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XXXII. — Al medesimo
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XXXII. — A Giacomo Leschassier.1


Ho ricevuta la lettera di V.S. eccellentissima dell’8 di settembre. Ritraggo da quella, che V.S. molto a proposito si è data interamente alla interpretazione del Concilio di Trento. Or quivi non si ha da fare come nelle altre leggi, ad interpretar le quali nulla è meglio che addentrarsi esattamente nell’intelligenza de’ proemi, i quali dichiarando il modo tenuto nel decretare e la datagli occasione, aprono il senso e la mente del legislatore. Nel Concilio Tridentino, all’incontro, non v’è cosa che più ci dilunghi dallo intenderlo, che lo esame de’ proemi. In Italia non v’è chi se ne dia pensiero. In mia prima giovanezza dimandai all’arcivescovo Rosanense, che fu poi Urbano,2 e siccome designato a distendere i decreti intervenne a quel Concilio, per qual ragione le narrazioni e le conclusioni, a dispetto dell’uso, erano contrarie o almeno non armonizzavano colle prefazioni de’ decreti del Concilio. Risposemi che essi praticavano di formare i decreti tra sè conformi in ogni lor parte, giacchè nelle conclusioni stabilivano quello che come riforma proponevasi nel principio. Però, quando venivano riveduti nelle congregazioni di Trento e di Roma, la prefazione piaceva bensì a tutti, e a niuno era molesta; ma bisognava toglier dal corpo del decreto o aggiungervi tanto che ciascuno ne fosse contento.3



  1. Edita come sopra, pag. 105.
  2. Cioè a dir papa Urbano VII, di casa Castagna di Genova, e stato arcivescovo di Rossano nelle Calabrie. Fu uno dei più lodevoli tra i pontefici, ma visse in tal grado soli dodici giorni del 1590. Il Sarpi dovè averlo conosciuto in Venezia, quand’ivi fu nunzio pontificio, a’ tempi di Gregorio XIII.
  3. Questa Lettera è visibilmente mutila nella nostra versione, come nel suo latino originale.


Note

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