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CXLIII. — A Giacomo Leschassier.1
Ho due lettere della S.V., l’una dei 29 giugno, l’altra dei 10 luglio; giacchè la prima ebbi più tardi della susseguente, perchè lo spaccio ordinario non portò il piego dell’illustrissimo Legato; ma bensì un altro corriere, che qui approdò due giorni dopo la partenza dell’ordinario. Ad entrambe farò che valga una sola risposta.
Da chi procedesse la morte del re, abbastanza il discoprono quelli che ne sentirono allegrezza, che ne lodarono il fatto, come lo avevano altresì prenunziato: e benchè dicasi comunemente e ripetasi, che l’assassino non nominò verun promovitore,2 io tuttavolta credo ciò ch’è ben giusto di credere; vale a dire che il sapessero quelli a cui giovava saperlo. Ma la ragion di Stato non consente che cose tali ora vengano propalate. La curia romana, poi, non condannerà mai la dottrina dei Gesuiti; perocchè in questa è l’arcano del suo impero; sommo e capitalissimo arcano, per cui vengono rimossi quelli che scopertamente osano di non adorarlo, e tenuti in briglia quegli altri i quali oserebbero, se non fossero trattenuti dal timore.
In quanto ai Gesuiti riguarda personalmente, ben disse un tale tra essi, che il gesuita è uomo di tutti i colori: vedi in essi rinnovarsi il fenomeno del camaleonte. Ho letto ciò che scrive il Cotton sopra tale argomento. Lascio stare le inette adulazioni di che l’opuscoletto ribocca; ma tutto il suo dire è un tessuto di equivoci, nè mai palesa il concetto della sua società, se non in guisa da poter travolgere le sue parole sì dall’una come dall’altra parte. Nulla accenna di quelle terribili condizioni: se il re sarà di diversa Religione; se presterà favore a quelli che rigettano la Religione romana; se fosse scomunicato dal papa o privato del regno, o se ad altri verrà comandato di ammazzarlo. Queste erano le cose da spiegarsi; ma a che pro desiderarlo? Costoro non parleranno mai tanto esplicito, che non siensi riserbato qualche angolo dove rincantucciarsi.
A tali uomini io non darò fede mai, finchè avrò a mente il contegno del Bellarmino e del Richéome. Costui, pressato da una perentoria interrogazione fattagli dall’autore del Franco ed ingenuo Commentario cioè che cosa i Gesuiti avrebbero fatto se qualche papa avesse perseguitato un re di Francia, come Giulio II fece con Lodovico XII; liberamente rispose, ch’essi farebbero quello stesso che fecero i buoni Francesi di quel tempo. Il che avendo io obbiettato al Bellarmino, rispose ch’io non aveva ben afferrato il pensiero di un sì gran padre; giacche per buoni Francesi egli aveva inteso quelli che allora rimasero fedeli al papa. Come vorrebb’Ella potere afferrar Protei di tal natura, ai quali è lecito il mentir nome ed abito e professione; che la menzogna non iscusano soltanto ma lodano, e che stimano esser lecita ogni cosa che miri, secondo loro, a retto fine?
Dissi che il Mariana è un trastullo, quando si paragona con gli altri Gesuiti; ed Ella mi chiede di segnalarle il passo, al quale io alludeva, del Suarez. Esso trovasi nella Disputazione 15, Questione 6, e contiene: che ai sudditi è lecito armarsi contro il lor principe, non solo se il papa ciò comandi o permetta, ma col suo futuro beneplacito; cioè quando credano che a lui sarà cosa grata e da riportarne approvazione, sebbene non abbia osato di manifestar ben prima il suo desiderio. Vedrà nello stesso luogo (cosa più ancora da esecrarsi), che quando alcuno viene scomunicato, resta insieme sospeso da ogni giurisdizione: tuttochè non si ardisca soggiungere, come in tal caso venga rimesso alla volontà dei sudditi l’obbedire o non obbedire. Ora, in sì gran numero di scomuniche, e in ispecie di quelle che in sè porta la bolla In cœna Domini quale tra i principi troverà la S.V. che un prete o frate superstizioso non possa accalappiare nei lacci di quindici o venti anatèmi? Un padre Comitolo, gesuita, ammonì per iscritto la Repubblica di Venezia, com’ella fosse già incappata in trentasei capi diversi di scomunica !! Ora, se ai sudditi convenga star sotto o ribellarsi, checchè da tai maestri si voglia, dacchè non osan chiarirlo, sarà precario pur sempre l’impero dei regnanti. Il Mariana va giocolando colla rettorica; ma così non si formano le coscienze: anzi è soprattutto da guardarsi da questa gente, che sempre insegnano per conchiusioni, argomentazioni e soluzioni. I disputanti di tal sorta sono i più perniciosi di tutti.
Mi maraviglio di quel vescovo di Clermont, come sì poco pratico del vecchio giure ecclesiastico. E perchè mai l’eresie non sarebbero da condannarsi nel luogo stesso dov’esse nascono e si vanno dilatando? Forsechè i morbi indigeni non ben si curano se non per medicine forestiere? La petizione che il Consiglio regio ha presentato al papa acciocchè approvi il decreto della facoltà teologica, non tornerà gradevole nè verrà esaudita. Si oppone, in primo luogo, il ricordare che vi si fa il Concilio di Costanza; che non sappiamo ancora, tra gli altri arcani, se Roma approvi o trovi da censurare. Ostano insieme più altre cose, colle quali ben sa la curia che vorrebbesi scandagliare il fondo delle sue pretensioni. Ne prognostico che non verrà negata nè concessa, ma a forza di dilazioni sarà procrastinata fin tanto che qualche caso venga a nascere, onde possano sfuggirvi di mano.
La S.V. mi ha fatto favor gratissimo coll’accozzarmi la intera storia della condanna del Mariana, e gli opuscoli scritti intorno alle cose che ne derivarono. La prego, se mai seguisse su di ciò qualche altra novità, che non le sia grave il parteciparmela.
Il libricciuolo intorno agli occhiali3 non è ancora stampato: l’autore attende alle incisioni, delle quali ha bisogno per ispiegare i suoi sentimenti: tosto che sia stampato, farò di mandarglielo.
Non posso frenarmi che non torni a dire dei Gesuiti. A tutti in Italia è ormai manifesto, com’essi facessero della confessione un’arte. Mai già non ascoltano per tal guisa alcuno, che poi tra loro non conferiscano su tutte le cose dette e fatte; e ciò per deliberare se possano trarne alcun partito a pro della santa Chiesa, o della loro società. Del rimanente, vanno agli altri predicando, essere sì stretto il sigillo della confessione, che nemmeno al penitente è lecito d’infrangerlo se il confessore abbia trattato cosa alcuna con lui, sebbene non appartenente a peccati, e ne anco alla salute dell’anima. Il peggio si è, che una dottrina tale si viene abbracciando da ogni sorta di confessori; però ch’essa giova a mantenere il loro impero, e così possono liberamente trattare ogni cosa che ad essi torni a grado. Io combatto quanto più posso contro questa dottrina; ma essa mise già profonde radici nell’animo dei religiosi per l’utilità che lor reca, e in quello di molti altri per forza di superstizione. Non farei mai fine se volessi ricordare tutte le massime con che i Gesuiti intendono a regolare il sagramento della penitenza. Ben è da pregarsi Iddio che voglia eliminare una siffatta peste dal mondo; com’io lo supplico a voler mantenere incolume la S.V. eccellentissima. Godo che il signor Casaubono sia fuori di ogni pericolo; e caldamente raccomando di volergli fare le mie congratulazioni, co’ miei cordialissimi saluti. Stia sana.
- Di Venezia, a dì 3 agosto 1610.
- ↑ Pubblicata, tra le Opere, in latino, pag. 86.
- ↑ Si vuole che Ravaillac, tra gli spasimi della più atroce ed ultima tortura, sciamasse: — Mio Dio, perdonate il mio fallo; ma non mel perdonate, se ho qualche complice e non voglia scoprirlo! — Il fanatismo individuale è evidente; ma i fanatismi di tal sorta non nascono senza chi siesi adoperato a crearli.
- ↑ Così parve dover tradursi per maggiore fedeltà al testo; ma sembra da intendersi: sul nuovo cannocchiale.