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Egregia signora,

Perchè dovrei avermi a male della sua lettera?

Nei giorni di dolore una parola amica fa bene, ed io, guardi, una sua lettera l'aspettavo da un momento all'altro.

Ma giacchè Ella mostra ignorare il vero motivo per cui cotesta disgraziata non è più in casa mia, e crede, nella sua grandissima bontà, che sia ancora in me il poterla salvare, io devo, non senza ripugnanza, narrarLe come sia andata la cosa, perchè Ella veda che la deliberazione da me presa è stata giustissima e ragionevolissima, e per avventura la più mite e generosa che io potessi prendere in momenti di suprema agitazione e di sdegno.

Ella sappia dunque, mia egregia amica, che cotesta signora m'ingannava e mi tradiva da parecchi anni.

N'ebbi sentore e sospetti ben fondati e quasi certezza molto tempo fa; fui per ucciderla; ma ella sfuggì alla mia collera e riparò in casa di miei cugini che me la riportarono il giorno dopo.

Pianse, mi si gettò alle ginocchia, mi supplicò di tenerla in casa mia, anche alla Punta, purchè almeno mi vedesse da lontano di quando in quando, mi giurò che non era scesa fino all'ultima abbiezione, che il suo era stato un dispetto geloso, che le avevano teso un infame tranello.

Ed io, un po' per considerazione della madre di lei, allora infermissima, e della misera condizione della sua famiglia, e per non dare ad essa la spinta a precipitarsi nell'abisso, e perchè, valga il vero, mi lusingai che la cosa fosse ancor tale da potervi rimediare senza mio disonore, io le perdonai e la ritenni in casa e l'amai, ne ho quasi vergogna, con la stessa passione di prima.

Che cosa fece codesta donna? Seguitò a ingannarmi, a tradirmi, a farmi la favola di tutto il paese e di tutta Italia.

Ella sa gli oltraggi di cui fu fatto segno il mio capo nel «Giobbe del Balossardi», e poi ripetutamente nel «Fracassa» nella «Cronaca bizantina» per non parlare di una infame poesia stampata in Pisa e dei «Paralipomeni» del Capuana.

Tollerai tutto, speravo che non ci fosse nulla di vero, che la malignità dei miei nemici avesse trovato questo mezzo per avvelenarmi la pace domestica.

A codesta donna, che di tali malignità, si accorava e s'irritava, dicevo che, finchè Lei non mi desse ragioni di credere a quelle infamie, io avrei avuto il coraggio di affrontare le maldicenze di tutto il mondo.

E la tresca intanto seguitava, anzi s'infervorava in ragion diretta della mia dabbenaggine. Io stavo in guardia, quanto le occupazioni e i lavori me lo permettevano; ma, Le giuro per la testa di mia madre, non credevo assolutamente che cotesta signora fosse capace di farmi ciò che m'ha fatto; quando la fortuna volle ch'io capitassi una lettera che mi rivelò a un tratto l'abisso di infamia, in cui mi aveva gettato cotesta disgraziata.

Dalla lettera si rileva chiarissimamente la tresca durata e continua; e (lo crederebbe?) le pratiche fatte da costei per mezzo del suo amante perchè essa entrasse nelle buone grazie dei miei nemici, di coloro che mi facevano cotidianamente la guerra e in modo così vergognoso e sozzo.

Sì, signora, cotesto individuo (e dico cotesto perchè ora è costì a consolare la sciagurata, ch'Ella chiama ancora sua amica) cotesto individuo era andato a Roma, aveva trattato, combinato l'affare e, per tirarseli dalla loro (parole testuali della lettera) aveva confidato il loro secreto alla signora Serao.

Ha Ella parole per qualificare una simile infamia?

Mi ha voluto ferire con un pugnale avvelenato a due tagli, la disgraziata; mi voleva dare il colpo di grazia, lei, lei che io baciava ancora come l'unica persona che mi fosse rimasta compagna a portare la mia croce, fra tanto scatenarsi di odio, fra tanto imperversare di inimicizie, fra tante offese ed insulti che mi piovevano cotidianamente sul capo!

Oh, signora, e troppo, e troppo; l'animo mio ch'è di acciaio, che non s'è mai piegato sotto il peso di tanti odi, ed Ella e chiunque in Italia lo sa, fu lì lì per ispezzarsi.

Ebbi, ciò non ostante, la forza di mettere alla porta cotesta malvagia e ingrata creatura, e di spezzare in tre ore il legame di dodici anni.

Ed essa, uscita di casa mia accompagnata dal mio servitore, andò in casa del suo amante che è il sig. Giovanni Verga (perchè nascondere il nome degli assassini?) e poi è partita per costà, dove è stata raggiunta.

Che posso ora, lo dica Lei, che posso io fare per costei? Nulla vi può essere più di comune fra me e cotesta donna; nulla.

Io non le serberò odio, nè rancore, nè disprezzo; meditando sui libri e sulle cose umane ho appreso a compatir molto e a non meravigliarmi di nulla.

La colpa di cotesta femmina è certamente l'effetto logico del suo organismo e di quella legge di eredità che c'insegna riuscire o pazzi o delinquenti i figli di un ubbriaco, e il padre di costei, Ella sa, morì d'assenzio.

In tale stato di cose, a me sembra non ci sia altro da fare che domandare l'annullamento del matrimonio.

La separazione esporrebbe cotesta signora alla vergogna di un processo per adulterio; ed io credo esserle generoso, evitandolo, nel solo ed unico interesse della sua, diciam così, reputazione, e per metterla in condizioni di riabilitarsi.

Alle sue amiche non rimane dunque altro da fare che persuaderla a dare il consenso che io le ho fatto richiedere; a me non altro che dimenticarla, consolandomi con quei versi profetici ch'io scriveva al Maffei, or sono sette anni;

 
Solo starò, come solingo sasso,
A cui rigido bora e il ciel maligno
Nullo consente onor d'erbe e di rami;
Si dilungan da lui greggi e pastori,
Passan lungi gli augelli: egli coi nembi
Pugna indefesso, infin che una nemica
Forza lo schianti o il suol natio lo inghiotta.

La forza nemica spezzerà forse, e fra non guari, la mia fibra; ma, vivaddio, io spero poter morire in piedi e con la fronte levata.

Addio, mia egregia signora ed amica, mi rammenti alla sua famiglia e mi creda immutabilmente suo dev.mo....

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