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LXXX. — Al signor De l’Isle Groslot
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LXXX. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Ho ricevuto tutt’insieme per questo dispaccio una di V.S. delli 27 maggio, ed un’altra delli 10 giugno; le quali sono state a gran pericolo di perdersi qui: cosa che mi sarebbe spiaciuta molto. Il tutto è riuscito bene, Dio lodato.

Adesso qui s’attende al negozio dell’Abbazia, il quale non so pronosticare come sia per avere la riuscita. Dio faccia che sia a sua gloria! Assai male viene di costì. La favola d’Esopo porta il vero; che la volpe perduta la coda alla trappola, consigliava che ciascuna tagliasse la sua.

Gli Spagnuoli trattano in Roma con assai decoro. Hanno mandato don Francesco ambasciatore là, con tutto che il papa non gustasse quell’andata: si lasciano intendere non voler che siano messe pensioni sopra loro beneficii per Italiani in testa de’ Spagnuoli: essendo stata interdetta una città in regno di Napoli, hanno fatto risentimento molto gagliardo contro il vescovo. Da questo però V.S. non concluda ch’essi vogliono romperla, o perdere il dominio che hanno; ma sanno in che modo convenga procedere. Alcune donne non amano se non chi le batte. Il mondo ha opinione che, fatta la tregua, si pensi ad altra guerra, e che solo si differisca per prender fiato. Io posso ingannarmi, ma tengo che il fine di chi governa sia avere una pace perpetua, e che non romperanno con nissuno, se però non saranno tirati per forza.

Le cose di Parma sono andate tutte in silenzio. In fatto, questa è una stagione di secolo molto inchinata al comporre le cose: io credo che se anco duoi eserciti fossero a fronte, partirebbono d’accordo senza sfodrar spada. Poichè le cose di Boemia passano senza sangue, si può sperare che altra guerra non convenga a questi tempi, se non di parole. Indizio grande anco ne dà il libro del re d’Inghilterra. L’armata dei Turchi non farà gran cosa, poichè tanto tarda a uscire.

Ho inteso le disgrazie del padre Cottone: la pace segue sempre dove vi è interesse d’ambe le parti per accordarsi. Egli con qualche maggior servizio, o con dar speranza di farlo, accomoderà ogni cosa.

Le ordinazioni scritte mandatemi dal signor Castrino, sono parte troppo minima di quella politica: sono alcuni capi raccolti dalle Costituzioni, quali danno saggio di esse, ma non gusto intiero. Io dispero di poter mai vederle; e con ragione, perchè quando li misteri sono pubblicati, è distrutto il loro valore.

Non posso credere che voi siate ingannati da loro,2 ma più tosto che li vostri interessi comportino che mostriate di non vedere e di non sapere. È vero che si è fatto il capitolo del mio Ordine, dove forse alcuni disegnarono qualche cosa; ma anco noi siamo stati sopra le avvertenze. È piaciuto a Dio che sia riuscito il disegnato da noi. Nella congregazione dei Camaldolensi tenuta in Roma, non fu fatta alcuna risoluzione di rilievo: si tentano cose assai, che riescono vane.

Sono passate alcune lettere tra il signor Hottman3 e me, con molto mio piacere, che lo scuopro gentiluomo molto sensato. Vidi già più mesi certa raccolta fatta da lui di scritture che trattano l’argomento della concordia, quale mi fu portata da un gentiluomo che venne di costì. Io lodo il zelo, e li mezzi mi paiono ottimi: però bisogna aspettare la congiuntura del tempo per usarli; chè fuori della conveniente opportunità, non fanno effetto se non contrario. La scienza dell’opportunità (disse Socrate) è sola degna e sola patrona.4

Io tengo che molte differenze siano pure verbali, e mi eccitano alle volte a ridere; altre potrebbono restar salva la pace, altre con facilità si comporrebbono: ma il tutto è che ambe le parti sono d’accordo in questo, di non volersi comporre e di riputare la dissensione irreconciliabile. Due litiganti mai s’accordano sin che vi è in alcuno d’essi speranza di vincere; ma dove vi è certezza, non bisogna pur nominare l’accordo. Ambe le parti al presente tengono per certo dover restar superiori: una per mezzi divini, l’altra per umani. Per la prima, l’entrar nelli secreti di Dio è cosa molto ardua; e con tutto ciò sostiene che al secondo capo degli Atti apostolici sia vietato il pensarci. Per la seconda, sono troppo fallaci li consigli umani, e poche volte anco riesce quello che i prudentissimi disegnano. Non posso penetrare in modo alcuno il senso di quelli che dicono: — Dio ha predetto e voluto questo; — e tuttavia si faticano acciò non sia. Ma dell’astrologia giudiciaria bisognerebbe parlarne con qualche Romano, essendo quella più in voga nella loro corte, che in questa città. Con tutto che vi concorra ogni abuso, questo mai non ha potuto aver luogo: la vera cosa è, perchè qui5 le persone non ingrandiscono se non per gradi ordinari e usitati, nessun può sperare oltre lo stato suo, nè fuori dell’età conveniente. In Roma, dove oggi si vede nel supremo grado chi ieri era ancora nell’infimo, la divinatoria è di gran credito.

Che miseria è questa umana di voler sapere il futuro! A che fine? Per schifarlo? Non è questa la più espressa contraddizione, che possi esser al mondo? Se si schiferà, non era futuro, e fu vana la fatica. Io nell’età di anni venti attesi con gran diligenza a questa vanità;6 la quale se fosse vera, meriterebbe che mai si attendesse ad altro. Ella è piena di principii falsi e vani; d’onde non è maraviglia che seguano pari conclusioni: e chi ne vuol parlar in termini di teologia, credo che la troverà dannata dalla Scrittura divina (Isai. c. 7.) Sono anco assai buone le ragioni di Agostino contro questa vanità. (De Civitate Dei, lib. 5, cap. 1, 3 e 4. Confession. cap. 3, 5; e 2 super Genesi, cap 16 e 17). Se costì fosse un re mutabile, che ricevesse in grazia oggi questo, domani un altro, l’astrologia piglierebbe molta fede; e se fosse giovane, perderebbe anco quella che ha. Io tengo poche cose per ferme, sì che non sia parato a mutar opinione: ma se cosa alcuna ho per certa, questa n’è una, che l’astrologia giudiciaria è pura vanità.

Io mi lascio trasportar dal piacere che sento nello scriverle, senza avvertire alla noia che Ella sentirà nel leggere. Non conviene che passi più innanzi. Prego Dio che doni ogni felicità a V.S.; alla quale bacio umilmente le mani, come fanno parimente il padre Fulgenzio e il signor Molino. Quest’ultimo mi dice che non mancherà di scrivere a V.S. per pregarla d’una copia dell’ultima scrittura. A me sarebbe grato che tutta la nostra nobiltà seguisse i suoi sensi.

Di Venezia, il 2 di luglio 1609.



  1. Pubblicata in Ginevra ec., pag. 173.
  2. Cioè, dai Gesuiti.
  3. Sembra parlarsi di quell’Hottmanno, abbate di San Medardo, al quale è diretta la Lettera XXV. È da notarsi come altre ancora, secondo queste parole, ne dovessero esistere a lui scritte dal Sarpi, e che più non si trovano.
  4. Non mancherà chi voglia nei nostri giorni opporsi a Socrate e al Sarpi; ma, quanto a noi, preferiamo di starci col Sarpi e con Socrate.
  5. In Venezia; dove pure è notabile il sentir dire dal Sarpi, che aveva luogo “ogni abuso.„
  6. Si noti, per la vita stessa del Sarpi; com’è degna di ritorcersi contro certi sedicenti filosofi del suo tempo quella risoluta sentenza colla quale conchiudesi il presente paragrafo.


Note

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