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AL SIG. MARCO VELSERI DELLE MACCHIE SOLARI
nella quale anco si tratta di Venere, della Luna e Pianeti Medicei,
e si scoprono nuove apparenze di Saturno.
(Villa delle Selve, I° dicembre 1612)
Illustrissimo Sig. e Padron Colendissimo
Trovomi a dover rispondere a due gratissime lettere di V. S. Illustrissima, scritte l’una sotto li 28 di Settembre, e l’altra li 5 di Ottobre. Con la prima ricevei i secondi discorsi del finto Apelle, e nell’altra mi avvisa la ricevuta della mia seconda lettera in proposito delle macchie solari, la quale io gl’inviai sino li 23 di Agosto: risponderò prima brevemente alla seconda, poi verrò alla prima, ponderando un poco più diffusamente alcuni particolari contenuti in questa replica di Apelle; già che l’aver considerate le sue prime lettere, e l’aver egli vedute le mie considerazioni, mi mette in certo modo in obbligo di soggiugnere alcune cose concernenti alla mia prima lettera ed alle sue seconde scritture.
Quanto all’ultima di V. S., ho ben sentito con diletto che ella in una repentina scorsa abbia trapassate come verisimili ed assai probabili le ragioni da me addotte per confermar le conclusioni che io prendo a dimostrare; ma il punto sta in quello a che la persuaderà la seconda e le altre letture, non essendo impossibile: che alcuni, ben che di perspicacissimo giudizio, possino talora in una prima occhiata ricever per opera di mediocre perfezione quello che poi, ricercato più accuratamente, gli riesca di assai minor merito, e massime dove una particolare affezione verso l’autore ed una concepita opinion buona preoccupino l’affetto indifferente ed ignudo: onde io con animo ancor sospeso starò attendendo altro suo giudizio, il quale mi servirà per quietarmi, sin che, come prudentissimamente dice V. S., ci sortisca, per grazia del vero Sole, puro ed immacolato, apprendere in Lui con tutte le altre verità quello che ora, abbagliati e quasi alla cieca, andiamo ricercando nell’altro Sole materiale e non puro.
Ma non però doviamo, per quel che io stimo, distorci totalmente dalle contemplazioni delle cose, ancor che lontanissime da noi, se già non avessimo prima determinato, esser ottima resoluzione il posporre ogni atto specolativo a tutte le altre nostre occupazioni. Perché, o noi vogliamo specolando tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Sole; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, trapassando con pochissimo o niuno acquisto dall’uno all’altro. E se, domandando io qual sia la sustanza delle nugole, mi sarà detto che è un vapore umido, io di nuovo desidererò sapere che cosa sia il vapore; mi sarà per avventura insegnato, esser acqua, per virtù del caldo attenuata, ed in quello resoluta; ma io, egualmente dubbioso di ciò che sia l’acqua, ricercandolo, intenderò finalmente, esser quel corpo fluido che scorre per i fiumi e che noi continuamente maneggiamo e trattiamo: ma tal notizia dell’acqua è solamente più vicina e dependente da più sensi, ma non più intrinseca di quella che io avevo per avanti delle nugole. E nell’istesso modo non più intendo della vera essenza della terra o del fuoco, che della Luna o del Sole; e questa è quella cognizione che ci vien riservata da intendersi nello stato di beatitudine, e non prima. Ma se vorremo fermarci nell’appressione di alcune affezioni, non mi par che sia da desperar di poter conseguirle anco ne i corpi lontanissimi da noi, non meno che ne i prossimi, anzi tal una per aventura più esattamente in quelli che in questi. E chi non intende meglio i periodi de i movimenti de i pianeti, che quelli dell’acque di diversi mari? chi non sa che molto prima e più speditamente fu compresa la figura sferica nel corpo lunare che nel terrestre? e non è egli ancora controverso se l’istessa Terra resti immobile o pur vadia vagando, mentre che noi siamo certissimi de i movimenti di non poche stelle? Voglio per tanto inferire, che se bene indarno si tenterebbe l’investigazione della sustanza delle macchie solari, non resta però che alcune loro affezioni, come il luogo, il moto, la figura, la grandezza, l’opacità, la mutabilità, la produzione ed il dissolvimento, non possino da noi esser apprese, ed esserci poi mezi a poter meglio filosofare intorno ad altre più controverse condizioni delle sustanze naturali; le quali poi finalmente sollevandoci all’ultimo scopo delle nostre fatiche, cioè all’amore del divino Artefice, ci conservino la speranza di poter apprender in Lui, fonte di luce e di verità, ogn’altro vero.
Il debito del ringraziare resta in me con molti altri obblighi che tengo a V. S. Illustrissima; perché, se averò investigato qualche proposizion vera, sarà stato frutto de i comandamenti suoi, e i medesimi diranno mia scusa quando non mi succeda il conseguir l’intero d’impresa nuova e tanto difficile.
Circa a quello che ella m’accenna del pensiero dell’Eccellentissimo Sig. Federico Cesi Principe, è ben vero che io mandai a S. E. copia delle due lettere solari, ma non con intenzione che fossero pubblicate con le stampe, ché in tal caso vi arei applicato studio e diligenza maggiore; perché, se ben l’assenso e l’applauso di V. S. sola è da me desiderato e stimato egualmente come di tutto ’l mondo insieme, tuttavia tal indulto mi prometto dalla benignità sua e dalla cortese propensione del suo genio verso me e le cose mie, quale prometter non mi devo dalle scrupolose inquísizioni e severe censure di molti altri. Ed alcune cose mi restano ancora non ben digeste, né determinate a modo mio; delle quali una principale è l’incidenza delle macchie sopra luoghi particolari della solar superficie, e non altrove: perché, rappresentandocisi i progressi di tutte le macchie sotto specie di linee rette (argomento necessario, l’asse di tali conversioni esser eretto al piano che passa per i centri del Sole e della Terra, il quale è il solo cerchio dell’eclittica), resta, per mio parere, degno di gran considerazione, onde avvenga che le caschino solamente dentro ad una zona che per larghezza non si allontana più di 29 o 30 gradi di qua e di là dal cerchio massimo di tal conversione, sì che appena delle mille una trasgredisca, e ben di poco, tali confini; imitando in ciò le leggi de i pianeti, alli quali vengono da simili intervalli limitate le digressioni dal cerchio massimo della conversion diurna. Questo e qualche altro rispetto mi fanno ritardar il pubblicar in più diffuso trattato questa materia. Con tutto ciò il Sig. Principe può disporre ed è padrone assoluto delle cose mie; l’esser poi io sicuro del purgatissimo suo giudizio e del zelo che egli ha della reputazion mia, mi assicura, col lasciarle egli vedere, di averle stimate degne della luce.
Quanto ad Apelle, a me ancora dispiace che e non abbia veduta la mia seconda lettera avanti la pubblicazione della sua Più Accurata Disquisizione, e che la mia ambiguità e pigrizia nello scrivere non abbia potuto tener dietro alla sua resoluzione e prontezza: ben è vero che buona causa della dilazione n’è stato l’esser trattenute le mie lettere più d’un mese in Venezia, dalla troppa stima che di esse fece l’Illustrissimo Sig. Gio. Francesco Sagredo, volendo che ne restasse copia in quella città, dove a me pareva d’essere a bastanza onorato da una semplice sua lettura; il che per la moltitudine delle figure ricercò assai tempo. Dispiacemi ancora della difficoltà che apporta ad Apelle l’aver io scritto nella nostra favella fiorentina; il che ho fatto per diversi rispetti, uno de i quali è il non volere in certo modo abusare la ricchezza e perfezion di tal lingua, bastevole a trattare e spiegar e’ concetti di tutte le facoltadi; e però dalle nostre Accademie e da tutta la città vien gradito lo scrivere più in questo che in altro idioma. Ma in oltre ci ho auto un altro mio particolar interesse, ed è il non privarmi delle risposte di V. S. in tal lingua, vedute da me e da gli amici miei con molto maggior diletto e meraviglia che se fossero scritte del più purgato stile latino; e parci, nel leggere lettere di locuzione tanto propria, che Firenze estenda i suoi confini, anzi il recinto delle sue mura, sino in Augusta.
Quello che V. S. mi scrive essergli intervenuto nel leggere il mio trattato Delle cose che stanno su l’acqua, cioè che quelli che da principio gli parvero paradossi, in ultimo gli riuscirono conclusioni vere e manifestamente dimostrate, sappia che è accaduto qua a molti, reputati per altri lor giudizii persone di gusto perfetto e saldo discorso. Restano solamente in contradizzione alcuni severi difensori di ogni minuzia peripatetica, li quali, per quel che io posso comprendere, educati e nutriti sin dalla prima infanzia de i lor studii in questa opinione, che il filosofare non sia né possa esser altro che un far gran pratica sopra i testi di Aristotele, sì che prontamente ed in gran numero si possino da diversi luoghi raccòrre ed accozzare per le prove di qualunque proposto problema, non vogliono mai sollevar gli occhi da quelle carte, quasi che questo gran libro del mondo non fosse scritto dalla natura per esser letto da altri che da Aristotele, e che gli occhi suoi avessero a vedere per tutta la sua posterità. Questi, che si sottopongono a così strette leggi, mi fanno sovvenire di certi obblighi a i quali tal volta per ischerzo si astringono capricciosi pittori, di voler rappresentare un volto umano o altra figura con l’accozzamento ora de’ soli strumenti dell’agricoltura, ora de’ frutti solamente o de i fiori di questa o di quella stagione: le quali bizzarrie, sin che vengono proposte per ischerzo, son belle e piacevoli, e mostrano maggior perspicacità in questo artefice che in quello, secondo che egli averà saputo più acconciamente elegger ed applicar questa cosa o quella alla parte imitata; ma se alcuno, per aver forse consumati tutti i suoi studii in simil foggia di dipignere, volesse poi universalmente concludere, ogni altra maniera d’imitare esser imperfetta e biasimevole, certo che ’l Cigoli e gli altri pittori illustri si riderebbono di lui. Di questi che mi son contrarii di opinione, alcuni hanno scritto ed altri stanno scrivendo; in pubblico non si è veduto sin ora altro che due scritture, una di Accademico Incognito, e l’altra di un lettor di lingua greca nello Studio di Pisa, ed amendue le invio con la presente a V. S. Gli amici miei son di parere, ed io da loro non discordo, che non comparendo opposizioni più salde, non sia bisogno di risponder altro; e stimano che per quietar questi che restano ancora inquieti, ogn’altra fatica sarebbe vana, non men che superflua per i già persuasi; ed io devo stimar le mie conclusioni vere e le ragioni valide, poi che, senza perder l’assenso di alcuno di quei che sin da principio sentivano meco, ho guadagnato quel di molti che erano di contrario parere. Però staremo attendendo il resto, e poi si risolverà quello che parrà più a proposito.
Vengo ora all’altra lettera di V. S. Illustrissima, condolendomi sopra modo che la pertinacia della sua infermità conturbi, con l’afflizione di V. S., la quiete di tanti suoi amici e servidori, e di me sopra tutti gli altri, travagliato altresì da più mie indisposizioni familiari, le quali, con l’impedirmi quasi continuamente tutti gli esercizii, mi tengono ricordato quanto, rispetto alla velocità de gli anni, sarebbe necessario lo stare in esercizio continuo a chi volesse lasciar qualche vestigio di esser passato per questo mondo. Or, qualunque si sia il corso della nostra vita, doviamo riceverlo per sommo dono dalla mano di Dio, nella quale era riposto il non ci far nulla; anzi non pur doviamo riceverlo in grado ma infinitamente ringraziar la sua bontà, la quale con tali mezzi ci stacca dal soverchio amore delle cose terrene e ci solleva a quello delle celesti e divine.
Le scuse dell’esser breve nello scrivere sono superflue appresso di me, che sempre sono per appagarmi nell’intender solamente che ella mi continui la sua buona grazia: dovrei ben io scusar la mia prolissità, o, per meglio dire, pregar lei a scusarla, e lo farei quando io dubitassi delle scuse che io mi prometto dalla sua cortesia.
Ricevei con la lettera di V. S. la seconda scrittura del finto Apelle, e mi messi a leggerla con gran curiosità, mosso sì dal nome dell’autore, come dalla qualità del titolo, il quale promette una più accurata disquisizione non solo intorno alle macchie solari, ma ancora intorno a i pianeti Medicei. E perché il termine relativo di «disquisizione più accurata» non può non riferirsi all’altre disquisizioni fatte intorno alla medesima materia, non si può dubitare che ei non abbia riguardo ancora al mio Avviso Sidereo, che pure è in rerum natura e non viene eccettuato da Apelle: onde io entrai in speranza d’esser per trovar resoluto tutto quest’argomento, del quale non potei toccarne, in detto mio Avviso, altro che i primi abbozzamenti. Oltre alle cose promesse nel titolo, vi ho trovato l’osservazion di Venere più diffusamente esplicata che nelle prime lettere, e di più alcuni particolari intorno alla Luna: nelle quali tutte materie scorgo molte opinioni di Apelle contrarie alle mie, e varie ragioni e risposte implicite alle cose prodotte da me nella prima lettera che scrissi a V. S.; le quali, per la stima che io fo dell’autore, non conviene che io trapassi o dissimuli, perché, non avendo dinanzi tavola che m’asconda e possa impedirmi la vista di chi passa innanzi e indietro, convien che per termine io gli saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin qui trattato innanzi e indietro, convien che per termine io gli saluti almeno. E perché tutto il progresso di queste differenze si è sin qui trattato innanzi a V. S. Illustrissima, di nuovo costituendomivi produrrò, più brevemente che potrò, quanto mi occorre in questo proposito. E seguendo l’ordine tenuto da Apelle, considero l’ultimo scopo della sua prima parte, che è di dimostrare come la circolazion di Venere è intorno al Sole, e non in altra guisa; e fonda tutta la sua dimostrazione, come anco fece nella prima scrittura, sopra la congiunzione mattutina di essa stella col Sole, occorsa circa li 11 di Dicembre 1611, aggiugnendoci adesso una investigazione della quantità del suo moto sotto ’l disco solare, raccolta con calcoli e dimostrazioni geometriche. E qui mi nascono due scrupoli: l’uno intorno alla maniera di maneggiare tali demostrazioni, non interamente da sodisfare a perfetto matematico; e l’altro circa l’utilità che apporta tal apparato e progresso all’intenzion primaria dell’autore.
Quanto alla maniera del dimostrare, trappasso che qualche astronomo più scrupoloso di me potrebbe risentirsi nel veder trattar archi di cerchi come se fossero linee rette, sottoponendogli a gli stessi sintomi: ma io non ne voglio tener conto, perché nel caso nostro particolare non cascano in uso archi così grandi, che l’error nel computo riesca poi di soverchio notabile.
Ma ammessa anco per esquisita tutta la dimostrazione di Apelle, io non però posso ancor penetrar interamente quello che egli abbia, in virtù di essa, preteso di ottenere da chi volesse persistere in negare la conversione di Venere intorno al Sole: perché, o gli avversarii ammetteranno per giusti i calcoli del Magini, o gli averanno per dubbii e fallaci; se gli hanno per dubbii, la fatica d’Apelle resta come inefficace, con dimostrando ella che Venere veramente venisse alla corporal congiunzione; ma se gli concedono per veri, non era necessario altro computo, bastando la sola differenza de i movimenti del Sole e della stella, insieme con la sua latitudine, presa dall’istesse Efemeridi, a intender come tal congiunzione doveva necessariamente durar tante ore, che molte e molte volte si poteva replicar l’osservazione. Né meno era necessariio il far triplicato esame sopra ’l principio mezo e fine del congresso, essendo notissimo che i calcoli sono aggiustati al mezo della congiunzione; li quali quando ammettessero errore, non però verrebbono necessariamente emendati dal riferirgli al principio o al fine del congresso, non constando ragion alcuna per la qual s’intenda non esser possibile in un calcolo d’una congiunzione errar di maggior tempo di quello della durazione del congresso. Ma io non credo che i contradittori ricorressero al negar la giustezza de i computi astronomici, e massime avendo refugii più sicuri, quali sono quelli che io proposi nella prima lettera. E sì come a i molto periti nella scienza astronomica bastava l’aver inteso quanto scrive il Copernico nelle sue Revoluzionii per accertarsi del rivolgimento di Venere intorno al Sole e della verità del resto del suo sistema, così per quelli che intendono solamente sotto la mediocrità faceva di bisogno rimuovere le da me sopradette ritirate; delle quali io non veggo che Apelle; abbia toccate se non due, e quelle anco mi par che non restino totalmente atterrate.
Io dissi nella prima lettera, che gli avversarii potrebbono ritirarsi a dire, che Venere o non si vegga sotto ’l Sole per la sua piccolezza, o vero perché sia lucida per sé stessa, o vero perche ella sia sempre superiore al Sole.
Quello che Apelle produce per levar la prima fuga a i contradittori, non basta: perché loro primieramente negheranno che l’ombra di Venere sotto ’l Sole deva apparir così grande come la luce della medesima fuori del Sole ma vicina a quello, perché l’irradiazione ascitizia rappresenta la stella assai maggiore del vero; il che è manifesto nella istessa Venere, la quale quando è sottilmente falcata, ed in conseguenza per pochi gradi separata dal Sole, si mostra in ogni modo, alla vista naturale, rotonda come l’altre stelle, ascondendo la sua figura tra l’irradiazione del suo splendore, per lo che non si può dubitare che ella ci si mostri assai maggiore che se fosse priva di lume; ed all’incontro, costituita sotto ’l lucidissimo disco del Sole, non è dubbio che il suo corpicello tenebroso verrebbe diminuito non poco (dico quanto all’apparenza) dall’ingombramento del fulgor del Sole: e però resta molto fallace il concluder che ella fussi per apparir eguale alle macchie di mediocre grandezza. E chi sa che tali macchie, per doverci apparire nel campo splendido del Sole, non sieno molto maggiori di quello che mostrano? Anzi che pur di ciò può esser ottimo testimonio a sé stesso il medesimo Apelle, riducendosi in mente quello che scrisse nella terza delle prime lettere, al secondo corollario, cioè: «maculas satis magnas esse; alias Sol magnitudine sua illas irradiando penitus absorberet»: e l’istesso conviene affermar del corpo di Venere. Doppiamente, adunque, si può errare nell’agguagliar la grandezza di Venere luminosa a quella delle macchie oscure, poi che quanto questa vien apparentemente diminuita dal vero, mediante lo splendor del Sole, tanto quella vien ingrandita.
Né con maggior efficacia conclude quel che Apelle soggiugne in questo medesimo luogo, per mantenere pur Venere incomparabilmente maggiore di quello che è e che io accennai nella prima lettera: e contro a quello che ci mostra il senso e l’esperienza, in vano si produce l’autorità d’uomini per altro grandissimi, li quali veramente s’ingannarono nell’assegnar il diametro visuale di Venere subdecuplo a quel del Sole; ma sono in parte degni di scusa, ed in parte no. Gli scusa in parte il mancamento del telescopio, venuto ad apportar agumento non piccolo alle scienze astronomiche; ma due particolari lasciano da desiderar qualche cosa nella diligenza loro. Uno è, che bisognava osservar la grandezza di Venere veduta di giorno, e non di notte, quando la capellatura de’ suoi raggi la rappresenta dieci o più volte maggiore che ’l giorno, mentre ella ne è priva; ed arebbono facilmente compreso, che ’l diametro del suo piccolissimo globo non agguaglia tal volta la centesima parte del diametro solare. Era, secondariamente, necessario distinguere una costituzione da un’altra, e non indifferentemente pronunziare, il diametro visuale di Venere esser la decima parte di quel del Sole, essendo che tal diametro quando la stella è vicinissima alla Terra è più di sei volte maggiore che quando è lontanissima; la qual differenza se bene non è precisamente osservabile se non col telescopio, è nondimeno assai percettibile anco con la vista semplice. Cessa, dunque, in questo particolare l’autorità degli astronomi citati da Apelle, sopra la quale egli si appoggia. E quando bene si ammettesse, taluna macchia esser visibile nel disco solare che non agguaglia in lunghezza la centesima parte del diametro né in superficie una delle diecimila parti del cerchio visibile del Sole, non creda per ciò di aver concluso maggiormente l’apparizion di Venere; perché io gli replico, che il suo diametro nella congiunzione mattutina non pareggia la dugentesima, né la sua superficie la quarantamilesima parte, del diametro e del visibil disco del Sole.
Quanto alla seconda fuga de gli avversarii, cioè che non sia necessario che Venere oscuri parte del Sole, potendo ella esser corpo per sé stesso lucido, non resta, per mio parere, convinta per quello che produce Apelle; perché, quanto alla semplice autorità de gli antichi e moderni filosofi e matematici, dico che non ha vigore alcuno in stabilire scienza di veruna conclusione naturale, ed il più che possa operare e l’indurre opinione e inclinazion al creder più questa che quella cosa. Oltre che, io non so quanto sia vero che Platone s’inducesse a por Venere sopra ’l Sole rispetto al non vederla nelle congiunzioni sotto ’l suo disco in vista tenebrosa: so ben che Tolommeo parla in questo proposito molto diversamente da quello che vien allegato da Apelle; e troppo grave errore sarebbe stato nel principe de gli astronomi il negar le congiunzioni dirette di Venere e del Sole. Quello che dice Tolommeo nel principio del libro nono della sua Gran Costruzione, mentre e’ ricerca qual si deva più probabilmente costituir l’ordine de i pianeti, impugnando la ragion di quelli che mettevano Venere e Mercurio superiori al Sole perché non l’avevano mai veduto oscurar da loro, mostra l’infirmità di questo argomento, dicendo non esser necessario che ogni stella inferiore al Sole gli faccia eclisse, potendo esser sotto ’l Sole, ma non in alcun de’ cerchi che passano per il centro di quello e per l’occhio nostro: ma non per questo afferma, ciò accadere a Venere; anzi, soggiugnendo egli l’essempio della Luna, la quale nella maggior parte delle congiunzioni non adombra ’l Sole, mostra chiaramente che e’ non ha voluto intender altro di Venere, se non che ella può esser sotto ’l Sole, né però oscurarlo in tutte le congiunzioni, onde possa benissimo esser accaduto, le congiunzioni osservate da quei tali non essere state dell’eclittiche. Molto sicuramente parla il Molto Reverendo P. Clavio, affermando tale ombra restar invisibile a noi per la sua piccolezza; e se bene da i detti di questi autori par che gl’inclinassero a stimar Venere non splendida per sé stessa, ma tenebrosa, tuttavia tale opinione pura non basta a convincer gli avversarii, a’ quali non mancherà il poter produrre opinioni di altri in contrario.
L’altro argomento che Apelle produce, tolto dall’ottenebrazione della Luna nel passar sotto ’l Sole, non può aver vigore s’e’ non dimostra prima che ’l mancamento nel Sole si faccia cospicuo sin quando la Luna occupa del suo disco meno di una delle quarantamila parti; altramente la proporzion dalla Luna a Venere non procede. Or quanto ciò sia diffilcile ad esequirsi, e manifesto ad ogn’uno.
Che Mercurio sia stato da diversi veduto sotto ’l Sole, è non solamente dubbio, ma inclina assai all’incredibile, come nell’altra accennai a V. S.: e quanto al Keplero citato in questo luogo, io non dubito punto che, come d’ingegno perspicacissimo e libero, e amico assai più del vero che delle proprie opinioni, ei sia per restar persuasissimo, tali negrezze vedute nel Sole essere state alcune delle macchie, e le congiunzioni di Mercurio aver solamente porto occasione d’applicarvi in quelle ore più fissa ed accurata considerazione; con la qual diligenza anco in altri tempi si sarieno vedute, sì come frequentemente si sono per vedere per l’innanzi, e già le ho fatte vedere a molti.
Resti per tanto indubitabilmente dimostrata l’oscurità di Venere dalla sola esperienza che io scrissi nella prima lettera, e che ora pone qui Apelle nel terzo luogo, cioè dal vedersi variar in lei le figure al modo della Luna; e siaci, oltre a ciò, per solo fermo e così forte argomento da stabilir la revoluzione di Venere circa ’l Sole, che non lasci luogo alcuno di dubitare: e però si deve reputare degno d’esser da Apelle delineato, come figura principalissima, nella più cospicua e nobil parte della sua tavola, e non in un angolo in guisa di pilastro, per appoggio e sostegno di qualche figura che senz’esso sembrasse a’ riguardanti di minacciar rovina.
Ma passo ad alcune considerazioni intorno a quello che Apelle in parte replica ed in parte aggiugne al già scritto in proposito delle macchie solari. Dove in generale mi par che nelle loro determinazioni e’ vadia più presto manco resoluto che avanti non aveva fatto, se ben insieme insieme si mostra desideroso di presentarle più tosto modificate che diversificate, anzi che nel fine afferma, tutte le cose dette nelle prime lettere restar costanti; con tutto ciò vengo in qualche speranza d’averlo a vedere nella terza scrittura d’opinioni intrinsecamente assai conformi alle mie, non dico già in virtù di queste lettere, le quali per la difficoltà della lingua non possono da lui esser vedute, ma perché col pensare verranno ancora a lui in mente quelle osservazioni, quelle ragioni e quelle soluzioni medesime, che hanno persuaso me a scrivere ciò che ho scritto nella prima e nella seconda lettera e che aggiungo nella presente. E già si vede quanti particolari e’ mette in questa seconda scrittura, non osservati ancora nella prima. Stimò avanti, le macchie solari essere tutte di figura sferica, dicendo che se si potessero veder separate dal Sole, ci apparirebbono tante piccole lune, altre falcate, altre in forma di mezzo cerchio, altre di più che mezzo, e forse altre interamente piene: ora con maggior verità scrive, rarissime essere sferiche, e spessissime di figure irregolari. Ha parimente osservato, come rarissime o nessuna mentengono la medesima figura per tutto ’l tempo che restano cospicue, ma stravagantemente si vanno mutando, ed ora crescendo ora scemando; e, quello che è più, ha veduto come improvisamente altre nascono, altre si dissolvono, anco nel mezo del Sole, e come alcune si dividono in due o più ed, all’incontro, molte si uniscono in una: i quali particolari furon da me toccati nella prima lettera. Stimò già, che le fossero stelle erranti, e situate in diverse lontananze dal Sole, sì che alcune fussero meno ed altre più remote, in guisa che moltissime andassero vagando tra ’l Sole e Mercurio e ancora tra Mercurio e Venere, in debite distanze, facendosi visibili solamente quando s’incontrano col Sole; ma ora non sento raffermar una tanta lontananza, e parmi che e’ si contenti di mostrar che le non sono dentro al corpo solare né contigue alla sua superficie, ma fuori, in lontananza solamente di qualche considerazione, come si può ritrarre dalle ragioni che egli usa in dimostrar la sua opinione.
Io facilmente converrei con Apelle in creder che le non sieno nel Sole, cioè immerse dentro alla sua sustanza; ma non affermerei già questo in vigor delle ragioni addotte da esso, nella prima delle quali e’ piglia un supposto che senz’altro gli sarà negato da chi volesse difender il contrario: perché non è alcuno così semplice, che volendo sostener le macchie esser immerse dentro alla solar sostanza, e appresso ammetter la loro continua mutabilità di figura di mole di separazione ed accozzamento, conceda insieme il Sole esser duro ed immutabile; ma resolutamente negherà tale assunto e la prova che di esso apporta Apelle, fondata su l’opinione, per suo detto, comune di tutti i filosofi e matematici: né piccola ragione averà di negarla, sì perché l’autorità dell’opinione di mille nelle scienze non val per una scintilla di ragione di un solo, sì perché le presenti osservazioni spogliano d’autorità i decreti de’ passati scrittori, i quali se vedute l’avessero, avrebbono diversamente determinato. In oltre, quei medesimi autori che hanno stimato il Sole non esser cedente né mutabile, hanno molto men creduto ch’e’ fosse sparso di macchie tenebrose; e però dove fosse forza che l’opinione del non esser macchiato cedesse all’esperienza, indarno si ricorrerebbe per difesa all’opinione della durezza e dell’immutabilità, perché dove cede quella che pareva più salda, molto meno resisteranno le men gagliarde: anzi gli avversarii, acquistando forza, negheranno il Sole esser duro o immutabile, poi che non la semplice opinione, ma l’esperienza glie lo mostra macchiato. E quanto a i matematici, non si sa che alcuno abbia mai trattato della durezza ed immutabilità del corpo solare, né che l’istessa scienza matematica sia bastante a formar dimostrazioni di simili accidenti.
La seconda ragione, fondata sul vedersi alcune macchie più oscure verso la circonferenza del Sole che poi quando sono verso le parti medie, dove par che si vadino rischiarando, non par che stringa l’avversario a doverle por fuori del Sole; sì perché l’esperienza del fatto per lo più, se non sempre, accade in contrario, sì perché la rarefazione e condensazione, accidenti non negati alle macchie, son bastanti per render ragione di tal effetto, e forse non men di quello che Apelle n’apporta dicendo che l’irradiazione più diretta e più forte, fatta quando la macchia è intorno al mezo del disco che quando è vicina alla circonferenza, produce tal diminuzion di negrezza. [...] E però, per mio parere, meglio per avventura sarebbe il dire (qual volta non si volesse ricorrere al più o men denso e raro) che l’istessa macchia appar meno oscura intorno al centro che verso l’estremità, perché qui vien veduta per coltello e quivi per piatto, accadendo in questo l’istesso che in una piastra di vetro, la quale veduta per taglio appare oscura e opaca molto, ma per piano chiara e trasparente; e questo servirebbe per argomento a dimostrar che la larghezza di tali macchie è molto maggior che la loro profondità.
Quello che si soggiugne per provare che le macchie non son lagune o cavernose voragini nel corpo solare, si può liberamente concedere tutto, perché io non credo che alcuno sia per introdur mai una tale opinione per vera. Ma perché né io né, che io sappia, altri ha conteso che le macchie siano immerse nella sustanza del Sole, ma ben ho replicatamente scritto a V. S., e, s’io non m’inganno, necessariamente concluso, che le siano o contigue al Sole o per distanza a noi insensibile separate da quello, è bene che io esamini le ragioni che Apelle produce per argomenti irrefragabili onde la di loro lontananza non piccola dalla solar superficie ci si faccia manifesta.
Prende Apelle la sua ragione dal vedersi le macchie dimorar a tempi ineguali sotto la faccia del Sole, e quelle che la traversano per la linea massima, passando per lo centro, dimorar più che quelle che passano per linee remote dal centro; e ne adduce l’osservazion di due, l’una delle quali dimorò giorni 16 nel diametro, e l’altra, passando alquanto lontana dal centro, scorse la sua linea in giorni 14. Or qui vorrei trovar parole di poter senza offesa di Apelle, il quale io intendo di onorar sempre, negare tale esperienza; perché, avendo io circa questo particolare fatte molte e molte diligentissime osservazioni, non ho trovato incontro alcuno onde si possa concluder altro, se non che le macchie tutte indifferentemente dimorano sotto ’l solar disco tempi eguali, che al mio giudizio sono qualche cosa più di giorni 14: e questo affermo tanto più resolutamente, quanto che sarà per avanti in potestà di ciascheduno il farne senza incomodo mille e mille osservazioni. E quanto alla particolare esperienza che Apelle ci propone, v’ho qualche scrupolo, per aver egli eletto nella prima osservazione non il transito di una macchia sola, ma di un drappello assai numeroso, e di macchie che molto si andarono variando di posizione tra di loro; dalle quali cose ne conséguita che tale osservazione, come soggetta a molte accidentarie alterazioni, non sia a bastanza sicura per determinare essa sola una tanta conclusione. Anzi gl’irregolari movimenti particolari di esse macchie rendono le osservazioni soggette a tali alterazioni, che non è da prender resoluzione se non dalla conferenza di molti e molti particolari: il che ho fatto sopra la moltitudine di più di 100 disegni grandi ed esatti, ed ho incontrate bene alcune piccole differenze di tempi ne i passaggi, ma ho anco trovato alternatamente esser non meno talor più tarde le macchie de’ cerchi più vicini al centro del disco, che altra volta quelle de’ più remoti.
Ma quando anco non ci fosse in pronto di poter far incontri sopra i disegni già fatti e sopra quelli che si faranno, parmi ad ogni modo di poter dalle cose stesse proposte ed ammesse da Apelle ritrar certa contradizione, per la quale molto ragionevolmente si possa dubitare circa la verità dell’addotta osservazione ed, in consequenza, della conclusione che indi si deduce. Imperò che io prima considero, che dovendo egli valersi della disegualità de’ tempi de’ passaggi delle macchie come di argomento necessariamente concludente la notabil lontananza loro dalla superficie del Sole, è forza che e’ supponga, quelle essere in una sola sfera che di un moto comune a tutte si vada volgendo; perché se e’ volesse che ciascuna avesse suo moto particolare, niente da ciò si potrebbe raccòrre che concernesse alla prova della remozion loro dal Sole, perché si potria sempre dire che la maggior o la minor dimora di queste o di quelle nascesse non dalla distanza della lor sfera dal Sole, ma dalla vera e reale desegualità de’ lor proprii moti. [...]
E perché, come ho detto ancora, questo è punto principalissimo in questa materia, e la differenza tra Apelle e me è grande (poi che le conversioni delle macchie a me paiono tutte eguali e traversare il disco solare in giorni l4 e mezzo in circa, e ad esso tanto ineguali, che alcuna consumi in tal passaggio giorni 16 o più, ed altra 9 solamente), parmi che sia molto necessario il tornar con replicato esame a ricercar l’esatto di questo particolare; ricordandoci che la natura, sorda ed inesorabile a’ nostri preghi, non è per alterare o ner mutare il corso de’ suoi effetti, e che quelle cose che noi procuriamo adesso d’investigare e poi persuadere a gli altri, non sono state solamente una volta e poi mancate, ma seguitano e seguiteranno gran tempo il loro stile, sì che da molti e molti saranno vedute ed osservate: il che ci deve esser gran freno per renderci tanto più circospetti nel pronunziare le nostre proposizioni, e nel guardarci che qualche affetto, o verso noi stessi o verso altri, non ci faccia punto piegare dalla mira della pura verità. [...]
Io spero che da quanto sin qui ho detto Apelle doverà restar satisfatto, e massime aggiugnendovi quello che ho scritto nella seconda lettera; e crederò ch’e’ non sia per metter difficoltà non solo nella massima vicinanza delle macchie al globo solare ma né anco nella di lui revoluzione in sé medesimo. In confirmazion di che, posso aggiugnere alle ragioni che scrissi nella seconda lettera a V. S., che nella medesima faccia del Sole, si veggono tal volta alcune piazzette più chiare del resto, nelle quali, con diligenza osservate, si vede il medesimo movimento che nelle macchie; e che queste sieno nell’istessa superficie del Sole, non credo che possa restar dubbio ad alcuno, non essendo in verun modo credibile che si trovi fuor del Sole sustanza alcuna più di lui risplendente: e se questo è, non mi par che rimanga luogo di poter dubitare del rivolgimento del globo solare in sé medesimo. E tale è la connession de’ veri, che di qua poi corrispondentemente ne séguita la contiguità delle macchie alla superficie del Sole, e l’esser dalla sua conversione menate in volta; non apparendo veruna probabil ragione, come esse (quando fossero per molto spazio separate dal Sole) dovessero seguitare il di lui rivolgimento.
Restami ora il considerare alcune consequenze che Apelle va deducendo dalle cose disputate: la somma delle quali par che tenda al sostentamento di quel ch’egli si trova avere stabilito nelle sue prime lettere, cioè che tali macchie in fine altro non sieno che stelle vaganti intorno al Sole; perché non solamente e’ torna a nominarle stelle solari, ma va accomodando alcune convenienze e requisiti tra esse e l’altre stelle, acciò resti tolta ogni discrepanza e ragione di segregarle dalle vere stelle. Per tal rispetto ed anco per applauder alle mie montuosità lunari (del quale affetto io gli rendo grazie), dice che tal mia opinione non è improbabile scorgendosi anco l’istesso nella maggior parte di queste macchie; ragione, in vero, che congiunta con le altre dimostrazioni ch’io produco, doverà quietare ogn’uno.
Che il parer di quelli che pongono abitatori in Giove, in Venere in Saturno e nella Luna sia falso e dannando, intendendo però per abitatori gli animali nostrali e sopra tutto gli uomini, io non solo concorro con Apelle in reputarlo tale, ma credo di poterlo con ragioni necessarie dimostrare. Se poi si possa probabilmente stimare, nella Luna o in altro pianeta esser viventi e vegetabili diversi non solo da i terrestri, ma lontanissimi da ogni nostra immaginazione, io per me né lo affermerò né lo negherò, ma lascerò che più di me sapienti determinino sopra ciò, e seguiterò le loro determinazioni; sicuro che sieno per esser meglio fondate della ragione addotta da Apelle in questo luogo, cioè che sarebbe assurdo il mettergli in tanti corpi, quasi che il porre animali, per essempio, nella Luna non si potesse far senza porgli anco nelle macchie solari. Né anco ben capisco l’illazione che fa Apelle del doversi conceder qualche lume reflesso alla Terra, persuadendone ciò le macchie solari: anzi, perché la loro reflessione non è molto cospicua, e quello che in esse scorgiamo non può esser altro che lume refratto, se nulla convenisse dedur da tale accidente sarebbe più presto che la Terra fosse di sostanza trasparente e permeabile dal lume del Sole; il che poi non appar vero. Non però dico che la Terra non lo refletta; anzi per molte ragioni ed esperienze son sicurissimo ch’ella non meno s’illustra di qualunque altra stella, e che con la sua reflessione luce assai maggiore rende alla Luna di quella che da lei riceve.
Ma poi che Apelle si rende così difficile a conceder questa così potente reflessione di lume fatta dal globo terreste, e così facile ad ammettere il corpo lunare traspicuo e penetrabile da i raggi solari, come in questo luogo ed ancor più apertamente replica verso il fine di questi discorsi, voglio produrre una o due delle molte ragioni che mi persuadono quella conclusione per vera e questa per falsa; le quali, per avventura risolute con qualche occasione da Apelle, potrebbono farmi cangiar opinione. Non tacerò intanto che io fortemente dubito, che questo comun concetto, che la Terra, come opachissima oscura ed aspra che l’è, sia inabile a reflettere il lume del Sole, sì come all’incontro molto lo reflette la Luna e gli altri pianeti, sia invalso tra ’l popolo perché non ci avvien mai il poterla vedere da qualche luogo tenebroso e lontano nel tempo che il Sole la illumina, come, per l’opposito, frequentemente vediamo la Luna, quando ed ella si trova nel campo oscuro del cielo, e noi siamo ingombrati dalle tenebre notturne; ed accadendoci, dopo aver non senza qualche meraviglia fissati gli occhi nello splendor della Luna e delle stelle, abbassargli in Terra, restiamo dalla sua oscurità in certo modo attristati, e di lei formiamo una tale apprensione, come di cosa repugnante per sua natura ad ogni lucidezza; non considerando più oltre, come nulla rileva al ricevere e reflettere il lume del Sole, la densità oscurità ed asprezza della materia e che l’illuminare è dote e virtù del Sole, non bisognosa d’eccellenza veruna ne i corpi che devono essere illuminati, anzi più presto sendo necessario il levargli certe condizioni più nobili, come la trasparenza della sustanza e la lisciezza della superficie, facendo quella opaca e questa ruvida e scabrosa: ed io son molto ben sicuro, contro alla comune opinione, chè quando la Luna fosse polita e tersa come uno specchio, ella non solamente non ci refletterebbe, come fa, il lume del Sole, ma ci resterebbe assolutamente invisibile, come se la non fosse al mondo; il che a suo luogo con chiare dimostrazioni farò manifesto.
Ma per non traviare dal particolare che ora tratto, dico che facilmente m’induco a credere, che se già mai non ci fosse occorso il veder la Luna di notte, ma solamente di giorno, avremmo di lei fatto il medesimo concetto e giudizio che della Terra: perché, se porremo cura alla Luna il giorno, quando talvolta, sendo più che ’l quarto illuminata, ella s’imbatte a trovarsi tra le rotture di qualche nugola bianca o vero incontro a qualche sommità di torre o altro muro di color mezzanamente chiaro, quando rettamente sono illustrati dal Sole, sì che della chiarezza di quelli si possa far parallelo col lume della Luna, certo si troverà la lor lucidezza non esser inferiore a quella della Luna; onde se loro ancora potessero mantenersi così illustrati sin alle tenebre della notte, lucidi ci si mostrerieno non meno della Luna, né men di quella illuminerebbono i luoghi a loro circonvicini, sin a tanta distanza da quanta la lor grandezza non apparisse minor della faccia lunare; ma le medesime nugole e l’istesse muraglie, spogliate de’ raggi del Sole, rimangono poi la notte, non men della Terra, tenebrose e nere. Di più, gran sicurezza doveremo noi pur prender dall’efficace reflession della Terra dal veder quanto lume si sparga in una stanza priva d’ogn’altra luce, e solo illuminata dalla reflession di qualche muro oppostogli e tocco dal Sole, ancor che tal reflessione passi per un foro così angusto, che dal luogo dove ella vien ricevuta non apparisca il suo diametro sottendere ad angolo maggiore che ’l visual diametro della Luna; nulla di meno tal luce secondaria è così potente, che, ripercossa e rimandata dalla prima in una seconda stanza, sarà ancor tanta che non punto cederà alla prima reflessione della Luna: di che si ha chiara e facile esperienza dal veder che più agevolmente leggeremo un libro con la seconda reflession del muro, che con la prima della Luna. Aggiungo finalmente, che pochi saranno quelli a’ quali, scorgendo di notte da lontano qualche fiamma sopra d’un monte, non sia accaduto star in dubbio, se fosse un fuoco o una stella radente l’orizonte, non ci apparendo il lume della stella superiore a quel d’una fiamma; dal che ben si può credere che se la Terra fosse tutta ardente e piena di fiamme, veduta dalla parte tenebrosa della Luna, si mostrerebbe non men lucida d’una stella: ma ogni sasso ed ogni zolla percossa dal Sole e assai più lucida che se ardesse; il che si conoscerà facilmente, accostando una candela accesa appresso una pietra o un legno direttamente ferito dal raggio solare, al cui paragone la fiamma resta invisibile: adunque la Terra, percossa dal Sole, veduta dalla parte tenebrosa della Luna, si mostrerà lucida come ogn’altra stella; e tanto maggior lume refletterà nella Luna, quanto ella vi si dimostra di smisurata grandezza, cioè di superficie circa 12 volte maggiore di quello che la Luna apparisce a noi; oltre che, trovandosi la Terra nel novilunio più vicina al Sole che la Luna nel plenilunio, e però sendo più gagliardamente, cioè più d’appresso, illuminata quella che questa, più gagliardamente, in consequenza refletterà il lume la Terra verso la Luna, che la Luna verso la Terra.
Per queste e per molte altre ragioni ed esperienze, che per brevità tralascio, dovrebbe, per mio credere, stimarsi la reflession della Terra bastante alla secondaria illuminazion della luna, senza bisogno d’introdurvi alcuna perspicuità, e massime perspicuità in in quel grado che da Apelle ci viene assegnata, nella quale mi par di scorgere alcune inesplicabili contradizioni. Egli scrive, la trasparenza del corpo lunare esser tanta, che ne gli eclissi del Sole, mentre di lui una parte era ricoperta dalla Luna, si scorgeva sensibilmente per la di lei profondità tralucer il disco del Sole, notabilmente dintornato e distinto. Ora io noto, che una semplice nugola, e non delle più dense, interponendosi tra il Sole e noi, talmente ce l’asconde, che indarno cercheremo di appostare a molti gradi il luogo dove ei si ritrova nel Cielo, non che potessimo vedere il suo perimetro distinto e terminato; e molto frequentemente si vedrà il Sole mezo coperto da una nugola, senza che appaia né anco accennato un minimo vestigio della circonferenza della parte celata; e pure siamo sicuri che la grossezza di tal nugola non sarà molte decine o al più centinaia di braccia: ed oltre a ciò, se tal volta, essendo sul giogo di qualche montagna, c’imbattiamo a passar per una tal nugola, non la troviamo esser tanto densa e opaca, che almeno per alcune poche braccia non dia il transito alla nostra vista; il che non farebbe per avventura altrettanta grossezza di vetro o di cristallo: onde per necessaria consequenza si raccoglie, se e vero quanto Apelle scrive, che la trasparenza della Luna sia infinitamente maggiore che quella d’una nugola, poi che molto meno impediscono il passaggio de’ raggi solari duemila miglia di profondità della sustanza lunare, che poche braccia di grossezza d’una nugola; sarà, dunque, la sustanza lunare assai più trasparente del vetro o del cristallo: la qual cosa poi per altri rispetti si convince d’impossibilità. Perché, primieramente da un diafano nel quale tanto si profondassero i raggi solari, niuna o pochissima reflessione si farebbe; dove che, all’incontro, grandissima si fa dalla Luna. Secondariamente, il termine che distinguesse la parte illuminata della Luna dalla parte non tocca da i raggi diretti del Sole sarebbe nullo o indistintissimo, come si può vedere in una gran palla di vetro piena d’acqua, ben che torbida, o d’altro liquore non interamente trasparente (ché se fosse acqua limpida, tal termine non si vedrebbe punto). Terzo, essendo tanto trasparente la sustanza lunare, che in grossezza di duemila miglia desse il transito al lume del Sole, non si può dubitare che una grossezza della medesima materia che non fosse più di una delle dugento o trecento parti sarebbe in tutto trasparentissima; al che totalmente repugnano le montuosità lunari, le quali tutte, ben che molte di loro si vegghino assai sottili e strette, oscurano d’ombre nerissime le parti circonvicine e basse, come in luoghi innumerabili si scorge, e massime nel confine tra l’illuminato e l’oscuro, dove taglientissimamente e crudamente, quanto più imaginar si possa, i lumi conterminano con le ombre, il quale accidente in verun modo non può aver luogo se non in materie simili in asprezza ed opacità alle nostre più alpestri montagne. Finalmente, quando lo splendor del Sole penetrasse tutta la corpulenza della Luna, la chiarezza dell’emisfero non tocco da i raggi dovria mostrarsi sempre l’istessa né mai diminuirsi, poi che sempre è nell’istesso modo illuminata la metà della Luna: o se pur diversità alcuna veder vi si dovesse dovrebbesi nel novilunio veder la parte di mezzo più oscura del resto, essendo quivi maggior la profondità della materia da esser penetrata; e nelle quadrature maggior chiarezza dovria esser vicino al confin della luce, e minor nella parte più remota. Le quali cose, e molte altre che per brevità trapasso, rendono iscordissima tal ipotesi dall’apparenze; dove che l’assunto dell’opacità e dell’asprezza della Luna, e la reflessione del lume del Sole nella Terra, ipotesi tutte e vere e sensate, con mirabil facilità e pienezza satisfanno ad ogni particolar problema. Ma di ciò più diffusamente tratto in altra occasione.
E tornando a i particolari d’Apelle, sento nascermi qualche poco d’inclinazione a dubitar ch’egli, trasportato dal desiderio di mantenere il suo primo detto, né potendo puntualmente accomodar le macchie a gli accidenti per l’addietro creduti convenirsi all’altre stelle, accomodi le stelle a gli accidenti che veggiamo convenirsi alle macchie: il che assai manifesto par che si scorga in due altri gran particolari ch’egli introduce. L’uno de’ quali è, che probabilmente si possa dire, anco le altre stelle esser di varie figure ed apparir rotonde mediante il lume e la distanza, come accade nella fiamma della candela (e ci si potria aggiugnere, in Venere cornicolata): e in vero tale asserzione non si potrebbe convincer di manifesta falsità, se il telescopio, col mostrarci la figura di tutte le stelle, così fisse come erranti, di assoluta rotondità, non decidesse tal dubbio. L’altro particolare è, che non si potendo negare che le macchie si produchino e si dissolvino, per non le sequestrar per tale accidente dall’altre stelle, non dubita d’affermare che anco le altre stelle si vadino disfacendo e redintegrando; ed in particolare reputa per tali quelle ch’io ho osservato muoversi intorno a Giove, delle quali torna a replicare il medesimo che scrisse nelle prime lettere, raffermandolo come fondatamente detto, cioè che, al modo stesso dell’ombre solari, altre repentinamente appariscono ed altre svaniscono, sì che, pur come quelle, altre sempre ad altre succedono, senza mai ritornar le medesime: né picciolo argomento cava in confirmazion di ciò dalla difficoltà e forse impossibilità, come egli stima, del cavare i loro periodi ordinati dalle osservazioni, delle quali egli afferma averne molte ed esatte, e sue; proprie e di altri. Or qui desidererei bene che Apelle non continuasse di reputarmi per uomo così vano e leggiero, che non solo i’ avessi palesate ed offerte al mondo macchie ed ombre per istelle, ma, quello che più importa, avessi dedicato alla gloria di sì gran Principe qual è il Serenissimo Gran Duca mio Signore, ed all’eternità di casa tanto regia, cose momentanee instabili e transitorie. Replicogli per tanto, che i quattro pianeti Medicei sono stelle vere e reali, permanenti e perpetue come l’altre, né si perdono o ascondono se non quanto si congiungono tra loro o con Giove, o si oscurano tal volta per poche ore nell’ombra di quello, come la Luna in quella della Terra: hanno i lor moti regolatissimi ed i lor periodi certi, li quali se egli non ha potuto investigare, forse non vi si è affaticato quanto me, che dopo molte vigilie pur li guadagnai, e già gli ho palesati con le stampe nel proemio del mio trattato Delle cose che stanno su l’acqua o che in quella si muovono, come V. S. arà potuto vedere; ed acciò che Apelle possa tanto maggiormente deporre ogni dubbio, io mando a V. S. le costituzioni future per due mesi, cominciando dal dì primo di Marzo 1613, con le annotazioni de i progressi e mutazioni che d’ora in ora son per fare, le quali egli potrà andar incontrando, e troveralle rispondere esattamente, se già non mi sarà per inavvertenza occorso qualche errore nel calcolarle. Desidero appresso, che con nuova diligenza torni ad osservarne il numero che troverà non esser più di 4: e quella quinta che e’ nomina, fu senz’altro una fissa, e le conietture dalle quali e’ si lasciò sollevare a stimarla errante, ebbero per lor fondamento varie fallacie; conciosia cosa che le sue osservazioni, primieramente sono errate bene spesso, come io veggo da’ suoi disegni, perché lasciano qualche stella che in quelle ore fu cospicua: secondariamente, gl’interstizi tra di loro e rispetto a Giove sono errati quasi tutti, per mancamento, com’io credo, di modo e di strumento da potergli misurare; terzo, vi sono grandi errori nella permutazione delle stelle, scambiandole il più delle volte l’una dall’altra e confondendo le superiori con l’inferiori, senza riconoscerle di sera in sera; le quali cose gli sono state causa dell’inganno.
[...] Ma più: qual incostanza è questa d’Apelle a voler, per provare una sua fantasia, suppor in questo luogo che le stelle notate nelle sue osservazioni e contrassegnate con i medesimi caratteri si conservino le medesime; dicendo poi poco più a basso, creder fermamente che le si vadino continuamente producendo e successivamente dissolvendo, senza ritornar mai l’istesse? E se questo è, qual cosa vuol egli, e può, raccòrr da questi suoi discorsi?
All’altra ragione che Apelle adduce pur in confirmazione della vera esistenza del suo quinto pianeta Gioviale, non mi permettendo la fede e l’autorità, ch’ei tiene appresso di me, ch’io metta dubbio nell’an sit, non posso dir altro se non che io non son capace, come possa accadere che una stella, veduta col telescopio di mole e splendore pari ad una della prima grandezza, possa in manco 10 giorni, e, quel che più mi confonde, senza muoversi d’un quarto o di un ottavo di grado, anzi, per più ver dire, senza punto mutar luogo, possa, dico, diminuirsi in maniera, che anco del tutto si perda. Non so che simil portento sia mai stato veduto in cielo, fuori che le due, nominate, Stelle Nuove, del 72 in Cassiopea, e del 604 nel Serpentario: e se questa fu una tal cosa, o tanto inferior di condizione quanto men lucida e più fugace, provido fu il consiglio di Apelle nel procurargli durazion e lume dall’Illustrissima casa Velsera.
Non son dunque le Gioviali, né l’altre stelle, macchie ed ombre, né l’ombre e macchie solari sono stelle. Ben è vero ch’io metto così poca difficoltà sopra i nomi, anzi pur so ch’è in arbitrio di ciascuno l’imporgli, a modo suo, che, tuttavolta che col nome altri non credesse di conferirgli le condizioni intrinseche ed essenziali, poco caso farei del nominarle stelle: in quella guisa che stelle si dissero le sopranominate del 72 e del 604; stelle nominano i meteorologici le crinite, le cadenti e le discorrenti per aria, ed essendo in fin permesso a gli amanti ed a’ poeti chiamare stelle gli occhi delle lor donne,
- Quando si vidde il successor d’Astolfo
- sopra apparir quelle ridenti stelle.
Con simile ragione potransi chiamare stelle anco le macchie solari; ma essenzialmente averanno condizioni differenti non poco dalle prime stelle: avvenga che le vere stelle ci si mostrano sempre di una sola figura, ed è la regolarissima fra tutte; e le macchie, d’infinite, ed irregolarissime tutte: quelle, consistenti né mai mutatesi di grandezza o di forma; e queste, instabili sempre e mutabili: quelle, l’istesse sempre, e di permanenza che supera le memorie di tutti i secoli decorsi; queste, generabili e dissolubili dall’uno all’altro giorno: quelle, non mai visibili, se non piene di luce; queste, oscure sempre, e splendide non mai: quelle, o in tutto immobili, o mobili ogn’una per sé, di moti proprii, regolari e tra di loro differentissimi; queste, mobili di un moto solo, comune a tutte, regolare solamente in universale, ma da infinite particolari disagguaglianze alterato: quelle, costituite tutte in particolare in diverse lontananze dal Sole; e queste, tutte contigue, o insensibilmente remote dalla sua superficie: quelle, non mai visibili se non quando sono assai separate dal Sole; queste, non mai vedute se non congiuntegli: quelle, di materia probabilissimamente densa ed opacissima; queste, rare a guisa di nebbia o fumo. Ora io non so per qual ragione le macchie si devino ascrivere tra quelle cose con le quali non hanno pure una particolar convenienza che non ve l’abbino ancora cento altre che stelle non sono, più presto che tra quelle con le quali mostrano di convenire in ogni particolare. Io le agguagliai alle nostre nugole o a fumi; e certo chi volesse con alcuna delle nostre materie imitarle, non credo che facilmente si trovasse più aggiustata imitazione, che ’l porre sopra una rovente piastra di ferro alcune piccole stille di qualche bitume di difficil combustione, il quale sul ferro imprimerebbe una macchia nera, dalla quale, come da sua radice, si eleverebbe un fumo oscuro, che in figure stravaganti e mutabili si anderebbe spargendo. E se alcuno pur volesse opinabilmente stimare, che alla restaurazione dell’immensa luce che da sì gran lampada continuamente si diffonde per l’espansion del mondo, facesse di mestiere che continuamente fusse somministrato pabulo e nutrimento, ben averebbe non una sola, ma 100 e tutte l’esperienze concordemente favorevoli, nelle quali vediamo tutte le materie, fatte prossime all’incendersi e convertirsi in luce, ridursi prima ad un color nero ed oscuro; così vediamo ne’ legni nella paglia, nella carta, nelle candele, ed in somma in tutte le cose ardenti, esser la fiamma impiantata e sorgente dalle contigue parti di tali materie, prima convertite in color nero. E più direi, che forse più accuratamente osservando le sopranominate piazzette, lucide più del resto del disco solare, si potrebbe ritrovare, quelle esser i luoghi medesimi dove poco avanti si fossero dissolute alcune delle macchie più grandi. Io però non intendo di asserire alcuna di queste cose per certa, né di obbligarmi a sostenerla, non mi piacendo di mescolar le cose dubbie tra le certe e resolute.
Di qua dall’Alpi va attorno, come intendo tra non piccol numero de i filosofi peripatetici a i quali non grava il filosofare per desiderio del vero e delle sue cause (perché altri che indifferentemente negano tutte queste novità e sene burlano, stimandole illusioni, è ormai ternpo che ci burliamo di loro, e che essi restino invisibili ed inaudibili insieme), va attorno, dico, per difender l’inalterabilità del cielo (la quale forse Aristotele medesimo in questo secolo abbandonerebbe), una opinione conforme a questa d’Apelle, e solamente diversa, che dove egli pone per ciascuna macchia una stella sola, questi fanno le macchie congerie di molte minutissime, le quali con loro differenti movimenti aggregandosi, or in maggior copia, ora in minore, e quindi separandosi, formino e maggiori e minori macchie, e di sregolate e diversissime figure. Io, già che ho passato il segno della brevità con V. S., sì che ella è per leggere in più volte la presente lettera, mi prenderò libertà di toccare qualche particolare sopra questo punto.
Nel quale il primo concetto che mi viene in mente è, che i seguaci di questa opinione non abbino auto occasione di far molte e molto diligenti e continuate osservazioni; perché mi persuado che alcune difficoltà gli averebbono resi non poco dubbii e perplessi nell’accomodare una tal posizione alle apparenze. Perché, se bene è vero in genere che molti oggetti, ben che per la lor piccolezza o lontananza invisibili ciascuno per sé solo, uniti insieme possono formare un aggregato che divenga percettibile alla nostra vista, tuttavia non è da fermarsi su questa generalità, ma bisogna che descendiamo a i particolari proprii delle stelle ed a quelli che si osservano nelle macchie, e che diligentemente andiamo esaminando, con qual concordia questi e quelli possino mischiarsi e convenire insieme; e per non far come quel castellano che, sendo con piccol numero di soldati alla difesa d’una fortezza, per soccorrer quella parte che vede assalita vi accorre con tutte le forze lasciando intanto altri luoghi indifesi ed aperti, conviene che, mentre ci sforziamo di difender l’immutabilità del cielo, non ci scordiamo de i pericoli a i quali per avventura potriano restar esposte altre proposizioni, pur necessarie alla conservazione della filosofia peripatetica. E però, se questa deve restare nella sua integrità e saldezza, conviene che, per mantenimento d’altre sue proposizioni, diciamo primieramente, delle stelle altre esser fisse, altre erranti: chiamando fisse quelle che, sendo tutte in un medesimo cielo, al moto di quello si muovono tutte, restando intanto immobili tra di loro; ma erranti, quelle.che hanno ogn’una per sé movimento proprio: affermando di più, che le conversioni non meno di queste che di quelle sono ciascheduna equabile in sé medesima, non convenendo dare alle lor motrici intelligenze briga di affaticarsi or più or meno, che saria condizione troppo repugnante alla nobiltà ed alla inalterabilità loro e delle sfere. Stanti queste proposizioni, non si può, primieramente, dire che tali stelle solari sien fisse; perché, quando non si mutassero tra di loro, impossibil sarebbe vedere le mutazioni continue che pur si scorgono nelle macchie, ma sempre vedremo ritornar le medesime configurazioni. Resta, dunque, che le siano mobili, ciascheduna per sé, di movimenti diseguali fra di loro, ma ben ciascuno equabile in sé medesimo: ed in tal guisa potrà seguire l’accozzamento e la separazione di alcune di loro, ma non però potranno mai formar le macchie; il che intenderemo considerando alcuni particolari che nelle macchie si scorgono. Uno de’ quali è, che vedendosene alcune molto grandi prodursi e dissolversi, è forza che le siano composte non di due o di quattro stelle solamente, ma di 50 e 100, perché altre macchiette pur si veggono, minori della cinquantesima parte d’una delle grandi; se, dunque, una di queste si dissolve, sì che totalmente svanisce da gli occhi nostri, è necessario che la si divida in più di 50 stellette, ciascheduna delle quali ha il suo proprio e particolar moto, equabile e differente da quello d’ogn’altra, perché due che avessero il moto comune non si congiugnerebbono o non si separerebbono già mai in faccia del Sole: ma se queste cose son vere, chi non vede essere assolutamente impossibile la formazione delle macchie? e massime durando esse non solamente molte ore, ma molti giorni; sì come è impossibile che cinquanta barche, movendosi tutte con velocità differenti, si unischino già mai, e per lungo spazio vadino di conserva. Quando le stellette fussero disunite, e però invisibili, non potriano essere se non per lunghi ordini disposte, l’una dopo l’altra, secondo la lunghezza de’ lor paralleli, ne i quali (sì come nelle visibili macchie si scorge) tutte verso la medesima parte si vanno movendo; onde tantum abest che 40 o 50 o100 di loro potessero tanto frequentemente aggregarsi e così unite per lungo spazio conservarsi, che per l’opposito rarissime volte accader potrebbe che, tra momenti diseguali, cadesse sì numeroso concorso di stelle in un sol luogo: ma assolutamente poi sarebbe impossibile che e’ non si dissolvesse in brevissimo tempo; e pur, all’incontro, si veggono molte macchie conservarsi talora per molti giorni, con poca alterazion di figura. Chi, dunque, vorrà sostener, le macchie esser congerie di minute stelle, bisogna che introduca nel cielo ed in esse stelle e movimenti innumerabili, tumultuarii, difformi e lontani da ogni regolarità; il che non ben consuona con alcuna probabil filosofia.
Sarà, di più, necessario porle più numerose di tutte l’altre visibili stelle: perché, se noi riguarderemo la moltitudine e grandezza di tutte le macchie che tal volta si son vedute sotto l’emisferio del Sole, e quelle andremo risolvendo in particelle così piccole che divenghino incospicue, troveremo bisognar che necessariamente le siano molte centinaia; ed essendo, di più, credibile che altre ne siano non solamente sopra l’altro emisferio, ma dalle bande ancora del Sole, non si potrà ragionevolmente sfuggire di dover porle oltre al migliaio. Or qual simmetria si andrà conservando tra le lontananze delle stelle erranti ed i tempi delle lor conversioni, se discendendo dall’immenso cerchio di Saturno sin all’angustissirno di Mercurio non s’incontrano più di 10 o 12 stelle né più di 6 conversioni di periodi differenti intorno al Sole, dovendone poi collocar centinaia e migliaia dentro a così piccolo orbe? ché pur saria necessario racchiuderle dentro alle digressioni di Mercurio, poi che già mai non si rendono visibili in aspetto lucido e separate dal Sole. Ma che dico io di racchiuderle dentro all’orbe di Mercurio? diciamo pure, che essendosi necessariamente dimostrato, le macchie esser tutte contigue o insensibilmente remote dalla superficie del Sole, bisogna, a chi le vuol far creder congerie di minute stelle, trovar prima modo di persuadere che sopra la solar superficie molte e molte centinaia di globi oscuri e densi vadino serpendo con differenti velocitadi, e spesso urtandosi e tra di loro facendosi ostacolo, onde le scorse de’ più veloci restino per alcuni giorni impedite da i più pigri; sì che dal concorso di gran moltitudine si formino in molti luoghi varii drappelli, di ampiezza a noi visibile, sin tanto che la calca della sopravvegnente moltitudine, sforzando finalmente i precedenti, si faccia strada e si disperda il gregge.
A grandi angustie bisogna ridursi: e poi, per sostener che? e con quale efficacia dimostrato? Per mantenere la materia celeste aliena dalle condizioni elementari, insino da ogni picciola alterazioncella. Se quella che vien chiamata corruzzione fosse annichilazione, averebbono i Peripatetici qualche ragione a essergli così nemici; ma se non è altro che una mutazione, non merita cotanto odio; né parmi che ragionevolmente alcuno si querelasse della corruzion dell’uovo, mentre di quello si genera il pulcino. In oltre, essendo questa che vien detta generazione e corruzione, solo una piccola mutazioncella in poca parte de gli elementi e quale né anco dalla Luna, orbe prossimo, si scorgerebbe, perché negarla nel cielo. Pensano forse, argomentando dalla parte al tutto, che la Terra sia per dissolversi e corrompersi tutta, in guisa che sia per venir tempo nel quale il mondo, avendo Sole Luna e l’altre stelle sia per trovarsi senza Terra? Non credo già che abbino tal sospetto. E se le sue piccole mutazioni non minacciano alla Terra la sua total destruzione, né gli sono d’imperfezione, anzi di sommo ornamento, perché privarne gli altri corpi mondani, e temer tanto la dissoluzione del cielo per alterazioni non più di queste nemiche della natural conservazione? Io dubito che ’l voler noi misurar il tutto con la scarsa misura nostra ci faccia incorrere in strane fantasie, e che l’odio nostro particolare contro alla morte ci renda odiosa la fragilità: tuttavia non so dall’altra banda quanto, per divenir manco mutabili, ci fosse caro l’incontro d’una testa di Medusa, che ci convertisse in un marmo o in un diamante, spogliandoci de’ sensi e di altri moti, li quali senza le corporali alterazioni in noi sussister non potrebbono. Io non voglio passar più innanzi né entrar a esaminare la forza delle peripatetiche ragioni, al che mi riserbo in altro tempo: questo solo soggiugnerò, parermi azione non interamente da vero filosofo il voler persistere, siami lecito dir quasi ostinatamente in sostener conclusioni peripatetiche scoperte manifestamente false, persuadendosi forse che Aristotele, quando nell’età nostra Si ritrovasse, fosse per far il medesimo; quasi che maggior segno di perfetto giudizio e più nobil effetto di profonda dottrina sia il difendere il falso, che ’l restar persuaso dal vero. E parmi che simili ingegni dieno occasione altrui di dubitare, che loro per avventura apprezzin manco l’esattamente penetrar la forza delle peripatetiche e delle contrarie ragioni, che ’l conservar l’imperio all’autorità d’Aristotele, come ch’ella sia bastante con tanto lor minor travaglio e fatica a schivargli tutte l’opposizioni pericolose, quanto è men difficile il trovar testi e ’l confrontar luoghi che l’investigar conclusioni vere e ’l formar di loro nuove e concludenti dimostrazioni. E parmi, oltre a ciò, che troppo vogliamo abbassar la condizion nostra, e non senza qualche offesa della natura e direi quasi della divina Benignità (la quale per aiuto all’intender la sua gran costruzione ci ha conceduti 2000 anni più d’osservazioni e vista 20 volte più acuta, che ad Aristotele), col voler più presto imparar da lui quello ch’egli né seppe né potette sapere, che da gli occhi nostri e dal nostro proprio discorso. Ma per non m’allontanar più dal mio principal intento, dico bastarmi per ora l’aver dimostrato che le macchie non sono stelle né materie consistenti né locate lontane dal Sole, ma che si producono e dissolvono intorno ad esso, con maniera non dissimile a quella delle nugole o altre fumosità intorno alla Terra.
Questo è quanto per ora m’è parso di dire a V. S. Illustrissima in proposito di questa materia, la quale io credeva che dovesse essere il sigillo di tutti i nuovi scoprimenti che ho fatti nel cielo, e che per l’avvenire mi fosse per restar ozio libero di poter tornare senza interrompimenti ad altri miei studii, già che mi era anco felicemente succeduto l’investigare, dopo molte vigilie e fatiche, i tempi periodici di tutti quattro i pianeti Medicei, e fabbricarne le tavole e ciò che appartiene a’ calcoli ed altri loro particolari accidenti; le quali cose in breve manderò in luce, con tutto il resto delle considerazioni fatte intorno all’altre celesti novità: ma è restato fallace il mio pensiero per l’inaspettata meraviglia con la quale Saturno è venuto ultimamente a perturbarmi; di che voglio dar conto a V. S.
Già le scrissi come circa a 3 anni fa scopersi, con mia grande ammirazione, Saturno esser tricorporeo, cioè un aggregato di tre stelle disposte in linea retta parallela all’equinoziale, delle quali la media era assai maggiore delle laterali. Queste furono credute da me esser immobili tra di loro: né fu la mia credenza irragionevole; poi che, avendole nella prima osservazione vedute tanto propinque che quasi mostravano di toccarsi, e tali essendosi conservate per più di due anni, senza apparire in loro mutazione alcuna, ben dovevo io credere che le fossero tra di sé totalmente immobili, perché un solo minuto secondo (movimento incomparabilmente più lento di tutti gli altri, anco delle massime sfere) Si sarebbe in tanto tempo fatto sensibile, o col separare o coll’unire totalmente le tre stelle. Triforme ho veduto ancora Saturno quest’anno circa il solstizio estivo; ed avendo poi intermesso di osservarlo per più di due mesi, come quello che non mettevo dubbio sopra la sua costanza, finalmente, tornato a rimirarlo i giorni passati, l’ho ritrovato solitario senza l’assistenza delle consuete stelle, ed in somma perfettamente rotondo e terminato come Giove, e tale si va tuttavia mantenendo. Ora che si ha da dir in così strana metamorfosi? forse si sono consumate le due minor stelle, al modo delle macchie solari? forse sono sparite e repentinamente fuggite? forse Saturno si ha divorato i proprii figli? o pure è stata illusione e fraude l’apparenza con la quale i cristalli hanno per tanto tempo ingannato me con tanti altri che meco molte volte gli osservarono? è forse ora venuto il tempo di rinverdir la speranza, già prossima al seccarsi, in quelli che, retti da più profonde contemplazioni, hanno penetrato tutte le nuove osservazioni esser fallacie, né poter in veruna maniera sussistere? Io non ho che dire cosa resoluta in caso così strano inopinato e nuovo la brevità del tempo, l’accidente senza esempio, la debolezza dell’ingegno e ’l timore dell’errare, mi rendono grandemente confuso. Ma siami per una volta permesso di usare un poco di temerità, la quale mi dovrà tanto più benignamente esser da V. S. perdonata, quanto io la confesso per tale, e mi protesto che non intendo di registrar quello che son per predire tra le proposizioni dependenti da principii certi e conclusioni sicure, ma solo da alcune mie verisimili conietture, le quali allora farò palesi, quando mi bisogneranno o per mostrare la scusabile probabilità dell’opinione alla quale per ora inclino, o per stabilire la certezza dell’assunta conclusione, qual volta il mio pensiero incontri la verità. Le proposizioni son queste: Le due minori stelle Saturnie, le quali di presente stanno celate, forse si scopriranno un poco per due mesi intorno al solstizio estivo dell’anno prossimo futuro 1613, e poi s’asconderanno, restando celate sin verso il brumal solstizio dell’anno 1614; circa il qual tempo potrebbe accadere che di nuovo per qualche mese facessero di sé alcuna mostra, tornando poi di nuovo ad ascondersi sin presso all’altra seguente bruma; al qual tempo credo bene con maggior risolutezza che torneranno a comparire, né più si asconderanno, se non che nel seguente solstizio estivo che sarà dell’anno 1615, accenneranno alquanto di volersi occultare ma non però credo che si asconderanno interamente, ma ben, tornando poco dopo a palesarsi, le vedremo distintissime e più che mai lucide e grandi; e quasi risolutamente ardirei di dire che le vedremo per molti anni senza interrompimento veruno. Sì come, dunque, del ritorno io non ne dubito, così vo con riserbo ne gli altri particolari accidenti, fondati per ora solamente su probabil coniettura: ma, o succedino così per appunto o in altro modo, dico bene a V. S. che questa stella ancora, e forse non men che l’apparenza di Venere cornicolata, con ammirabil maniera concorre all’accordamento del gran sistema Copernicano, al cui palesamento universale veggonsi propizii venti indirizzarci con tanto lucide scorte, che ormai poco ci resta da temere tenebre o traversie.
Finisco di occupar più V. S. Illustrissima, ma non senza pregarla ad offerir di nuovo l’amicizia e la servitù mia ad Apelle: e se lei determinasse di fargli vedere questa lettera, la prego a non la mandar senza l’accompagnatura di mie scuse, se forse gli paresse ch’io troppo dissentissi dalle sue opinioni; perché, non desiderando altro che ’l venire in cognizion del vero, ho liberamente spiegata l’opinion mia, la quale son anco disposto a mutare qualunque volta mi sieno scoperti gli errori miei, e terrò obbligo particolare a chiunque mi farà grazia di palesargli e castigargli.
Bacio a V. S. Illustrissima le mani, e caramente la saluto d’ordine dell’Illustrissimo Sig. Filippo Salviati, nella cui amenissima villa mi ritrovo a continuar in sua compagnia l’osservazioni celesti. Nostro Signore Dio gli conceda il compimento d’ogni suo desiderio.
Dalla Villa delle Selve, il I° di Dicembre 1612.
Di V. S. Illustrissima
Devotissimo Servitore
Galileo Galilei Linceo.