e anche qui, è la sola supposizione dell’intenzione suddetta, che può farci trovare la ricognizione d’un diritto, che, del resto, non sarebbe d’alcun uso.

La proprietà letteraria degli autori, e la proprietà letteraria del Pubblico, sono due concetti erronei, o piuttosto due applicazioni d’uno stesso concetto erroneo. Nel caso trattato qui c’è, tra la causa degli autori e la contraria, questa differenza: che la prima, rigettando quel concetto erroneo, conserva intatte tutte le sue ragioni; l’altra, rimosso quel concetto, rimane senza ragione veruna.

Non posso lasciar d’aggiungere che l’interpretazione dei suddetti articoli, quale è propugnata da’ miei difensori, si trova lucidamente e risolutamente espressa in due giudicati di tribunali di Firenze: giudicati, ai quali ella troverà cosa naturale ch’io dia maggior peso, che ai due di tribunali francesi, citati sopra.

Eccole dunque i motivi ripetuti e adottati da quella Corte d’Appello, sui punti discussi nel di Lei Parere, e in questa lettera:

«La Corte, ecc.

«Attesochè la sentenza appellata abbia dimostrato fino all’evidenza nei suoi motivi, quali la Corte adotta, che la detta Convenzione tutela e favorisce tanto gli autori di opere già pubblicate avanti, quanto gli autori di opere pubblicate dopo la sua emanazione;

«Attesochè, dando alla Convenzione questa intelligenza, non le si attribuisca un effetto retroattivo, perchè altro non sia fatto che vincolare dopo la sua promulgazione la libertà dei tipografi di riprodurre le opere altrui....

«Dice essere stato male appellato dallo stesso Lemonnier, e rispettivamente ben giudicato dalla sentenza del Tribunale di prima Istanza di Firenze del 3 agosto 1845 contraria al medesimo e favorevole al signor Alessandro Manzoni: quella perciò conferma in ogni sua parte, e ne ordina l’esecuzione secondo la sua forma e tenore.»

L’espressione: le opere altrui, della quale si serve la Corte, spiega perfettamente l’intento generale della legge; intento così conforme alla ragione e all’equità.

Spero dalla bontà già da Lei dimostratami, che vorrà, se non ammettere, accogliere almeno cortesemente l’osservazioni che le ho esposte con rispettosa franchezza. E avrei certamente desiderata una più lieta occasione, ma non voglio nè devo trascurar questa che mi si presenta, d’attestarle l’alta stima e il distinto ossequio, col quale ho l’onore di dirmi.


Suo devotissimo servitore

Alessandro Manzoni.

Milano, 1862 (?)
  1. Segnatamente il titolo di Conte, che non mi compete, e che appiccicatomi molt’anni sono, non so da chi, ha già cagionato un errore involontario a diverse persone.
  2. Mi prendo la libertà, giacchè questo non è uno scritto forense, di servirmi di questo vocabolo che, nella legge di pesi e misure del così detto Regno d’Italia (qual Regno e quale Italia!) corrispondeva all’Hectare de’ Francesi. E non mi posso tener dall’esprimere il dispiacere che, nella legge destinata a divenir quella del vero Regno d’Italia, non sia stata adottata la nomenclatura dell’altra, i vocaboli della quale avevano un viso italiano, e erano comodissimi all’uso; e si sia fatta in vece una traduzione letterale de’ nomi francesi, tra i quali, non il grecismo, ma la storpiatura greca nel vocabolo Ettare, e altri di suono ugualmente eteroclito, difficili a ritenersi, e facili a cagionare equivochi, principalmente per le persone illetterate, o poco letterate, come decalitro e decilitro e simili.

Note

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