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A Mario Pieri[1]
Venezia, 13 Giugno 1828.
Il giovane Sig. Gonssollin non poteva presentarmisi in modo più gradito che recandomi una vostra letterina; all’uno ed all’altra io feci il miglior viso che per me si potesse, e di entrambi vi ringrazio, essendomi stati entrambi carissimi.
Il Sig. Gonssollin si duole di non potersi trattenere lungamente con noi: conta però di rimanere un mese, che a noì pare uno spazio di tempo lunghissimo, avvezzi come siamo alle corse, anzi fughe degl’inglesi, i quali vedono senza osservare, corrono senza arrestarsi, e, invece di consultare qualche cristiano che abbia occhi in capo, se ne stanno, nelle ore della sera, formando il loro giornale e rettificando la confusione delle idee affastellate nelle loro menti, coi così detti servitori di piazza, che Alfieri chiama giustamente servitori senza piazza, e de quali spesso si potrebbe dire tel maitre tel valet. E di quì quei ridevoli giornali, viaggi, album, ecc, che vediamo, non so se io dica con maggior nostra vergogna o dispetto, e ne’ quali ci si presenta una fantastica Italia, che noi punto non conosciamo. E credete voi che la finiscano con quel loro domandare dei gondolieri, che cantino il Tasso? Oibò. E li udite, appena arrivati all’albergo, gridare:une gondole et deux gondoliers qui chantent le Tasse.
Come colui che avrebbe pagato, diceva, non so quanto, per vedere un Barnaboto, quasi figurandosi che avesse poco meno che le corna in testa, e un vestito da Pantalone.
Ho letto con molto piacere il vostro bello articolo necrologico del povero nostro Guilford, e distribuii gli esemplari a chi erano diretti. Avrei potuto fornirvi anch’io una graziosa particolarità del suo affetto pei Greci. Ero a un cafiè la prima volta che il vidi, ed egli vide me, ed avendo inteso che io era Greca testè arrivata da quella classica terra, mi si gettò ginocchioni, quasi per adorarmi, con quale e quanta mia sorpresa vel lascio pensare. Ippolito fu qui per un intero mese, e siccome ci fu solo per rivedere gli amici suoi, così ci riusci anco più caro, s’è possibile, che nella solita sua venuta per l’Istituto. Potrete credere com’egli la pensi dei deliri romantici, e se foste stato quì, la vostra voce si sarebbe unita alla nostra per deplorare le vertigini delle menti[2].
Sento con piacere che fra non molto darete alla luce varie cose, fra le quali non sarà meno preziosa, io penso, quella che tenterà di porre argine alle nuove teorie. Se tutti i valenti uomini si accordassero e dicessero l’animo loro, il torrente si arresterebbe, e sorgerebbe, quanto almeno alla letteratura, giorno più splendido per la povera Italia. Voi vedete che il desiderio d’intrattenermi con voi mi ha fatto pressochè oltrepassare i limiti ad una epistola permessi. Vi saluto dunque, e vi prego di far sì che io non sia fra gli ultimi ad ammirare le novelle vostre produzioni. Giuseppino, grato della memoria vostra, vi saluta caramente, Addio.
Note
- ↑ È pubblicata nelle Lettere d’Illustri Italiani a Mario Pieri ecc.
- ↑ L’Albrizzi accarezza quì le idrofobe idee classiciste del Pieri -- mentre a Canova scriveva mirabilia di Byron -- e insinua che anche Ippolito Pindemonte fosse classicista -- mentre egli amava l’arte universale, nè faceva distinzione di scuole.