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CIX. — A Giacomo Gillot
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CIX. — A Giacomo Gillot.1


Per l’istesso corriere ebbi due lettere della S.V., segnata l’una de’ 26 ottobre e l’altra dei 4 novembre, in ogni parte ritraenti della nativa candidezza dell’animo suo. Alle quali farò risposta, seguitandone l’ordine, con questa mia sola.

Le magnifiche cose che la S.V. eccellentissima va dicendo intorno alla mia persona, avvisandosi ch’io solo riesca a trattare del concorso dei luminari (come si esprimono i canonisti), o dell’ecclissi, come penso doversi dir io, non potendo attribuirsi a piacenteria (chè so, fra gli altri pregi, la sua schiettezza e l’amore del vero), le ascrivo a benevolenza ed all’uso invalso di dare importanza agli oggetti lontani. Ben è vero che il saggio anco da lungi fa ragione alle immagini morali degli uomini; ma quanto al fatto mio, più credo a me stesso. Faccia di stampare al più presto i documenti ammanniti; perocchè ai veleni di già conosciuti sono da contrapporre gli antidoti. Se i Gesuiti, anco tutti, le saranno addosso, poco male: vano è il volere andar loro ai versi. Creda pure a me: tanto ella fece fin qui, che il loro odio verso di lei non può farsi maggiore; e bene ne darebbero prova, se al volere rispondessero le forze.

Con piacere vidi le Questioni del padre Coton;2 segno d’animo cattivo e leggero, quand’io prima l’avevo per più valente. Ci ha qui un cotale amico di quella Compagnia, che pensa recarle in italiano e porle a luce: se ciò sarà, ne invierò alla S.V. un esemplare.

Vengo a soddisfare alle domande fattemi intorno all’Ordine dei Servi. L’origine è da Firenze. Quivi alcuni mercatanti si raccolsero in società, l’anno del Signore 1230; epoca, in cui pullularono in quel paese parecchi di tali istituti. Si nominavano dapprima Laudesi, siccome dati a cantilene assidue in lode della Beata Vergine Maria. Principiarono a mendicare, giusta il costume dei nuovi collegi, tutti nero vestiti, e come compartecipanti al pianto della Vergine sul morto figliuolo. Però il popolo lor pose nome di Servi della Beata Maria; e noi ne ereditammo il titolo e il colore delle vesti.3

Gratissimi mi riuscirono i cenni su gli esordii e la vita Barclay, e la erudizione di suo figlio; cui molto ammiro, perchè sebbene amico e cliente dei Gesuiti, vada immune dalla loro peste.4

Quanto al dubbieggiare ch’ella fa sul menar buono o no alla Chiesa il vocabolo di potere, in verità è cosa di momento. Sarebbe da passar sopra ai vocaboli, se per la loro storsione i perversi non si gittassero ad abusare ancora le cose; come, dacchè s’arrogarono il nome di Chiesa, fecero eziandio proprii esclusivamente i beni sparsi nel dominio di tutta la Chiesa, e che erano destinati al mantenimento di tutti i ministri. Io, comunque abbia moltissimo a noia l’abuso della voce τό potestas, pure non giudico s’abbia affatto a scartare, essendosi valso due volte il santo Apostolo nella 2a ai Corinti del vocabolo ἐξουσίας, cui egli adopera, fatto verbo, anco nella 1a, col significato d’imperare e daminare; sebbene io una volta, ne’ miei abortivi lavori, usassi più volentieri la frase: ministero ecclesiastico. Da qui le ire dei romaneschi; sopra tutto poi, perchè non menai ad essi buona l’autorità coattiva verso dei sommi imperanti od altri, salvo che per privilegio dei medesimi.

Sentendomi stanca la mano per avere scritte molte lettere, volli tuttavia dettar la presente; e preso dalla dolcezza del discorso, come se alla presenza di V.S. favellassi, ora vedo di aver già valicato i termini. Ma non me ne pento, per la speranza d’indurla così a rendermi la pariglia. Questi poveri pensieri ho deposto alla libera in seno a lei, che pure a tutti non vorrei communicare. Sonovi di pregiudicati e adoratori della propria opinione, i quali, se non parli loro in segreto, pigliano stizza, e cui non mette conto irritare; sia che da altri sieno ingannati, sia che vivano in preda alle proprie ubbíe.

Desidero ch’ella ringrazi e saluti a mio nome il signor Richerio, il quale ho per dottissimo, avuto rispetto a’ suoi scritti, come all’amicizia che lo lega alla S.V.

Mi dimenticava delle opere del Panvinio; che mai non furono pubblicate in un solo volume. I nostri librai citano quelle De Republica, e De Fastis, impresse a Venezia il 1550; De Cardinalibus, il 1540 (ma gli esemplari non trovansi fuorchè logorati dall’uso); De ludis circensibus, l’anno 1604, e De urbis Veronæ viris etc.; poi, di nuovo, de’ Fasti, a Roma ed Eidelberg; e della Repubblica, a Parigi e Francfort.5 Se qui troverannosi o in buono stato o cattivo, e le piacerà di farne acquisto, non avrà se non se a comandarmi. Io prego quanto so e posso la V.S. eccellentissima di continuare l’usata benevolenza al suo amico, ed ammiratore. Stia sano, e non s’impermalisca di queste mie ciance.

Venezia, 8 decembre 1609.



  1. Edita in latino, tra le Opere dell’autore, tom. cit., pag 10.
  2. Non è facile determinare a quale tra i libri allora messi a luce da questo celebre gesuita, voglia qui alludere il nostro Sarpi; ma tanto la sua Istituzione cattolica, come la Ginevra plagiaria e il Trattato del sagrifizio della Messa, sono considerate come opere di controversia, o di polemica religiosa.
  3. Conviene senz’altro ammirare la critica parsimonia colla quale Fra Paolo discorre qui dell’origine dell’ordine monastico a cui egli appartenne, senza nemmeno accennare alle molte controversie che intorno a quella si fecero. Ed è da osservarsi come fosse allora venuta in luce l’operetta di Frate Arcangelo Giani (Firenze, 1591), che avrebbe somministrato al discettare una ben ampla materia. Nel nostro, invece, nemmeno una parola sui sette devoti mercanti fiorentini e il fiorentino Filippo Benizi, tra i quali si disputa la gloria di una tale istituzione. Spettava al gesuita Bonanni il raccontarci più tardi (1710), come il Benizi, incontratosi per la via che mena da Todi a Narni in due pubbliche meretrici, e ottenuta da queste promessa di conversione, fondasse sopra una tal base il così detto terz’ordine dei Servi di Maria.
  4. Rivedasi la nostra nota a pag. 275. L’opera di Guglielmo Barclay, De potestate papæ, fu ristampata ancora in Pont-a-Mousson, nel 1709.
  5. Le opere del veronese Panvinio sono in molto maggior numero delle brevemente indicate in questa Lettera. Con assai diligenza le andò annoverando il Maffei, nel libro da lui composto intorno agli scrittori veronesi. Il disegno che l’Argelati, avea concepito di riunirle in una sola raccolta, rimase interrotto dalla morte.


Note

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