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XXIX. — Al signor De l’Isle Groslot
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XXIX. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Io non credo che sii andata in sinistro alcuna delle lettere di V.S. nè delle mie. Con tutto ciò, per ogni buon rispetto, ad uso delli mercanti, per l’avvenire farò menzione dell’ultima mia, e della ricevuta della sua.

L’ultima mia fu col corriere, che partì il 5 del presente; e quella di V.S., a cui oggi rispondo, è delli 28 luglio: dalla quale io veggo ch’ella ci reputa quelli ch’eravamo quando venne qua; ma a guisa della luna, abbiamo fatto gran mutazione: dormono quelli che vegliavano, e reputandosi posti in sicuro, trascurano ogni cosa. Nissuno ha cura quali possino essere nel tempo futuro le massime con quali ora si governa, purchè servano all’ozio presente. Non è già che non si desideri sicurtà maggiore di quella che si gode, purchè potesse venir senza nissun sospetto; e non so anco, se tale fosse facilmente ricevuta, che non fusse rifiutata sotto titolo di novità.

Insomma, qui si vive con esempi, non con ragione. Lo spagnuolo già tanti decennii d’anni è restato in Italia quieto. Se per l’avvenire debba continuare nella stessa maniera, è problema: è pur verisimile che operi come ha già operato; pur anco probabile che vogli veder l’altra fortuna: ognuno crederà secondo il suo affetto; noi, desiderosi di quiete, fermiamo qui la nostra credenza.

Delli Stati e del loro valore ho onorevolissima opinione; non però senza timore che le arti e la costanza delli loro nemici non li riducano in qualche mala condizione. Nè la speranza nelli vicini è tanta, che contrappesi questa dubitazione: non tutti però hanno questa opinione, perchè le cose lontane pajono sempre più picciole.

Li avvisi che V.S. dà al signor Molino, e quelli che aggiunge nella mia, intorno don Pietro di Toledo, sono conformi ad altri che vengono di costà, e tutti mostrano che le arti sono bene conosciute. Con tutto ciò, io credo ch’egli abbia altre cose da negoziare col re, e molto più con altri personaggi; nè mi posso credere che dove hanno le mani così gran maestri come li Gesuiti, possi restar l’opera senza frutto. Vero è che Dio rende pazza la sapienza mondana, ma noi non sappiamo se il presente sii il tempo del suo beneplacito.

L’armata spagnuola, che veramente è potente, ci ha tenuto e ci tiene tuttavia sospetti. Qua, già un mese, uscì fama ch’ella fosse per andare all’Arachia,2 dove V.S. dice; e alcuni delli vascelli, per far credere questo, veleggiarono verso Ponente: ma, dall’altro canto, quelli che portano la munizione, le armi e gl’istromenti da fortificare, si sono accostati al Levante. Non ardisco affermar niente, ma ben inchino a credere che non andando all’Arachia, ma in luogo peggiore per noi, fossero per avere felice successo i loro disegni; imperocchè insieme anco credo che resteranno senza frutto.

Di Boemia e Ungaria abbiamo, che le cose non sono nella quiete che pareva. Si fanno alcerto genti a piedi e a cavallo per l’imperatore. Mattias in Ungaria non ha tutta quella facilità che si credeva. Tutti sono in sospetto. Io, tenendo per fermo che tanto moto non è disegnato senza li Gesuiti e non vedendoli ancora comparir in questa scena, non credo che siamo alla catastrofe, ma forse solo al principio della favola.

Il legato Melino è in Praga, e vuol fermarsi quivi, se bene non piace questo molto all’imperatore. Li principi di Germania fanno varie e frequenti radunazioni, nè si vede perciò effetto.

Il mondo al presente è così inchinato alla pace, che se io vedessi duoi eserciti a fronte con le picche basse e fuochi alli archibugi, pronosticherei che dovessero ritirarsi ambiduoi a casa. Abbiamo veduto occasioni di guerra tanto grandi tornate in pace, che bisogna credere non potersi rompere se non per occasione di contrario.3

Ho mostrato a monsignor Asselineau la scrittura della relazione, acciò egli testifichi a V.S. in che stato è. La risalutano il signor Malipiero e il padre Fulgenzio. Li dirò di nuovo, che quell’altro Fulgenzio cordeliere, il quale ha ripreso li vizii della corte romana, come V.S. sa, e da loro4 è stato perseguitato duoi anni; finalmente, sedutto da loro, partì di qua il dì 8 di questo, furtivamente inviato verso Roma, dove presto giungerà; e essi piglieranno in spalla la pecora smarrita, e faranno la fiera. Insomma, le persuasioni sono state fatte con doppie di Spagna, che sono state viste in buon numero. Che cosa sarà dunque impenetrabile a quelle, che hanno penetrato la povertà, la nudità e lo sprezzo del mondo? V.S. tenga per fermo, che in Italia sono molti ipocriti, e non si maravigli, come fa nella sua, che, veduto il lume, abbino chiusi gli occhi, che li hanno sempre chiusi al vero e aperti all’interesse; e quando mostravano di veder meno, vedevano il pensier romano d’aver tutti uno ad uno. E di me si lasciano intendere, che mi averanno morto; ma questo non si farà senza Dio, e forse li farò più danno morto che vivo.

Intendo che quelli della religione faranno la loro congregazione. Quando sarà tempo, desidero saper le cose trattate. E qui facendo fine di scrivere, ma non di riverir V.S., le bacio le mani, pregandola far le mie umili raccomandazioni alli signori miei, il presidente di Thou, Gillot e Casaubono.

Di Venezia, il 26 agosto 1608.



  1. Tra le stampate in Ginevra (1673), pag. 53.
  2. Arais o Arache, che fu presa veramente dagli Spagnuoli nel 1610.
  3. Lo stesso avvenne, e durò ancora lungamente, in tempi a noi molto vicini. I periodi della pace segnano sempre quelli della stanchezza, e se assai prolungati, della debolezza del genere umano.
  4. Dai Romanisti. Intorno a questo Fulgenzio francescano, si vedano le Lettere dei 16 settembre, 30 novembre, 11 dicembre di quest’anno; e soprattutto quella dei 3 d’agosto 1610.


Note

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