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XXVIII. — A Giacomo Leschassier
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XXVIII. — A Giacomo Leschassier.1


Dalla supplica della quale V.S. eccellentissima mi ha mandato copia, conosco ch’ella non deve meno travagliarsi per far eseguire il decreto ottenuto, di quello che abbia dovuto fare per ottenerlo: ma tanto importa, per riparare all’audacia del clero, che quel decreto stia in essere, ch’è prezzo dell’opera il non mai desistere dalle fatiche. Prudentissimamente la S.V. ha rappresentato al re, che se al clero sarà permesso il colpire di censura le scritture degli avvocati, da queste facilmente si farà passaggio alle sentenze dei giudici, quindi agli editti regi, ed infine alle leggi, che sono i fondamenti della monarchia. V.S. mi aveva ancora per incidenza accennato, come l’arcivescovo di Acqui avesse ordinato a’ suoi preti di non dare nella pasqua l’assoluzione ai senatori di quella città; ma non prosegue ad informarmi come la cosa andasse a finire: il che io bramava assai di sapere. Tanto più che in quell’anno, nella città di Pinguento, spettante al dominio della Repubblica ma compresa nella diocesi di Trieste, comandò quel vescovo ai preti di non udire le confessioni del capitano e degli uomini della comunità, per non essersi obbedito circa il non ammettere certi preti che a lui non piacevano. Siccome Trieste non è soggetta a Venezia, e pareva che il vescovo potesse senza rischio operare secondo il suo arbitrio, nè in tale stato delle cose poteva attendersi verun rimedio da Roma, si cercò di sciogliere la difficoltà in questo modo. Fu comandato all’arciprete del luogo di far pubblica dichiarazione, che il vescovo non poteva insieme confondere il fôro di penitenza col fôro contenzioso, e che perciò ai preti non era da’ suoi comandi impedito il confessare; e però questi andassero liberamente alle chiese e udissero secondo il solito le loro confessioni. Il che essendosi eseguito, e il vescovo non sapendo più dove dar del capo, approvò col suo silenzio la cosa. Tanto noi già non avremmo osato pel passato, ma ora a nuovi soprusi siamo costretti di opporre novelli rimedi. Desidero perciò sapere di quali facciate uso voi altri costà, e di quali si sieno valsi i cittadini di Acqui.

In quanto all’arcano modo di agire dei Gesuiti in questi stessi luoghi da cui già vennero espulsi, credo che la S.V. abbia colto perfettamente nel segno. Si crede per molti indizi, e questi assai probabili, che alquanti di loro, con mutate vesti, s’introducano nelle nostre città; e ciò senza troppe malagevolezze. Le ragioni perchè ciò fanno, sono due: la prima, per tenere in fede e nella soggezione i loro adepti, affinchè non passino in altre mani; l’altra, per appropriarsi il danaro che loro suol essere pagato dalle vedove e dagli altri ricchi superstiziosi. Quanto alla meraviglia da lei provata che questo segua, tornando a danno de’ parrochi e dei pastori ordinari, stantechè i Gesuiti non permettono in verun luogo che i loro devoti trattino cogli ordinari di alcuna cosa senza saputa e senza il loro permesso; più è da maravigliare ch’essi vengano favoriti da molti fra quei medesimi pastori, tinti pur troppo della stessa pece.

La distinzione fatta dal signor presidente Le Maistre tra il giuramento di fedeltà e quello di vassallaggio, a me pare convincentissima; perciocchè ogni suddito, quand’anche nulla possegga di beni immobili e (se potesse darsi) nè anche di beni mobili, è tenuto egualmente a prestare il giuramento di fedeltà. Quello che V.S. dice, che il vescovo può esser costretto a giurare che non abuserà della facoltà ligandi in danno della repubblica, a me pare dell’ultima evidenza; essendochè nulla è più vero nè più consentaneo al diritto delle genti, potendo ognuno essere astretto a guarentire per giuramento, che opererà in bene del pubblico quelle cose alle quali è tenuto, ed ognuno sia tenuto di non abusare della potestà spirituale in danno del pubblico.

E che diremo circa al canone Nimis de jure jurando, dove sta scritto che i laici usurpano senza ritegno il dritto divino, quando astringono gli ecclesiastici, che non ricevono da essi alcun vantaggio temporale, a prestar loro il giuramento di fedeltà; la qual cosa anco il Papa, appoggiato dal Concilio, proibisce? Bramerei che la S.V. mi dicesse, se negli editti degli antichi re o nei decreti delle curie è stato mai trattato di questo canone.

V.S. chiarissima non istupirà se non accetto assolutamente senza riserbo il suo parere sui canoni sardicensi; mentre ciò faccio per potermi assicurar meglio della verità. I nostri avversari son tali, che esigono esser creduti senza dar prove, e a noi non consentono se non ciò ch’è chiarissimo ed evidente, e qualche volta ci oscurano anche questo; cosicchè l’unico sole non ci basta, e ci conviene accendere i lumi in pien meriggio. Confesso che l’aver detto gli Affricani nell’epistola a Celestino «Non sancito da alcun sinodo de’ Padri,» esclude non che il niceno, ma ogni altro Concilio. Nonostante, la congettura che se ne trae che i sardicensi sieno suppositizi, è di pur lieve peso: noi però la possiamo rafforzare con altri puntelli. Primo è quello prodotto da V.S., cioè che Zosimo non li avrebbe dati per canoni del Concilio niceno, se si fosse saputo ch’erano del sardicense, sì come poteva allora esser noto, non essendo fra il pontificato di Zosimo e il Concilio sardicense fuorchè l’intervallo di settant’anni. Si può aggiungere che Faustino e gli altri Legati romani e Celestino avrebbero chiarito per metà falsa la obiezione, pur mostrando che quei canoni appartenevano ad altro Concilio; siccome a dire al sardicense. Viene oltre di ciò a conferma questo: che Teodoreto e Sozomeno, prolissi autori di un discorso su quel Concilio, non parlano niente affatto di canoni, tuttochè l’un d’essi dica sull’assoluzione di Giulio ed Atanasio cose che necessariamente richiederebbero che ne fosse fatta menzione. Arroge che l’8°, il 9°, il 10° e l’11° sul trasferirsi al comitato, parmi che siano lavoro di un qualche Concilio affricano, e il nome di Canale dato ad un luogo dell’Affrica, del quale fa parola il canone 11°, Gaudenzio dimostra invece esser quello di un qualche vescovo affricano autore del canone, sì come anco nel canone precedente il nome d’Alipio è affricano.

Ora, stantechè i detti canoni furono trovati per avventura senza titolo d’autore, Gaudenzio fu ritenuto per tale da qualche scíolo, di cui fa cenno Sozomeno, successore di Ciriaco e presente al Concilio sardicense; e quindi ingannato dal nome di Gaudenzio, ascrisse a quel Concilio essi canoni. Tutti questi argomenti messi insieme sono gran cosa, lo vedo; ma gli avversari non se ne lascerebbero convincere. Nè io stesso me ne contento,2 in ispecie dacchè Dionisio Esiguo ha ricordato i canoni sardicensi.

Non tralascerò di dirle quello che su questi canoni mi si affacciò alla mente già prima ch’io ne avessi concepito alcun sospetto di falsità, avvegnachè questa non mi sia pienamente chiara. Di essi canoni abbiamo due edizioni, che son chiamate prima e seconda. Nella prima, al can. 3°, si legge: «Se vi piace, onoriamo la memoria di san Pietro Apostolo, con iscrivere a Giulio vescovo di Roma.» Di qui desunsi vari appunti: 1° che innanzi a questi non era esistito un canone sugli appelli; altrimenti non avrebber detto «se vi piace:» secondamente, e per la stessa ragione, che non esiste alcun diritto divino; nel qual caso avrebbesi dovuto fare omaggio al divino mandato, e non onorarne spontaneamente il beato Pietro: in 3° luogo, che quei canoni non paiono stabiliti in perpetuo, ma solo per le cause vertenti in quel torno, dall’appellante non dandosi il diritto di udire al vescovo di Roma, ma a Giulio vescovo di Roma. Ora, per quanto queste avvertenze sieno di poco valore,3 gioverà che V.S. ne tenga conto.

Quello però che non dobbiamo postergare, si è la censura di questi canoni, per determinare con certezza se sono legittimi o suppositizi; perciocchè su questo cardine si aggira un circolo importantissimo. Io propendo pel sentimento di V.S., ma fo ricerca di prove maggiori. Tutto questo non ho scritto per non ristarmi d’importunare V.S. di frequente sopra uno stesso oggetto, ma per estorcere da Lei lettere più lunghe; dalle quali ritraggo ubertosi frutti di scienza, e le avvertenze per ritornarci in libertà: del che fo stima maggiore. Stia sana, Signor mio eccellentissimo: saluti il signor Casaubono, e m’abbia per suo osservantissimo.

Venezia, 26 agosto, 1608.



  1. Edita in latino, tra le Opere dell’Autore (Helmstadt, VI, 29). Il celebre giureconsulto parigino e non meno dotto canonista al quale è diretta, era stato tra quelli che la Repubblica di Venezia aveva richiesti di consiglio nel tempo delle sue contese col pontefice; e per essa egli scrisse l’operetta intitolata: Consultatio de controversia inter sanctitatem Pauli quinti et serenissimam Rempublicam venetam; impressa la prima volta in Parigi nel 1607. Vuolsi che ne fosse rimunerato con una catena d’oro; ma certo non iscriveva per amor di guadagno colui che, in più altre guise benemerito della sua nazione, aveva potuto dissuadere ad Enrico IV una riforma economica, dannosa al popolo, benchè suggerita dal duca di Sully; e nel 1601, sotto il titolo di Malattia della Francia, aveva inveito contro la venalità e l’eredità delle cariche. Morì nel 1625.
  2. Qui nota un anonimo illustratore, che con ragione il Sarpi non si appaga delle addotte congetture, perchè di fatto sole non bastano a mostrare la falsità di quei canoni. Se Zosimo li chiamò Niceni e non Sardicensi, ciò fu a lui comune con altri pontefici; cioè con Siricio ed Innocenzio I, li quali sedettero prima di lui, e con Leone, che alcuni anni dopo gli successe. In prova di che, riferisce le parole di Siricio, ep. 3, cap. J, e di Innocenzo I, ep. 25, al Conc. Tolent. c. 3, e di san Leone, ep. a Teodos. Imp. contro il Latrocinio Efesino. Dopo aver poi avvertito che nei canoni Niceni non si trovano trattate le questioni che dettero causa al Concilio di Sardica, prosegue che la citazione degli uni anzichè degli altri canoni derivò dal registrar che faceva la Chiesa ne’ suoi codici i canoni degli altri concili dopo i Niceni. Ma non tenendosi nemmen egli pago delle ragioni riportate, e di altre di minor peso, comecchè degne di ponderazione (fra le quali quelle per cui difende la voce Canale contro il senso del nostro autore), conclude: “Prendasi però la presente per quella che la è, cioè per semplice congettura, e nulla più.„
  3. Il medesimo illustratore va più franco, in questa parte, nel contrapporsi al Sarpi, cominciando dal dire: “Certamente le osservazioni fatte hanno poca forza. Le parole se a voi piace, espresse nel canone, non escludono il gius delle appellazioni alla romana Sede, anche nei tempi anteriori a questo Concilio.„ E quivi riferisce in prova ciò che scrisse il pontefice Giulio agli Eusebiani: indi invoca gli argomenti che vengono addotti per dimostrare il primato del romano pontefice; e finalmente distingue fra il portare al pontefice le relazioni in caso ch’egli ciò voglia, e questo non cade sotto il piace; e il portargliele spontaneamente senza ch’ei tal cosa ricerchi, e questo può cadere sotto il piace. Onde piace (secondo una tale interpretazione) vuol dire: — Compiacciamoci di esibire volontari quell’atto di onore, ch’egli per altro può con tutta ragione pretendere. —


Note

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