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XVII. — A Giacomo Gillot.1
De’ miei libretti non feci mai, signor mio eccellentissimo, tanto stima, da crederli degni di esser letti dalla S. V. Troppo bene mi è nota la mediocrità dell’autore, da cui so pur troppo non potersi, per fatiche usate, far cosa che si accosti a perfezione. E nemmen del tempo a tai lavori necessario vi fu tanto che bastasse; chè l’occasione fuggevole sforzò a rispondere ex-tempore e quasi tumultuariamente a quegli scritti che gli avversari avevano, nella loro malignità, lungamente elaborati. Si aggiunge che dovè piuttosto mettersi innanzi quello che le orecchie dei più, alla superstizione aperte più del bisogno, potevano sopportare, che non quanto sarebbe stato da dirsi a rispetto del ben comune e per tornare ai buoni gradito. Contuttociò, avendo udito dal signor Fresnes che la S. V. gli avea commesso di spedirgli le cose da me scritte sulla presente controversia, lo pregai di accettare dalle mie mani medesime quelle mie debolezze. Sono già forse vent’anni, Eccellentissimo signor mio, che, fervendo le turbolenze della Francia, imparai ad ammirare coloro che si sforzavano di mantenere e difendere, siccome è giusto, la regia dignità. Tra questi, il signor di Messée, regio inviato in questa città, nominava la S. V. come uno dei primi; e a lui si univa in fare della dottrina e probità di lei ogni più splendida testimonianza il signor Dolot, fratello del primo Presidente. D’allora in poi andò talmente crescendo la mia devozione verso la S. V., che tenni per gran ventura l’essere conosciuto da un simile personaggio, e il potergli in qualche guisa dare a conoscere la mia antica e particolare osservanza. Ecco le cagioni che mi spinsero a mandarle i miei libricciuoli.
Avevo letto, per cortesia del signor Fresnes, la prima collezione del Concilio di Trento; e questa seconda e più copiosa ho veramente divorato: sicchè vedo come V. S. illustrissima abbia condotto la cosa a tal punto, che pochi ormai fra i monumenti francesi potranno in quella desiderarsi. Ben dovrebbe il suo esempio avere imitatori; giacchè se in tutti gli altri regni si facesse altrettanto, e in ispecie in quelli che nel Concilio ebbero maggior parte, sarebbe da sperarsi una raccolta pressochè completa di tutti gli atti di esso. Desiderai lungamente di potere a tal cosa accudire in qualche modo; ma fu tale la condizione de’ tempi, negli anni più vicini ai due ultimi, che se del solo desiderio non mi fossi contentato, sarebbemi per fino mancata la facoltà di desiderarla. Dacchè raccquistai alquanto della mia libertà, alcun che messi insieme; in parte veri originali, in parte escerti fedelmente fatti sopra quelli, ed altre carte che sebbene non propriamente autentiche, possono con probabilità grandissima tenersi per veritiere. Più avrei potuto accozzarne, se prima mi fossi accinto all’impresa. I Gesuiti, indagatori sottilissimi, ben conoscendo quanto importasse che segreti di tal natura non si divulgassero, e a tale effetto valendosi d’ogni artifizio e minacciando persino l’eterna dannazione, rapirono di mano a chi in Venezia li possedeva i documenti tutti che poterono subodorarvi; e così ben pochi ce ne sono rimasti, tuttochè i superstiti sieno pure di tal sorta, che di molta luce rischiarano lo spazio decorso dalla convocazione fatta da Pio IV insino alla fine. Pei tempi anteriori, ben poco io possiedo, e mi accorgo come da codeste parti se ne rinvenga anche meno: e tuttavia di questi io fo maggior caso, perchè ne’ giorni di Paolo e di Giulio vi furono trattate cose che, oltre all’importanza lor propria, sono come il fondamento delle altre. È come base di tutto il Concilio la Sessione IV, alla quale è indubitato che ventinove vescovi ed anche tre abati intervenissero. Oh se potessero vedersi le cose che già si fecero sparire!
Nella Epistola al signor Lisléo, data il 28 giugno 1562, si fa ricordo di una prolissa e libera orazione dei Legati di Baviera. Io possiedo un esemplare perfetto della stampa fattane a quei giorni a Ripa; e se la S. V. non l’ha e desiderasse d’averla, la invierò prontamente. La lettura che ne feci, mi trasse a considerare la virtù e costanza del Ferrerio:2 onde poi nacquemi il desiderio di ricercare se nelle mie schede si trovasse menzione alcuna di un tanto uomo; e trovai diffatti una certa lettera dalla quale apparisce che cosa di lui dicessero e pensassero in Roma. Dio buono! Se tentarono di voler corrompere persino le cose incorruttibili, che deve credersi delle altre? Il che non volendo si creda da me detto per semplice congettura, volli unirvi un’altra lettera della medesima farina; e per compiere il ternario, vi aggiunsi la terza, che le insegnerà forse alcuna cosa di nuovo intorno alle prerogative dei re Cristianissimo e Cattolico. Gli originali di coteste lettere firmati di pugno degli autori, sono nelle mie mani.
Non finisco di maravigliarmi delle tesi difese da quel Critonio Scoto, che va facendo un fascio del papa e del re, dei concilii e dei comizii, della terra e del cielo; e sotto il pretesto del re, vuole metterci addosso il papa. In somma, questi uomini dabbene hanno risoluto di convertire il regno di Cristo in regno terreno, non importa se a dritto od a torto. E quanto alla scomunica, di che inaudite e audaci dottrine si è costui fatto inventore, a fine di estenderne la forza persino alle operazioni della mente! Non basta loro di averci tolta la libertà delle opere e del parlare, se non signoreggiano altresì tirannicamente sui nostri pensieri e sentimenti! E che di più strano potea mai pronunziarsi, dell’asserire, come si fa, che per la colpa d’un solo, la famiglia tutta quanta, o la città, sia scomunicata? Nè posso credere che siasi qui scambiata la scomunica coll’interdetto, trattandosi di persona che professa il diritto pontificio. Lascio stare che ciò egli afferma contro la consuetudine di tutte le chiese, e che sant’Agostino ribatte con una intera epistola un siffatto errore, e che tutti gli scolastici convengono nell’avviso medesimo. Non si accorge costui com’egli rintuzzi il taglio della sua spada colla tesi da sè proposta: giacchè ben sarà pronto ognuno ad argomentare, che se per la colpa di un uomo può un altro essere scomunicato, la scomunica è una pena meramente politica e non tocca in verun modo la coscienza.
Io provo una grandissima consolazione vedendo che la curia parigina sostiene, come sempre sostenne, l’antica e veramente francese libertà: gran cosa oggidì, che l’Università medesima, propugnatrice un tempo dell’ecclesiastica libertà, si diede anch’essa per vinta. Noi qui poco e debolmente operammo per difendere la principale e sovrana libertà e podestà: saremo tuttavia scusati da coloro che del luogo e de’ tempi aver vorranno la debita considerazione. Nè del fatto io mi pento, sebbene il mio capo sia come votivo a morte, e sempre mi vegga cinto d’insidie, e mi trovi accusato d’inespiabili empietà, per non aver temuto un immenso e sopra tutti formidabile potere. Pur mi conforta l’aver combattuto per la verità, e l’avere approvatori costà sommi uomini, eruditi in ogni genere di dottrina; e soprattutti la S. V. eccellentissima, la quale prego con tutto l’animo a perseverare nella benevolenza che si è degnata concedermi. Non cesserò di porgere le mie preghiere all’Altissimo, affinchè la conservi sana e salva lunghi anni, e a me doni forza da poterle in qualche modo mostrare la gratitudine che le professo ec.
- Venezia, ai 18 marzo 1608.
- ↑ Edita in latino, tra le Opere di Fra Paolo (Helmstadt ec.), VI, 1. Il Gillot fu in Parigi canonico della santa Cappella, consigliere e segretario del Parlamento e decano di Langres. Studiò e scrisse intorno al Concilio di Trento; il che dà ragione delle allusioni che si trovano anche nelle lettere a lui dirette dal Sarpi. Ebbe parte alla redazione della Satira Menippea, o Catholicon di Spagna; e fece una raccolta di trattati diversi intorno ai diritti e le libertà della chiesa gallicana.
- ↑ Arnaldo Ferrier, ambasciatore di Francia al Concilio di Trento. Intorno a lui può vedersi la Storia del Concilio scritta dal nostro A., in ispecie nei libri VII e VIII.