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CXXVIII. — A Giacomo Leschassier
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CXXVIII. — A Giacomo Leschassier.1


Mal volentieri mi privo del piacere che godrei se a mio bell’agio potessi leggere tutte le sue lettere, esaminarle e risponderle comodamente: ma di un sol giorno, o due al più, mi è dato disporre. Ricevei ieri la gratissima sua de’ 25 gennaio; e partendo oggi il corriere, dirò primieramente de’ beneficii. Continuai, come le scrissi anche altre volte, sulle orme di cui già mi tenne parola. Provai, colla celebre Glossa e co’ dottori francesi, che il possessorio della cosa spirituale è temporale, e ne chiaríi la erronea distinzione in spirituale e temporale: dimostrando, in pari tempo, colle esecutoriali degli ecclesiastici, che il possesso che vogliono dare si è di cose temporali; perciocchè parlano espressamente di beni, di rendita, di proventi ec.; e che tutte le vecchie formole delle quali fece uso la Repubblica, colle nuove altresì, conferiscono il possesso delle chiese, dei monasteri ec., insieme col correspettivo fruttato ec. Gridai sino a divenirne rauco, che i beni ecclesiastici, in vacanza dei benefizi, sono nel possesso delle chiese; usando quell’argomento, che se alcuno li turbasse, l’economo in nome della chiesa interdirebbe la ritenzione. Ancora aggiunsi, che sebbene qualche vescovado non avesse alcun reddito e nulla di temporale, tuttavia il vescovo sarebbe messo in possesso dalla Repubblica; siccome accade e può accadere appo di noi, che stiamo a’ confini de’ Turchi nella Dalmazia. Non fo tutto quello che voglio o desidero, ma non per questo me ne sto ozioso: solo il natural impeto viene dalle circostanze represso.

Un’altra cosa voglio ora insegnare; cioè che chi mette in possesso, può altresì privare del possesso: il che sarà arduo non poco, sì perchè ho contro di me tutti i beneficiari, come perchè manco di esempi; ed è già pregiudicata opinione nei nostri, che il secolare non può far questo per causa alcuna. Nulladimeno voglio tentar la cosa; che almeno aprirò ad altri la via.

Mi giunse opportuno quant’Ella mi ricorda intorno al modo di mettere in possesso di cui parla il Rebuffo; giacchè io non sapeva come stricarmene, pensando che si tenesse ancora il costume da lui descritto. Non è senza ragione la sua maraviglia, che la Repubblica abbia potuto conservare la sua libertà in questo stato di cose, dove il pontefice è donatore di tante facoltà: ma giova sapere, che siccome dal pontefice dipendono coloro che ottengono e sperano i beneficii, così gli sono in sommo grado avversari quelli che ne disperano. Questo avviene in quelle famiglie le quali vogliono che sieno nelle loro case continuati i grassi beneficii, e che non solo impediscono agli altri di conseguirli, ma non vogliono che ne resti altrui nè anche la speranza. Aggiungo che alcuni, non so per qual destino, nascono così votati allo stato chericale, che per nessuna utilità, per nessuna promessa possono esserne svolti. Oltrechè, le famiglie che posseggono beneficii non sembrano averne mai abbastanza, ma ne chieggono ognora di più: cosicchè poi altre di ciò si tengono offese. Queste cose fanno sì che nella curia abbiano più avversari che fautori coloro che tengono per legge lontani dai pubblici maneggi quelli che da essa hanno dipendenza. V’ha una legge, in virtù della quale il cherico o il beneficiario diviene incapace di qualsivoglia dignità, magistrato ed altro officio secolaresco: altra legge ancora, per cui il consanguineo del cherico sino al terzo grado, giusta il computo canonico, e l’affine sino al secondo, vengono esclusi da ogni segreto consiglio dove si tratti di cosa o di persona ecclesiastica, e per questo non possono intramettersi come giudici in causa civile o criminale, dove il fatto sia di chiesa o l’attore persona ecclesiastica.2 È fuori d’ogni dubbio che così aumentano ogni giorno le forze dei fautori della curia; perchè, come ne avverte Tacito, tutti si accomodano più risolutamente a chi porge; e se la cosa andasse avanti di tal passo, sarebbe invero a temersi per la nostra libertà. Ma è pur fuori di dubbio che le cose accadono per divino beneplacito: il suo fine ci è ignoto: contuttociò, si deve cercar sempre con ogni studio e sperare il meglio.

Io non sono tale che professi pubblicamente d’intendere l’Apocalissi, perchè neppure son re;3 e quanto al durare di essa in perpetuo, o solo sino al suo fine naturale, sia come congregazione di Pietro, o come Babilonia, appoggiandomi piuttosto a congetture umane, giudico ciò dipendere da un sottil filo; cioè dalla pace d’Italia. Voi di qua lontani non potete intendere quello che a noi si mostra chiaramente. Vogliate credermi: una volta mossa la guerra in Italia, vinca il pontefice o sia vinto, non importa, la cosa è spacciata: essi medesimi il sanno; perciò nessuno, come una volta, va provocando la guerra per accrescere alcun che del suo patrimonio; vedono anzi che colla guerra rovineranno da sè stessi la loro casa. Ora versano in grande tristezza, poichè alcuni pronosticano la guerra da parte del duca di Savoia coll’aiuto de’ Francesi. Io, siccome non credo che sia per accadere, così stimo che il rammarico della curia è motivato da gran ragione. Soltanto colla pace, come altre volte colla guerra, si sostiene l’Italia: imperocchè in questa, non come negli altri paesi, si guerreggia con soldati, armi e danari degli altri; sicchè, qualunque parte vinca, vince mai sempre in Italia; e così ogni morbo che va al cuore è mortifero, anzi mortale, benchè sulle prime sembri cosa di piacere.

Dirò della pittura fatta fare dai Gesuiti, come la cosa sta. In una certa sala della loro casa in questa città, fecero dipingere l’inferno con ogni maniera di pene fiammifere, come padelle, spiedi e altre cose, e colle povere animucce che così vengono tormentate. Menavano colà i loro devoti, a fine di renderli così più soggetti col terrore, e mostravano le animucce e le venivano indicando col nome più capace di esser compreso da ciascun uditore: — Questo è il tale, quello è il tale altro; — d’onde nacque tra di noi il volgar proverbio: Li Gesuiti ti faranno dipingere a ca’ del diavolo. Mi raccontò un giovanetto, il quale studiava giurisprudenza, di esservi stato condotto, e che nel mostrargli le anime, gli fu detto: — Quello è Alberico Da Rosate;4 quell’altro Roseto;5 quello Covarruvias; — e, che più mi sembra notabile, in certo spazio non per anche acceso da fiamme e capace di una sola animuccia: — Quello è, dicevasi, il luogo che aspetta il Menochio; — giacchè il Menochio era allora in vita. Queste sono cose da ridere, ma con tali ridicolezze essi intanto ci vengono tiranneggiando.

Mi fu grato quant’Ella mi significa intorno al giureconsulto Batavo: gioverebbe assaissimo alle cose nostre che questo libro qua si vedesse, ed io darò opera che ci venga condotto per mare; il che avverrà facilmente, avendo io là molti amici.6 Solo la prego di farmi sapere il nome dell’autore, il titolo del libro e il luogo della stampa.

Dell’Arresto di Châtel mi maraviglio che tanto abbiano differita la censura. Si dice che vi sia questa proposizione: Che non v’ha re nella Chiesa, prima che venga approvato dal papa; proposizione, certo, contraria alla parola di Dio; eresia condannata dai sacri decreti: e tuttavia, cotesta proposizione è il primo articolo della fede curiale. Sono stato troppo prolisso e molesto. Finisco con pregarla di scusarmi e di continuare, siccome è solita, ad amarmi.

Di Venezia, li 2 marzo 1610.



  1. Pubblicata in latino tra le Opere dell’Autore ec., VI, 73.
  2. Sono assai note queste leggi sapientissime della Repubblica veneziana.
  3. Allusione alquanto pungente al re teologo Giacomo I.
  4. Questo dotto giureconsulto bergamasco, amico di Bartolo, scrisse commenti reputatissimi, sul sesto libro delle Decretali. Vedi la nota 3 alla lettera CXXI, pag. 5 di questo vol.
  5. Dovrebbe qui parlarsi di quell’Antonio Roselli aretino, che essendo già stato ai servigi dei pontefici Martino V ed Eugenio IV, andato per essi in diverse ambascerie, e avendo composto un libro (come oggi direbbesi) codinissimo, De potestate papæ et imperatoris; sdegnato poi per non avere ottenuta la porpora, accettò una semplice cattedra in Padova, e ne scrisse un altro De monarchia, contro le pretensioni della corte romana.
  6. Lasceremo che i detrattori del Sarpi si sollazzino a lor posta facendo invettive contro queste sue molte amicizie in paesi di protestanti.


Note

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