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CXL. — Al signor De l’Isle Groslot
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CXL. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Essendo quella di V.S. delli 11 maggio, che ultimamente ho ricevuto, scritta innanzi la morte del re, per la mutazione di tutte le cose non ricerca risposta, se non di poche particole.

Il ritorno del signor Foscarini porterà gran impedimento alla nostra comunicazione; nè per adesso io so trovare altra via, se non quella dell’ambasciatore di Torino. Del venturo2 a Parigi non si può confidare pienamente, per esser troppo papista; e, quel che più importa, non per religione, ma per interesse. Mandare le lettere per il corriero non inviate ad altre persone, è cosa piena di pericoli, e non mi capiterebbono se non per fortuna.

Se il re fosse vissuto e avesse continuato il proponimento di andar in Germania con tante forze, io non dubito che quei principi non si fossero accordati; e già dell’accordo si parlava apertamente qui. Non potevano esser senza sospetto, quando un forestiero dovesse entrare nel loro paese tanto più forte di loro. La memoria di Enrico II non è tanto antica;3 e anco quando il re fosse stato tale che avessero dovuto fidarsi totalmente, la prudenza politica però non ammette lo Stato a discrezione d’altrui, massime che la dimanda fatta all’arciduca del passo, e la commissione successa, non potevano argomentar pensieri sopra altri paesi. Adesso che sono levate queste ombre, forse che sfumerà quella trattazione d’accordo, del resto piena d’infinite difficoltà, e che presuppone innanzi la perfezione di molte cose, ciascuna delle quali vuol un anno: e fra le principali, la denuncia di guerra contro li Stati fatta da Leopoldo, ha accresciute le difficoltà, non essendo conveniente che li principi di Germania abbandonino quella Repubblica, dichiarata per loro. Io ho ammirato la deliberazione di quel governo in dimandar ugualità con Francia e Inghilterra nel compartimento della preda. Nessun principe fece mai gran cose, se non quelli che riputarono le loro forze maggiori di quello che erano: questi soli mettono a pericolo, e senza esitare o pentirsene, tutto. Quel che si fa altrimenti, riesce di sotto del mediocre.

Il negozio del re de’ Romani averà incontri insuperabili: la volontà dell’imperatore non inclinata a vedersi successore vivendo; li disgusti tra sua maestà e il fratello; qualche concorrente tra essi fratelli, quali non tutti cederanno al maggiore; la poca convenienza tra li principi elettori; li interessi poi de’ principi fuori di Germania, che s’adopereranno a varii fini, non tanto con lettere d’inchiostro, quanto con lettere d’oro. Le quali cose mi fanno congetturare, che la nostra età non sia per vedere regolate tante cose, quante per necessità sono per attraversarsi oltra le dette.

Ma lasciando queste cose pubbliche, quanto al Teatro di Vignier,4 tanto hanno scritto sopra quella materia, e sono così difficili da stabilir li principii dove cavarne resoluzione, che il parlarne oltre la congettura è cosa assai pericolosa. Io credo bene che avrò occasione di vederlo, ma non mi curo che questo sia così presto, avendo altre cose per le mani.

Quanto al libro De modo agendi,5 io ricercai l’ambasciatore straordinario d’Inghilterra, che me lo procurasse insieme con altre cose. Egli, al suo ritorno, in luogo pubblico, dove non potevamo parlare lungamente, mi disse che mi aveva sodisfatto; ma immediate tornato a casa, si mise in letto con grave infirmità, di dove non è levato per ancora: onde non ho potuto sapere se al certo in questo son sodisfatto; ma congetturo di sì. Onde prego V.S. non passar più innanzi in affaticarsi per ciò; e se io per quella via non avrò ottenuto il mio desiderio, le scriverò di nuovo e riceverò la sua grazia.

Non so se quei Padri goderanno felicità in Francia dopo la morte del re, o pur maggiore. Quanto a me, credo che averebbono per vergogna che fosse successo un gran fatto per altre mani; e se bene tutto non si scoprirà, non so se varranno ancora a tutto coprire. Io crederò il ragionevole senza fare loro torto, poichè non capit prophetam perire extra Hierusalem.6

Quanto a Fra Fulgenzio, non è vero che sia posto in galera, nè dopo che fu messo prigione all’Inquisizione, si ha saputo di lui altro con certezza. Un mese è che li Padri del suo ordine da Roma scrissero, ch’era morto in prigione, di laccio; e così essi tengono per certo: ma io non ne ho altri riscontri. Mi resterebbe dirle alcune altre cose, le quali avendo scritto a monsieur Castrino e mancando di tempo, lo prego che gliene faccia parte. E qui facendo fine, le bacio riverentemente la mano.

Di Venezia, li 8 giugno 1610.



  1. Dalla raccolta fatta in Ginevra ec., pag. 249.
  2. Di quello che verrà. E vedi, su tal proposito, le Lettere CXXIX e CXXXVI.
  3. Enrico II erasi collegato coi principi di Germania contro l’imperatore Carlo V, ed esercitando lungamente la guerra tanto in quelle regioni come nei Paesi Bassi ed in Italia, aveva aggiunto sino a dugento piazze al dominio di francia; le quali poi tutte cedè nella vergognosa pace detta di Chàteau-Cambresis. Morì, com’è noto, per ferita riportata in un torneo, nel 1559.
  4. Niccolò Vignier, ministro della chiesa riformata in Blois, ebbe dal sinodo della Roccella la commissione di scrivere il così detto Teatro dell’Anticristo, che venne in luce nel 1610. Aveva prima pubblicato una dissertazione contro il Baronio, intorno all’Interdetto di Venezia.
  5. Parlasi di quello attribuito al Perkison, poi saputosi non esser suo, come si ha dalle precedenti.
  6. Il Sarpi, calmata la prima effervescenza dell’ira suscitata da un tanto delitto, perseverava nel credere i Gesuiti indirettamente colpevoli della morte di Enrico IV. Vedi al principio della Lettera CXLIII.


Note

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