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NOTA
Tobia Adami, dopo «lunghi viaggi», allo scorcio del 1616 ritornato finalmente in patria, scrisse il 26 gennaio dell’anno appresso da Norimberga a Galileo per manifestargli come ne sospirasse «la felice conversazione ed affettuosissima gentilezza», sebbene stesse fuori d’Italia dal 1614; e non meno per chiedergli notizie del Campanella: «del nostro Campanella, si è vivo o morto, si è libero o nella prigion antica, non sento nulla; spero... Vostra Signoria non tralasciará di dirmi quel che sa»1. Pur troppo, attese invano la risposta; ed il 10 novembre 1617 da Trebsen gli riscrisse per avere la medesima notizia: «utrum autem ille bonus vir Campanella in vivis adhuc sit an mortuus, in carcere an liber, resciscere dudum nihil potui: si quid de eo tibi constabit, ... iterum obsecro ne me celes»2. Egli sentiva una profonda pietá per l’infelice prigioniero, ammirando nel «conterraneo di Bernardino Telesio» non saprei se piú la tenacia della memoria ed il vigore dell’ingegno o il singolare acume del giudizio o il caldo amore del vero.
Nella seconda lettera veniva offerto all’astronomo pisano, se gli fosse stato grato, un libro che nel principio di quell’anno intorno al Campanella era uscito in Francoforte, a spese di Goffredo Tampach, dalla tipografia di Giovanni Bringer, il Prodromus philosophiae instaurandae, idest dissertationis De natura rerum compendiion secundum vera principia, ex scriptis Thomae Campanellae praemissum. L’autore, l’Adami, nella prefazione a’ filosofi della Germania prometteva di pubblicare parecchi manoscritti del Campanella, gelosamente da lui custoditi «tanquam chara sua pignora», la Filosofia epilogistica, alcune Questioni, il Senso delle cose, le Poesie ed in ultimo, con molta probabilitá, un epistolario:
«fortassis et addavi volumen literarum quas ultra ducentas habeo amoebaeas philosophicas, quibus de variis rebus et omni quasi disputabili philosophatum est inter nos invicem». Numero senza dubbio non piccolo, tanto piú se, come opportunamente avverte l’Amabile3, la maggior parte di esse vanno riferite a soli otto o dieci mesi del 1613, cioè al tempo del soggiorno dell’Adami a Napoli; perché dopo non è ammissibile che il filosofo dal carcere avesse agevolezza di corrispondere con chi trascorse quasi l’intero triennio seguente in peregrinazioni attraverso paesi lontani in cui nulla piú aveva saputo del suo diletto Squilla. Del quale molte lettere avevano giá ricevute altri tedeschi che si erano adoperati per ottenergli la libertá — lo Scioppio, il medico Fabri ed i Fugger, — non potendosi non prestar fede a ciò che nel Syntagma de libris propriis et recta ratione studendi rammentò l’autore medesimo: «multas praeterea scripsi epistolas Scioppio et dominis Fuccaris meam libertatem negotiantibus, respondentes quaestiotiibus variis» 4.
Ora se, nel periodo peggiore della sua vita, — «vermis sepultus, traditus in anims inimicorum... sub impio Ionatha, sicuti Ieremias, in lacu inferiori, in tenebris et umbra mortis, vinctus in mendicitate et ferro..., cuius os insania obstruit et leopardi armati centum excubantes timorem adiciunt»5, — riuscí a comunicare cosí largamente co’ propri difensori ed ammiratori, senza paragone assai piú dovè scrivere appena fu liberato in parte e poi in tutto, avendo fino all’estremo conservato integra la ferrea tempra di lottatore ed essendo stato avversato con accanimento sempre maggiore da vecchi e nuovi nemici. Se non che, non si possiede tutto; né v’è quasi da sperare che col tempo e fortuitamente possa rinvenirsi gran che di quanto non è ancora venuto fuori nelle esplorazioni dirette ed indirette, cominciate dalla prima metá del secolo decimottavo, in biblioteche ed archivi pubblici e privati, italiani e stranieri. Non si conosce pertanto la sorte delle proposte e delle risposte che l’Adami intendeva di dare, e poi non diede, alle stampe; non si è scoperto in Augusta, in Monaco, in Erlangen, in Dresda cosa de’ Kugger che c’interessi; non si è trovata la raccolta completa de’ carteggi de’ Noailles a Parigi, dove non si trovano neppure le lettere che all’amico il Naudé, tra l’aprile del 1631 ed il giugno del 1632, «faisoit escrire en [sa] presence ou a [monsieur de Peiresc] ou a monsieur Diodati ou a d’autres de ses amis et mesme au Cardinal de Richelieu, l’excitant tousjours d’en faire quelq’une, quoyque bien souvant sans necessité et ce seulement pour le faire travailler et tirer ses conceptions sur le papier»6; ed a Roma tra le carte del Fabri, riunite in dieci grossi volumi, non è rimasta la minima traccia né delle lettere che il Campanella gli diresse, né delle copie di quelle che per mezzo di lui mandò ad amici comuni7o dal Fabri, che non esitò a distruggere le testimonianze che giudicò compromettenti, allorché dallo Sdoppio venne informato che il Santo Uffizio ed i gesuiti vedevano di mal occhio i tentativi di strappare il filosofo di mano agli spagnuoli. Né qui va taciuto che non di rado è il Campanella a ragguagliarci, ora per incidenza ora espressamente, di lettere che sono state ricercate senza frutto. Per esempio, non tanto nel Syntagma (p. 182) cita opuscoli epistolari — «remedium contro, luem veneream; et aliud ad extraendum hydrargyrium visceribus et ossibus unctorum intrusum per cucurbitulas aureas, de quibus in Medicina; item contro frigus inalpinum ecc.», — quanto nel nostro volume, il 30 agosto 1606, egli dice al cardinale Farnese: «scrivo a nostro signore papa ed al Cardinal d’Ascoli»; il 1° giugno e l’8 luglio 1607, allo Scioppio: «quae petisti contro frigus remedia, misi od te» e «iam [quaesitum] de vitando frigore accepisti»; nella primavera del 1608, al Fabri: «mi stupisco che non risponde il Persio a due mie, inviata per Vostra Signoria l’una e l’altra portata»; il 7 novembre 1609, anche allo Scioppio: «sed non video te meis qnidquam rescribere, et quidem multis»; l’8 marzo 1614, a Galileo: «assai mi duole, come li scrissi questa está passata»; il 10 agosto 1624, al cavalier Del Pozzo: «dispiacemi ch’io li [ad Urbano VIII] scrivo, e non ha le mie lettere»; il 15 dicembre, al cardinale Trexo: «scripsi luculentam epistolam, ... habet Cyprianus Martines ...; poteris accersire et extorquere ab eo»; il 6 gennaio 1629, a Marco Aurelio Severino: «al signor Mario Sciupano ho risposto, mi maraviglio che allora dice che non l’ha ricevuta»; il 1° maggio 1632, di nuovo a Galileo: «quanto insinuai a Vostra Signoria fin da principio che trattasse questo suo sistema in dialogo», ed il 5 agosto: «è riuscito secondo io desiderai, quando le scrissi da Napoli che mettesse questa dottrina in dialogo per assicurarci da tutti»; il 23 maggio 1634, al cardinale Antonio Barberini: «la riprego, come altre volte, priusquam interroges non iudices quenquam»; il 16 novembre, al Peiresc: «scrivo a Roma agli amici ed all’eccellentissimo ambasciatore che si la [la Metafisica] faccia rendere a forza o a bona voglia»; l’11 dicembre, al medesimo: «scrissi a Roma il tutto»; il 15 aprile 1635, al medesimo: «io scrissi una cartella allora al signor Gastines e Lamberti dentro quella di Vostra Signoria, e quella di Vostra Signoria era intra un’altra del signor Roberto Galilei; e lui mi scrive che non l’ha ricevuta»; il 3 maggio, al medesimo: i dottori della Sorbona «per lor cortesia mi ringrazierò ch’io l’avessi stimati tanto che l’anno 1625 ebbero da me una lettera dove sottoponevo a lor censura tutti li libri miei e li pregavo pigliassero fastidio di correggerli; ed ho pur la risposta di tutta l’academia assai cortese»; il 3 ottobre 1636, al medesimo: «je suis surpris que vous ne m’ayez pas encore fait la gráce et le plaisir de me dire votre opinion sur le livre De sensu rerum que je vous ai envoyé, ainsi que sur certaines choses dont je vous ai parlé»; ed il 4 marzo 1639, al cardinale padrone: «manderei anche la copia dell’epistola che mandai alla regina d’Inghilterra»8.
Per tornare al Peiresc, l’autore del Dictionnaire des pièces autographes volées aux bíbliothèques publiques de la France attesta che gli furono spedite altre due lettere il 24 febbraio ed il 19 giugno 16369. Comunque sia, non sarebbe difficile continuare ancora l’elenco delle perdute o smarrite, accrescendo cosí la quantitá della roba che manca, in ispecie in alcuni anni in cui nulla o quasi nulla è avanzato alle indegne implacabili persecuzioni ed all’opera edace del tempo. È vero che tra il 1599 ed il 1605, per la rigorosissima vigilanza da cui era circondato, egli si trovò nell’impossibilitá di mettere penna in carta; ma è pur vero ch’è insostenibile che uno de’ piú fecondi e mirabili poligrafi secenteschi non abbia avuto nessun commercio epistolare avanti il 1591 e durante il 1594, il 1610, il 1612-13, il 1615, il 1619. il 1623, il 1625, ed abbia cosí poco sentito il bisogno di corrispondere co’ suoi mille conoscenti dal 1591 al 1593, nel 1595, dopo il 1608, nel 1614, dal 1616 al 1622 e dal 1626 al 1631, e nel 1637. A malgrado di tutto ciò, non difetta materia per formare non un mediocre volume, ma una raccolta ricca di scritture ampie ed interessanti, della cui storia bibliografica mi occuperò ora con brevitá ed esattezza, avvertendo che rimanderò sempre il lettore alla mia edizione, usando il numero con cui ho distinto le singole lettere, e quando occorre, aggiungerò in parentesi la paginatura de’ manoscritti e delle stampe anteriori.
I codici napolitani sono tra quelli di piú conto: il 40. 170. — vecchia collocazione XV. VIII. — della Biblioteca della congregazione dell’Oratorio, l’XI. AA. 32. ed il XIII. D. 81. della Vittorio Emanuele III. Nel 40. 170., dopo un trattato in greco di Teodoro Ermopolita, s’incontrano le copie, e non, come affermò Michele Baldacchini, gli autografi10, d’uno de’ memoriali a Paolo V (ff. 25-9) e della lettera al principe Cesi: XXXII e XLI. L’XI. AA. 32., oltre a due documenti di calvinisti che il Campanella convertí al cattolicismo, contiene sei lettere, nella maggior parte autografe, a monsignor Francesco Ingoli, XCIII-XCV, XCVII, CXV, CXVI; deriva — a me pare di poterlo dedurre dalla vecchia numerazione d’una sola mano ma scontinua (ff. 366, 361, 373, 72, 78, 39) — da un medesimo volume miscellaneo manoscritto; e fu legato alla ex Nazionale dall’Amabile che il 17 settembre 1882 lo acquistò a Roma per sessanta lire dalla nipote del canonico don Giambattista Baldelli, al quale il 25 luglio 1875 era stato donato dal comm. Gaetano Marchetti, giá impiegato pontificio. In fine, il XIII. D. 81., complessivamente di cc. 121, si divide in ventotto manoscritti: una relazione di Spagna ed un inserto in lingua spagnuola (cc. 81-111), un ordine di Paolo IV per una crociata contro i turchi (cc. 1-3), gli Aforismi politici (cc. 47-65), la Cittá del sole (cc. 65-81), e, insieme con queste due opere del Campanella, ventitré lettere dello stesso autore: quattro autografe — XX, XXIV, XXVIII, XXIX (mss. 21, 12, 20, 19), — sette copie in carattere assai minuto ma altrettanto chiaro di Gaspare Scioppio — XIV, XVI, XXII, XXIII, XXV-XXVII (mss. 10, 6, 24-8), — che corresse, postillò, forní d’indirizzo e sottoscrizione le rimanenti dodici d’ignoto amanuense — VI-XIV, XVIII, XIX, XXI (mss. 71-9, 72 . 5, 2, 11, 3, 4, 22, 64, 23). Le raccolse, è facile intenderlo, lo Scioppio che del suo patrocinato serbò, trascrisse e fece calligraficamente trascrivere quel che gli poteva premere, a volte intere composizioni a volte semplici brani; ed al partire da Lucca nel 1617, le lasciò, non si sa se in deposito o in dono, in casa dell’ospite Bartolomeo Puccini, da’ discendenti del quale vennero poi cedute a Salvatore Bongi, da cui per incitamento di Cesare Guasti e di Gaetano Milanesi si affrettò a comprarle per mille lire il prefetto della ex Nazionale Vito Pomari.
Non di minor conto sono i codici che appartengono alle varie biblioteche di Roma, massime alla Barberiniana, cosí ricca di documenti che illustrano il papato di Urbano VIII con la cui storia è intrecciata tanta parte della vita del Campanella dal 29 settembre 1623 al 4 marzo 1639, la data dell’ultima sua. Sono, in fatti, barberiniani i codici XXX. 121. e XXII. 6., l’uno con la LX e LXI (ff. 28 e 40), l’altro con la LIV (f. 78), tutte e tre autografe; come barberiniano è il codice latino 6465 — vecchia segnatura LXXIV. 11., — la preziosa raccolta che ordinò, anni addietro, monsignor Pieralisi, composta degli autografi di ventisette lettere: XLVIII, LV, LVIII, LXIX, LXXI, LXXIII, LXXV, LXXVI, LXXXI, LXXXII, LXXXIV, XC, XCVIII, C-CV, CVIICXI, CXIII, CXX e CXXI. Nella Vaticana stanno inoltre il registro 1447 ed i codici 8193 e 7069, nell’ultimo de’ quali si leggono la XXXVI, XXXVIII, XXXIX e LVII (cc. 1v -2r, 64-8, iv -2v, ivi), nel penultimo la XXX (ff. 3-8) e nel primo la LIII (f. 399); nella Lancisiana le Varie lettere a M. A. Severini, dove, nel t. III — il LXXIV. I. 11., — ho rinvenuto la XLVI, L e LVI (cc. 451, 450 e 449); nell’Archivio della pia Casa degli orfani di Roma il t. 423, uno de’ dieci del carteggio del Fabri, da cui si è tratta la LII (f. 329); ed in quello de’ Caetani di Sermoneta l’autografo della XL, mostrato nel 1878 dal principe di Teano don Onorato a Domenico Bertiúnota.
Appena una, la XLIII, tra le dirette il 1622 da’ letterati al cardinale Alessandro d’Este, nell’Archivio di Stato di Modena; e sole tre, la II, III e IV, cavate dal carteggio di Ferdinando I (filze 183 e 180), nel Mediceo. Perché a Firenze sono custoditi dalla Nazionale i celebri inss. galileiani che hanno dieci lettere del Campanella, autografe o copie di pugno di Galileo — XXXI, XXXIII, XXXV, LIX, LXII. LXV-LXVIII, CVII: — la prima in p. III, t. VII, 2, cc. 66-8; la seconda in p. VI, t. IX, c. 147; la terza in p. VI, t. X, c. 50; dalla quarta alla nona in p. VI, t. XI, cc. 170, 207, 224, 228, 238, 244; la decima in t. 27 (Cimento), c. 13. Gli autografi poi della XLIV, XLV, XLVII, XLIX, LI, LXXVIII, LXXXVIII, XCVI e CXVIII passarono da Roma all’archivio privato di Torino del Duca d’Aosta; e fanno parte del decimo (ff. 249, 251, 253, 255, 257, 245, 246, 247, 248) de’ trentotto tomi dell’epistolario di Cassiano del Pozzo che, essendo stati il 1856 comprati dal principe Emanuele della Cisterna, insieme co’ tre giá venduti alla Biblioteca della facoltá medica di Montpellier, avanzarono della biblioteca cui fin allora erano appartenuti, l’Albaniana, che, acquistata dalla Prussia, andò miseramente perduta con la nave che la trasportava.
Di lá dalle Alpi, quattordici manoscritti si trovano a Parigi, tutti, fuorché la CVI — tolta da un autografo della collezione del signor Feuillet de Conches, — nella Nazionale: uno nel n. 6210, ‘Nouvelle acquis. franç.’ (f. 16 sq.), uno nel n. nuovo 106, ‘Mss. ital.’, ed undici nel v. VI della corrispondenza di monsignor Di Peiresc, 9450, ‘Fond franç.’ (ffT. 244, 232, 233, 236, 237, 238, 240, 241, 245, 248, 250), ossia la LXX, LXXII. LXXIV, LXXVII, LXXX, LXXXIII, LXXXV, LXXXVI, LXXXIX, XCI e XCII. Invece, la XXXVIII ed il n. I dell’Appendice sono nel cod. uffenbachiano (ff. 97-103) e nel v. V della Supellex epistolica Uffenbachii et Volfiorum (ff. 29-32) della Biblioteca civica d’Amburgo; la XVII nel ms. 1305 (f. 4 sqq.) della biblioteca di Jena; e la LII nel cod. L. (101) della Nazionale di Madrid.
(1) Lettere in edite di Tommaso Campanella, Memoria, Roma, co’ tipi del Salviucci, 1878, p. 15, n. 3.
La I. XXXIV, XCIX, CXII, CXIV, LXXIX e CXIX — edite nel 1591, 1622, 1636, 1637 e 1638 insieme co’ libri di cui sono dedicatorie, la Philosophia sensibus demonstrata, l’Apologia pro Galilaeo, l’Atheismus, il De sensu rerum, la Philosophia rationalis e la Metaphysica — si conobbero rispettivamente sessantasette, trentasei, ventidue, ventuno e venti anni avanti della LXIII e LXIV, recate nel t. VI (pp. 407-8) dell’edizione lionese delle Opere del Gassendi, fatta a spese di Lorenzo Anisson. Tenne dietro nel 1705 il proemio d’un’edizione dell’Ateismo, la quale non vide la luce, la XVI, che lo Struvio incluse nel secondo fascicolo (p. 38 sgg.) de’ Collectanea manuscriptorum ex codicibus et fragmentis excerpta; nel 1775 la CXVII con cui Angelo Fabroni aprí la serie (pp. 1-4) delle centoquarantasei Lettere inedite di uomini illustri del t. II — messo a stampa in Firenze da Francesco Moticke e donato a don Sigismondo Chigi, — quantunque pensasse che fosse inutile stordire il mondo con progetti di riforma ch’erano delle chimere, ed aggiungesse un giudizio cartesiano ancora piú sfavorevole; nel 1821 la LXVI con la LXVIII, nel v. II (pp. 144-5) delle Memorie e lettere inedite finora o disperse di Galileo, pubblicate a Modena per G. Vincenzi e C. da Giambattista Venturi, la prima in parte e con la data sbagliata.
Sono, queste, pubblicazioni interessanti per la loro prioritá, non per la fortuna delle lettere campanelliane, la quale principiò veramente il 1838, allorché il Baldacchini incontrò a Parigi Guglielmo Libri che gli promise, e subito dopo gli mandò a Napoli, copia di sette lettere scritte al Peiresc; ed allorché dall’abate Tito Ciccone, bibliotecario dell’Albaniana, per mezzo della principessa Lancellotti, del principe Massimi e di Carlo Troya, potè procurarsi anche copia delle nove che a lui parve non fossero tutte indirizzate al Del Pozzo. Il 1840, ne’ numeri 1 e 2 dell’Appendice (pp. 133-53, 154-68) alla Vita e filosofia di Tommaso Campanella, aggiunse le sedici lettere — XLIV, XLV,XLVII,XLIX, LI, LXX,LXXII, LXXVII, LXXVIII, LXXX, LXXXIII, LXXXV, LXXXVI, LXXXVIII.XCVI, CXVIII, — alle quali sostituí, nell’edizione del 1843 (pp. 190-8), la XLI e la XXXII, convinto (p. 189) che tale «lettura doveva essere di non poco pregio», perché preannunziava nuovi scritti inediti campanelliani lasciati intravvedere dal Libri nel v. IV dell’Histoire des Sciences mathématiques en Italie. Su questa traccia un altro insigne erudito meridionale, bibliotecario della Palatina di Firenze, Francesco Palermo, il 1846 stampò la IV nelle Narrazioni e documenti del regno di Napoli dal 1522 al 1667 (pp. 428-9) che occuparono il t. IX dell’Archivio storico italiano; Eugenio Albèri nel 1851-52 la XXXIII, XXXV, LX, LXII, LXV e LXVII, le prime due nel t. VIII (pp. 305-7, 392-3), le altre nel IX (pp. 238, 267-8, 280-2, 394) dell’edizione completa delle Opere di Galileo, dedicata a Leopoldo II di Lorena11; ed Alessandro d’Ancona, nel 1854, la II, III e V nel Discorso sulla vita e le dottrine del Campanella12 (pp. lxxvii, lxxvi-lxxvii, clxvi-ci.xvii2).
Ma il contributo maggiore fu portato dal 1866 al 1887. Silvestro Centofanti, avendo avuto concesso dalla «liberalissima cortesia» del Bongi di usare, secondo che gli piacesse, le lettere «recate gentilmente a sua cognizione» il 1858 da Bernardino Baroni, il 1866, per comprovare le sue idee intorno al Campanella, ne pubblicò dieci — dalla VI alla IX e dall’XI alla XVI — nella I e II parte del t. IV della serie III dell’Archivio storico italiano (pp. 20-30, 58-67, 67-71, 30-40, 71-85, 87-94, 94-9, 99-103, 85-7, 17-20). Il 1878, nella seduta del 19 maggio, il Berti comunicò a’ Lincei ventinove lettere — XXXI, XL, XLVIII, LV, LVIII, LXIX, LXXL LXXIII. LXXV, LXXVI, LXXXI, LXXXII, LXXXIV, XC, XCVIII, C-CV, CVII-CXI, CXIII, CXX, CXXI, — inserite, dopo d’essere state rivedute e confrontate da Giacomo Giri, dalla p. 447 alla 507 nel v. II della serie III, a. CCLXXV (1877-78), degli Atti accademici della Classe delle scienze morali, storiche e filologiche, e nell’estratto citato dalla p. 11 alla 71. Venne appresso chi nelle ricerche campanelliane non badò a fatiche, tempo e spese, l’Amabile, che il 15 maggio 18S1 offriva «una piccola parte di un lavoro assai piú grande al quale si era dedicato da alcuni anni con tutte le sue forze», in un volumetto cui augurava «una fortuna migliore di quella incontrata dagli altri suoi libri»13, (pp. 31-41, 51-4, 63-8, 54-8. 59-63. 41B. 50-1, 42-5. 45-6, 41C, 42D, 46-50, 68-71) — le tredici lettere del codice sdoppiano lasciate inedite dal Centofanti, cioè la X e dalla XVIII alla XXIX; — l’anno seguente, la LII nel v. III del Fra Tommaso Campanella, la sua congiura ecc.14 (pp. 603-5, n. 524); ed il 1887 altre quattordici — XLII, LIV, LX, LXI, LXXIV, LXXXIX, XCI-XCV, XCVII, CXV, CXVI — ne’ Documenti del v. II del Fra Tommaso Campanella ne’ castelli ecc. (pp. 54, 160-3, 235-6, 242-8, 283-91, nn. 183, 232-4, 304, 311-3, 338-43). In questo stesso torno di tempo, e precisamente il 1885 ed il 1887, prima F. Eyssenhardt con A. von Dommer e poi il solo Eyssenhardt pubblicarono la XXXVIII ed il n. I dell’Appendice nel fascicolo II (pp. 9-20) e nel IV (pp. 41-56) delle Mittheilungen aus der Stadtbibliothek zu Hamburg. Nel nostro secolo sono uscite otto lettere: la XLIII il 1904 in appendice alla ristampa che a Modena Edmondo Solmi ha procurato della Cittá del sole (pp. 58-9), e le rimanenti ne’ pregevoli opuscoli d’un benemerito professore di teologia e filosofia dell’imperiale universitá di Jurjew, il dottor J. Kvačala: la XXXVII in Poslanie Th. Kampanelly k avel. kniazu moscowscomu (Jurjew, Tip. K. Mattisena, 1905, pp. 21-8), la LIII e la LXXXVIII in Th. Campanella und Ferdinand II (Wien, In Kommission bei Alfred Hölder, 1908, pp. 43-4, n. 14, e pp. 45-8, n. 17), la XXXVI, XXXIX e LVII in Th. Campanella, ein Reformer der ausgehenden Renaissance (Berlin, Trowitzsch & Solin, 1909, pp. 152-4), la XXX in Über die Genese der Schriften Th. Campanellas (Jurjew, Gedruckt bei C. Mattiesen, 1911, pp. 9-17).
La prova piú convincente del buon successo di queste lettere è il fatto che vennero ridate alla luce, ed anche in lingua straniera. Come si avverti nell’«avant-propos» e nella nota a p. 235 delle Oeuvres choisies de Campanella15, il 1844 Luisa Colet e Giulio Rosset voltarono in francese la CVI (pp. 253-4) dal manoscritto avuto «grâce á l’obligeance» del Feuillet de Conches, e le altre diciassette — XLIV, XLV, XLVII, XLIX, LI, LXX, LXXII, LXXVIII, LXXX, LXXXIII, LXXXV, LXXXVI, LXXXVIII, XCVI, CXVII, CXVIII (pp. 235-43, 256-9, 244-7, 259-69, 248-54, 279-81, 254-5) — dal testo fornito dal Baldacchini.
La francese della Colet è l’unica versione nota; mentre non poche sono le ristampe, consigliate forse non tanto dal desiderio di porre l’edito accanto all’inedito, non tanto dal vantaggio di addurre, talora integralmente, la testimonianza che ci abbisogna, quanto dalla necessitá di migliorare lezioni spropositate e monche, nonostante che il Baldacchini nella prima (p. 132) e nella seconda edizione (p. 189) assicuri di aver «conservato scrupolosamente la ortografia dell’autore, senza nulla omettere e nulla cangiare, come far si dovrebbe trattandosi di antiche scritture quando si mettono a stampa»; e lo stesso dicano il Centofanti nel chiudere (p. 16) ed il Berti nel cominciare (p. 4, n. 1) l’introduzione. E furono loro i primi a sentirne la necessitá: il Baldacchini che nella impressione del 1840 ripete soltanto (pp. 169-71, n. 3) la CXVII — mettendo insieme diciassette e non, come pretende il Berti16, ventidue lettere, — in quella del 1847, servitosi delle «importanti varianti e correzioni» suggeritegli dal principe B. Buoncompagni, comprende (pp. 154-92, 195-8) l’intera appendice della prima, non che la commendatizia al Cesi (p. 153) che si trova nella seconda, oltre a tre scritture (pp. 193-5, 199-203) fatte conoscere da altri. Non la terza naturalmente, ma la prima stampa del dotto pugliese usa il Palermo che nell’Archivio storico italiano del 1846 riporta, a pp. 428-31, «Lettere di fra Tommaso Campanella», dopo d’avere a p. xxxi avvisato: «vengono in fine una lettera inedita di esso Campanella al granduca di Toscana nel 1593; e parecchi brani di altre sue lettere, giá messe a stampa dal Baldacchini», cioè brani delle lettere al Peiresc ed al Del Pozzo. Cecilia Dentice di Accadia, che non lesse o al momento opportuno non ricordò bene questo esplicito avviso, negli Appunti bibliografici' che intorno agli scritti del filosofo di Stilo pubblicò il 1921 nel v. II del Giornale critico della filosofia italiana, a torto rileva ne’ numeri 184, 198 e 220 (fasc. III, pp. 65-8) che il Palermo prende «un curioso abbaglio», quando poi equivoca lei nell’attribuire i brani del 25 giugno, del 20 luglio, del 10 e 13 agosto 1624 (pp. 59-60, nn. 117-24) a Ferdinando II de’ Medici ed insieme a Cassiano del Pozzo — e non è possibile tacerlo, se non si vuole che il lettore chieda otto lettere e non le quattro che realmente esistono, la XLIV, XLV, XLVII e XLIX.
In confronto di quanto fece l’Amabile, sfigurano tutti coloro che si sogliono ricordare prima e dopo di lui, dalla metá del secolo passato a’ giorni nostri. Nel 1852 l’Albèri ripubblicò nel t. IX delle Opere galileiane (pp. 284-5, 303-4) la LXVI e la LXVIII; due anni appresso, il D’Ancona nel sullodato suo lavoro (v. I, pp. lxxix-lxxxi, cccxxx-cccxxxvi, clxx-clxxi) la IV, XXXII e XLI; dal 1901 al 1904, il Favaro nel v. XI (pp. 21-6, l. 460) la XXXI, nel seguente (pp. 31-3, 287-8; ll. 982 e 1231) la XXXIII e XXXV, nel XIV (pp. 255, 346, 366-7, 373, 397, 414-5. ll. 2157, 2261, 2284, 2289, 2309, 2330) la LX, LXII e LXV-LXVIII, nel XVII (PP- 352-3, l. 3756) la CXVIII, che l’editore «distingue col doppio asterisco», perché erroneamente crede di essere lui «a darla la prima volta alla luce» (v. X, p. 9); ed in fine, nel 1908, J. Kvacala nel Th. Campanella und Ferdinand II (pp. 36-9, n. 3) la XIV. All’incontro, l’Amabile nel v. III del Fra Tommaso Campanella, la sua congiura ecc. (pp. 13, 596-602, nn. 4 e 520) ristampò la V ed VIII; e ne’ Documenti del v. II dell’altra sua opera maggiore (pp. 56-67, 71-4, 69-70, 163-7, 233-6, 275-6, 237-41, 277-80, nn. 184. 185, 192-6, 191, 235-40, 302, 303, 305, 332, 306-9, 333-5) la XVII, XXXIII, XXXV, XLIV, XLV, XLVII, XLIX, L, LII, LX, LXII, LXV-LXVIII, LXX, LXXII, LXXVII, LXXVIII, LXXX, LXXXIII, LXXXV, LXXXVI, LXXXVIII, XCVI e CXVIII.
Nella prefazione del Fra Tommaso Campanella ne’ castelli (p. xxxv) l’Amabile deplorava che «le lettere del Campanella da tutti i piú cospicui raccoglitori, dallo Struvio, dal Troya, dal Libri fino all’Albèri ed al Berti, ci fossero state date con inesattezze incomportabili». E le sue parole ci tornano ancora a mente dopo quarantanni, sebbene fra i raccoglitori, ed al primo posto, oggi vada noverato appunto lui che stampò ventotto lettere e ne ristampò altrettante, aggiungendo nel testo o nelle note delle sue opere elenchi di errori e correzioni per non poche di quelle che non potè riprodurre. Egli è che il Campanella ordinariamente non è uno scrittore piano ed accurato, e non lo escluse il 1609 con lo Scioppio (1 . XXVII, p. 144): «tametsi probatissimos scriptores perlegi, tamen theologorum tedio et bibliorum sacrorum everterunt vel potius miscuerunt emendatimi sermonem barbarismis; barbara deinde philosophorum et astronomorum arabum lectio magis adhuc latinitatem meam inquinavit. Itaque nisi animimi seduto intendam, latine vix scribam. Ego vero rebus nunc intentus ac sensibus, vocabula et phrases parum cordi habeo». E delle varie sue scritture le piú difficoltose sono forse le lettere, le italiane non meno delle latine, per il modo anche onde l’autore le stese e di cui a volte s’impensieriva, confessando (11. LXXXII e LXXX VI, pp. 295 e 303): «non ho lena di copiare», «scrivo correndo», «scrivo in fretta ed in colera, però scusi lo scrivere intricato». Per quanto originali ed efficaci, esse risentono de’ tempi e delle occasioni che le ispirarono: degli anni paurosi della prigionia napolitana, quando tra privazioni e tormenti per cui credeva morire, egli, spiato, furtivamente sfogava la piena del suo dolore e del suo sdegno o buttava giú suppliche ad amici e patroni su d’un foglio procuratosi a stento; oppure degli ultimi suoi anni, quando, se non domo, stanco di patimenti e di vecchiezza, era costretto quotidianamente a battagliare contro avversari vecchi e nuovi che non mostravano alcuna intenzione di smetterla, mentre lui era intento ad un lavoro immane, la preparazione de’ dieci tomi, usciti alla vigilia della sua fine, Instauratarum scientiarum, iuxta propria principia, ex natura et Scriptum, Dei codicibus.
Il Centofanti prometteva (p. 16) di «stampare, come sono scritte», le lettere; io sarò pago se avrò saputo donare un testo che non solo concilii i doveri di fedeltá con gl’imprescindibili criteri della Collezione, ma che sia anche, come occorre, sopra a tutto corretto. Ho avuto a lungo per le mani i codici napolitani ed alcune fotografie degli originali che stanno a Roma, e le vecchie stampe; quando si è rifiutato alle nostre biblioteche ed archivi il prestito de’ manoscritti che sono con giustificata gelosia custoditi da’ loro possessori, non mi sono per lo piú dilungato dall’Amabile che, per il vivo, vivissimo impegno posto in ogni cosa che riguardasse il suo autore, di gran lunga supera, giova ripeterlo, gli altri editori, fin quelli assai piú vicini a noi, non escluso il Favaro che non rifugge dal ripristinare la lezione alberiana, quantunque la si potesse facilmente verificare corretta nelle note a’ gruppi di documenti F ed L del v. II del Fra Tommaso Campanella ne’ castelli (pp. 65-7, 163-7); ed in fine, per le lettere non raccolte dall’Amabile, ho emendato i mille luoghi che a lui risultarono scorretti, in modo da mutare profondamente le lezioni di cui spesso si durava fatica a cogliere il senso. In ogni modo, la mia è una raccolta molto piú ricca delle anteriori; perché, lasciando stare le tre inedite, la XLVI, L e LVI — della cui trascrizione sono in obbligo a Fortunato Pintor, — essa contiene altre centodiciotto lettere che, pur essendo giá note, si trovano nondimeno disperse, ora si è visto, in non so quanti libri, opuscoli, numeri di riviste, a volte irreperibili tra noi, come il Th. Campanella und Ferdinand II, come le Mittheilungen aus der Stadtbibliothek zu Hamburg, donate alla Corsiniana per la presentazione che il 1885 ne fece a’ Lincei Enrico Narducci. E sono tutte precedute da un chiaro e sugoso argomento; e tutte ordinate in conformitá delle date apposte dall’autore o dagli amici di lui, e, in mancanza di esse, secondo le congetture dello stesso Amabile, in grazia del quale la cronologia campanelliana, riveduta e corretta nel 1882 e nel 1887, appare ormai cosí fondata da essere generalmente accolta senza esitanze.
Se mi è sembrato superfluo di rilevare dove e come io abbia ritoccato la punteggiatura per rendere meno difficile la lettura di queste interessanti lettere, mi son valso delle parentesi quadre per riparare alle omissioni, per sciogliere abbreviature incomprensibili e compiere indicazioni oscure. Perché gli errori degli amanuensi, degli stampatori e degli editori, ricavati dalle mie collazioni e da’ miei riscontri, li ho volta per volta riuniti nelle Annotazioni, per le quali ho avuto anche sott’occhio le Opere del Gassendi, le raccolte del Venturi e del Fabroni, non che l’edizione del 1840 della Vita e filosofia di Tommaso Campanella del Baldacchini — questa universalmente ignorata, quelle citate ma non riscontrate da’ miei predecessori. E non ho tralasciato di dare nelle Annotazioni, oltre alle notizie rare o nuove di bibliografia, ciò che qui era un ingombro; e quanto alle citazioni, non ho rammentato che le bibliche, ma le sole palesi e dirette, riprodotte nel testo in corsivo, per lo sviluppo ed importanza grande che hanno, come non sfuggi allo Scioppio che ne lasciò un saggio nelle postille che di suo pugno aggiunse ne’ margini di alcune carte del codice XIII. D. 81.
- ↑ Galileo, Opere, Edizione nazionale, v. XII, p. 304, . 1244.
- ↑ Ivi, p. 352 1 . 1284.
- ↑ Fra Tommaso Campanella ne’ castelli di Napoli, in Roma e Parigi, Napoli, A. Morano, 1887, v. I, p. 155.
- ↑ In De philologia tractatus quos Thomas Crenius colligit, Lugduni, Ex officina Davidis Severini, 1696, p. 182. — Del Syntagma è in corso di stampa una ricca ed elegante edizione critica che io mi auguro sia quella desiderata dagli studiosi del Campanella.
- ↑ L. XI, p. 59, di questa edizione.
- ↑ Amabile, Op. c v. II, Docc., p. 265, I. del Naudé al Di Peiresc del 28 settembre 1635. E qualche pagina appresso (267), lo stesso Gabriele Naudé: «Gaffarel m’envoya une lettre du pére [Campanella] adressée a lui».
- ↑ Ivi, v. I, pp. xix-xx, xxvi-xxviii.
- ↑ Pp. 30, 111 e 124, 141, 155, 176, 205, 312, 226, 235 e 240, 246, 254. 263, 296, 299, 360, 403.
- ↑ Paris, 1851, pp. 83-4.
- ↑ Vita e filosofía di Tommaso Campanella, Napoli, all’insegna di Aldo Manuzio, 1843, p. 189. La prima edizione è del 1840 e la terza del 1847. Per citarle mi limiterò a ricordarne il titolo abbreviato con l’esponente 1, 2 o 3.
- ↑ Firenze, Societá editrice fiorentina, 1851-2.
- ↑ Tommaso Campanella, Opere, Torino, Cugini Tomba, 1854, v. 1.
- ↑ Il codice delle lettere del Campanella nella Nazionale di Napoli, Napoli, Stabilimento tipografico di Gennaro de Angelis, 1881.
- ↑ Napoli, Antonio Morano, 1882.
- ↑ Paris, Lavigne libraire (Imprimerie Wittersbeim), 1844.
- ↑ «Opere pubblicate dopo la morte», n. XXI, in Memoria c., p. 78.