Questo testo è completo. |
◄ | Vol. I - 32 | Vol. I - 34 | ► |
XXXIII. — Al signor De l’Isle Groslot.1
Oggi l’angustia del tempo mi farà esser breve contro il mio volere. Ho ricevuto per questo spazio dal signor ambasciatore il libretto delli arcani dei Gesuiti, il quale non mostrerò se non a persone fidate: l’ho trascorso, e mi è parso contenere cose così esorbitanti, che resto con qualche dubitazione della verità; chè gli uomini sono scellerati certo, ma non posso restar senza maraviglia, come tante ribalderie fossero tollerate dal mondo.2 Al sicuro, di tali non abbiamo sentito odore in Italia; forse altrove sono peggiori: ma questo sarebbe con molta vergogna della nazione italiana, che non cede a qual’altra si voglia.
Il registro delle lettere è passato a quel gentiluomo delli padri di Ferrara, e sarà in mia potestà.3 È cosa assai lunga, perchè è negozio continuato per quattro mesi in vari e notandi particolari. Come ritorna il mio giovane che scrive, darò principio a farlo copiare, per mandarlo a V.S.; che è cosa degna. Ma a un estratto delle cose principali non averei tanta fede; chè con tutti li particolari si vederà da ognuno la verità apertamente.
Lo stato delle cose di Germania è tale, che dovrebbono risentirsi. Se così non fosse, converrebbe dire, che l’ira di Dio sia ancora accesa, poichè si vede tanta cecità nel mondo. Ho ammirato l’artificio spagnuolo nel trattare col Cristianissimo; chè le risposte savie del re essendo consuete a lui, non mi sono parse nuove. Abbiamo avviso che avendo li ministri di Spagna proposto per risoluzione del suo re la pace, con condizione di non navigare alle Indie e di ammettere la religione romana per tutto, siino stati licenziati dalla trattazione; ma che essi abbino domandata nuova dilazione, e sia stata concessa: per il che anco si sii spedito corriere espresso in Spagna. Temo da questa lunga trattazione, perchè quei popoli sono troppo aperti, e hanno a trattare con nemici troppo artificiosi. Abbiamo anco avvisi, che anderanno li Spagnuoli all’Arachia con tutta l’armata, ma che la troveranno ben provveduta; e perchè essi mandano tal avviso, credo che abbino deliberato il ritorno prima dell’andata.
La richiesta fatta dalli canonisti al clero mi pare una sciocchezza, e però temo che non s’introduca; perchè quella è una dottrina per corrompere d’avvantaggio ancora la libertà della chiesa gallicana, che sola tra le romane serba qualche vestigio dell’antica libertà.
Il baron di Dona, cavaliero compitissimo, fu qui, e io ho goduto con molto piacere qualche volta la sua conversazione. Credo che all’arrivo di questa sarà costì: per il che rimando la lettera a V.S. Resto indicibilmente obbligato alla grazia di monsieur Aleaume, che si offerisce farmi gran favore. Prego V.S. ringraziarlo per mio nome affettuosamente: che io li resterò sempre divoto e desideroso di farli cosa grata. Nel fine della sua lettera. V.S. fa scusa con me quale io doverei far con lei, perchè scrivo senza nissuna osservazione il mio concetto, come lo parlerei a bocca; ma costumo così, perchè appunto le lettere familiari vogliono uscire dall’animo senza affettazione.
Ella averà inteso la partita di qua di fra Fulgenzio minorita, e come a Roma sia stato ricevuto con favori grandi. Io confesso di non intendere la loro politica: può essere che la ragione voglia che così procedino, ma io son cieco per poter vederla. V.S. è risalutata dalli signori Malipiero e Molino, e dal padre maestro Fulgenzio; insieme con quali io le bacio la mano.
- Di Venezia, il 16 settembre 1608.
- ↑ Edita nella raccolta di Ginevra ec., pag. 68.
- ↑ Si veda alla pag. 100.
- ↑ Rivedasi alle pag. 61 e 62.