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CXLVII. — Al signor De l’Isle Groslot
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CXLVII. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Son debitore di risposta a due di V.S. La seconda è delli 5 luglio, portata dall’ultimo corriere. Quella delli 23 giugno, ch’è la prima, non venne in tempo che li potessi rispondere per lo spaccio passato, perchè il piego del signor ambasciatore non fa portato dall’ordinario, ma da un altro, che arrivò quattro dì dopo.

Io veggo dalla suddetta delli 23, che V.S. è in qualche suspicione che alcuna delle nostre lettere sia andata in sinistro, e in particolare ha pensiero sopra quelle del mese di maggio. Non posso rammentarmi li tempi particolari; ma ben pensate le circostanze di quelle ch’io ho scritto a lei ed Ella a me, vado concludendo che tutte siano capitate bene. Passano sempre 45 giorni innanzi che da Parigi si abbia una risposta; e innanzi che venga da V.S. a mio conto, appresso 60. Non è meraviglia se in così lungo tempo possi apparire che la risposta dovesse venir prima.

Io so d’essere stato qualche volta senza scriverli, riputando ch’ella fosse indisposta o assente, quando non ricevevo sue lettere: però sempre ho tralasciato lo scrivere con dispiacere, essendomi gratissima la communicazione con V.S., dalla quale ricevo sincera e soda cognizione delle cose che passano; le quali, per la congiunzione che hanno con le nostre, mi è grandissimo giovamento l’averne real certezza. Oltre ch’è grandissimo il gusto che ricevo dal parlare con esso lei per questo mezzo, poichè non posso presenzialmente; e per tanto, sto molto in pena di quel che potremo fare dopo la partita del signor Foscarini. Nel viaggio di Torino a qui, le lettere sarebbero molto sicure per mezzo di quell’ambasciatore. Il punto sta come assicurarle sino a quella città, e da quella sino a V.S. Quel signore2 è molto desideroso di aver particolare communicazione con Lei, avendo concepito gran stima del suo valore per qualche discorso delli suoi che io li ho comunicato; ed è degno, per le sue rare virtù, di esser amato da V.S. Le dirò in una sola parola, ch’egli è delle più tranquille anime che abbia non solo Venezia, ma forse Italia; prudentissimo nel maneggio degli affari suoi, alieni e pubblici, ma insieme sincero, reale amico e di piacevolissima natura: cose che appresso di noi si vedono poche volte congiunte. Son sicuro che, se piacerà a V.S. far risposta alla sua lettera, lo riceverà per gran favore; e volendo scriverli qualche cosa in confidenza, potrà usar la mia cifra, che a questo effetto le sarà comunicata. Il suo nome è Gregorio Barbarigo, ambasciatore veneto appresso l’Altezza di Savoia.

Credo che già avrà inteso come il signor Foscarini è stato eletto per ambasciatore al re della Gran Brettagna; per il che, da Parigi passerà in quell’isola. Il pacchetto che V.S. ha dato a lui, potrà ordinare che sia dato al signor Agostino Dolce, che verrà segretario con li ambasciatori straordinari, e sarà di ritorno con loro.

Il libro De modo agendi è stato portato da quel signore che fu ultimamente in Inghilterra: non è però compito. Non so se sia perchè l’autore non sia passato tanto innanzi, o perchè abbia voluto riservare qualche cosa per sè: ma è scrittura molto bella. Andando il signor Foscarini là, avrò occasione di avere ancora quella parte che manca, o di sapere perchè manca.

Mi sono tutto turbato intendendo da quelle di V.S., ch’Ella abbia patito dolori nefritici; infermità molto grave in ogni sorta di persone, ma più in quelle che vivono più ad altri che a sè stessi. Lodo molto il consiglio preso di rimediarvi con celerità; e il rimedio delle acque, le quali V, S. prenderà appunto nel più opportuno tempo dell’anno, che sarà il gran caldo: e con figurandomi che adesso Ella sia su ’l principiare, mi conforto di speranza che ricupererà la sanità sua intieramente, e ne pregherò Dio con assiduità.

La obbedirò in non rimettere cosa alcuna al signor Castrino per scriverli; e credo che quando è restato di questo offeso, non l’abbia fatto per altro, che per esser forse le cose già volgari in codesti paesi.

So che V.S. sarà curiosa d’intendere con qualche verità l’infelice fine di Fra Fulgenzio, poichè Ella l’ha conosciuto, e tanto più quanto sarà diversamente presentato. Per ancora io non so il tutto certamente, e vado molto cauto in credere dove non ho buoni fondamenti: per il che, la narrazione che le farò, sarà vera, ma vi mancherà qualche cosa.

Partì Fra Fulgenzio, come V.S. sa, al principio d’agosto 1608, con patente di salvo condotto amplissimo, con particolare clausula, che non si sarebbe fatta cosa alcuna contro l’onor suo. Giunto là, trattarono che abiurasse e che facesse penitenza pubblica: egli negò costantemente, allegando il salvo condotto. Finalmente, perseverando nella negativa del fare penitenza pubblica, si contentò di fare una abiurazione segretissima innanzi un notaro e due testimoni, con nuova dichiarazione delli cardinali, che s’intendesse senza nessun suo disonore e senza nessun suo pregiudizio.

Passò Fra Fulgenzio, parte bene, parte mal veduto, fino al febbraio prossimo passato; quando una sera, sprovvistamente, furono mandati dal cardinale Panfilio, vicario del papa, li sbirri che lo presero, pretendendo ch’egli avesse fatto non so che di spettante al suo ufficio. Lo messero prigione in Torre di Nona, dove stanno li rei di delitti comuni. Diedero poi di mano sopra le scritture sue, e scrutinate quelle, lo trasportarono dalla prigione suddetta alle prigioni dell’Inquisizione. Là li furono date tre imputazioni: una, che avesse tra li suoi libri alcuni proibiti; la seconda, che tenesse commercio di lettere con eretici d’Inghilterra e di Germania; la terza, che vi fosse una scrittura di sua mano, la quale conteneva diversi articoli contro la dottrina cattolica romana: in particolare, che san Pietro non era sopra gli altri Apostoli; che il papa non è capo della Chiesa; che non può comandare alcuna cosa oltre le comandate da Cristo; che il Concilio di Trento fu nè generale nè legittimo; che nella Chiesa romana vi sono molte eresie; e altre tali cose in buon numero.3

A queste imputazioni egli rispose: quanto alli libri, di non sapere che fossero proibiti; quanto alli commerci di lettere, che quelle persone a chi scriveva e da chi riceveva lettere, non erano denunciate; quanto alle scritture di sua mano, che quelle erano imperfette, e non v’era l’opinione sua, ma erano solo memorie per voler far considerazioni sopra quelle materie. Delle quali risposte non satisfacendosi l’ufficio, determinarono di venir contro di lui alla tortura: il che intimatogli, egli rispose che non era soggetto da sopportar tortura; ma che facessero quel che piacería loro, che si rimetteva alla loro misericordia.

Il giorno 4 di luglio, fu condotto in chiesa di San Pietro, dove era indicibile numero di persone; e là posto sopra un solaro, furono lette le sue colpe e fatta la sentenza: che dovesse esser escluso dal gremio della santa Chiesa come eretico relasso, e consegnato al governatore di Roma per esser castigato; con preghiere però che non fosse punito di pena di sangue.4

A questa cerimonia, che durò qualche ora, Fra Fulgenzio stette sempre guardando in alto, nè mai parlò: la comune opinione fu ch’egli avesse uno sbavaglio in bocca. Finita la cerimonia, fu condotto nella chiesa di San Salvatore in Lauro e là degradato; e la mattina seguente, in piazza di Campo di Fiore, fu impiccato e abbrugiato.

Se le cose appostegli siano vere o calunnie, le opinioni sono varie: ma alcuni, presupposto anco che sieno vere, non restano di dire che li sia stato fatto torto; poichè, stante il salvo condotto, non si poteva mettere a suo pregiudizio quella abiurazione, e averlo per relasso. Io non so che giudicio fare, benchè il principio e il fine sieno manifesti; cioè un salvo condotto e un incendio: li mezzi restano in occulto; ma da questo si può ben concludere che il papa ha poco buona disposizione verso Venezia. Oltre a che, molti altri indicii fanno manifesto l’istesso; e pertanto al padre Paolo conviene usar molta cauzione.5 Egli però non mancando delle cose ordinarie, rimette il rimanente in Dio; certo che tutto sarà bene quel che sarà disposto dalla Maestà sua divina.

Quanto alle cose d’Italia, sono in molta confusione. Il papa si fatica acciò non sia guerra, e vorrebbe accomodare Savoia con Spagna: il che credo che in fine succederà, e poi Savoia penserà a Genova e il papa a Venezia: quale non si può fare capace che convenga pensare a ciò, ma ostinatamente sta in opinione di non essere in alcun pericolo, con tutto che siano così manifesti, che sarebbono veduti dalli ciechi. Il che mi fa dubitare che sia abbandonata dalla divina assistenza e acciecata, sì che non vegga la luce del mezzo giorno. Ma poichè in ciò non ho altra voce che querulosa, è bene che me ne taccia.

Quanto alle cose di Francia, grandemente mi allegro che passino bene: se bene mi spaventa un tanto numero d’anni che passerà sotto la minorità del re; vedendo, massime, li partiti già formarsi, e li Gesuiti più insolenti e arditi che mai. Se questo ultimo non fosse, vorrei sperare che gli altri incontri potessero esser superati o temporeggiati dalla prudenza della regina: ma questo è insuperabile, perchè dove tanti sono risoluti a far male, è verisimile che se non oggi nè domani, almeno l’altro giorno riesca ad alcuno. L’intenzione di Spagna non è se non di dividere cotesto regno; avendo tanti ministri così sagaci e così audaci. La sola protezione divina la può preservare.6 Il vedere che la regina ammette monachi e Gesuiti, e che tiene poco conto del Parlamento, non sono troppo buoni indizi.

Ho considerato quello che V.S. mi scrive del gesuita vantatosi di far un esercito, e la quantità di danari che si ritrovano: mi pare cosa che bisognerebbe non trascurare. Io so bene che, con tutto il bando di Venezia, cavano però di là quantità grande di danari, e non possono esser impediti: e se questa è la volontà di Dio e predizione delle sante Scritture,7 li uomini non potranno fard altro se non accomodarsi alla sofferenza.

Mi pare che gli Ugonotti siano molto savi, che stanno a vedere, per dover governarsi secondo li successi. Dio benedica i loro disegni. Io non mi accorgeva del tedio che questa porterà a V.S., massime se forse arriverà in tempo di medicina: per il che scusandomi, la pregherò a continuar la sua benevolenza verso di me, sì come io le resterò sempre dedicato servitore. Con che le bacio la mano.


Di Venezia, il dì 3 agosto 1610.



  1. Fra le edite in Ginevra ec., pag. 260.
  2. Il Barbarigo, già dipinto coi colori medesimi anche nella Lettera CXLIV.
  3. Un uomo accusato di cose tali, ne’ paesi di cui parlasi, in ispecie se uomo odiato e non ricco (perchè dei ricchi non cercasi dal tribunale il sangue, ma altro), è un uomo perduto. Pazienza, se in poco se ne spacciassero, come co’ suoi nemici facea per lo più la repubblica di Venezia; ma prima ch’egli muoia, sopportar dovrà eziandio una lunga serie di morali e fisici tormenti. E ciò, per convertirne lo spirito a ciò ch’essi chiamano la verità; non volendo qui abusare dei santi nomi, dei quali essi abusano. Saremmo, in vero, curiosi d’udire ciò che i noti apologisti addur saprebbero a difesa delle tante nefandezze che si rendono evidenti per questo racconto.
  4. La solita, più della crudeltà, scellerata ipocrisia.
  5. Forse, la brutta istoria veniva aggiunta, o tutta la Lettera era scritta per mano del Micanzio. Nel paragrafo che segue, in fatti, si torna a ricadere in quelle che noi altrove chiamavamo imprudenze; considerando ai rigori sì noti del veneto governo, e al contegno sopra di ciò tenuto ordinariamente dal Sarpi.
  6. Intendasi, la Francia.
  7. Nel dilatarsi della lue loiolitica, Fra Paolo non avea mai mostrato di travedere l’avveramento di alcuna profezia.


Note

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