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CLI. — Al signor De l’Isle Groslot
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CLI. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Passando così lungo tempo prima che si possa aver una risposta da Parigi, non mi meraviglio se alcune volte pare a V.S. che alcuna delle lettere sue sia smarrita. Quaranta due giorni passano per aver risposta da Parigi, e per averla da lei 56. Con tutto ciò, io ho molto bene a memoria d’aver ricevuto le due sue delli 23 giugno e 5 luglio; nell’ultima delle quali avendomi Ella scritto ch’era sul partire per andare ai bagni, restai di rispondere per timore che la mia, capitando in sua assenza, corresse qualche pericolo; e ho aspettato a scriverle fino all’intendere del suo ritorno, del quale mi dà avviso per quella delli 18 agosto.

Io non soglio mai conservar lettera alcuna degli amici, per tutti quei rispetti che possono occorrere nelli tempi seguenti; ma dopo lette, le dissipo tutte: da che viene che domandandomi V.S. conto, alcune volte dopo lungo tempo, delle ricevute, non glielo posso dar così sicuro. Per l’avvenire, io voglio tener nota della data delle sue, e del giorno che le rispondo; acciò, occorrendo, possi levar qualche suspicione di perdita di lettere, che nascesse in Lei o in me: perchè, veramente, questa è cosa gelosa; e poichè fino al presente tutte sono capitate, è bene anco esser certo di quel che succederà all’avvenire.

Io non ho preso quel dispiacere del particolare che mi scrive, cioè non sentir gran profitto delle acque di bagni, che averci sentito se non fossi persuaso che la verità di simile medicamento non opera effetti sensibili, se non dopo qualche tempo. Mi giova di credere che V.S. sentirà giovamento alla primavera; massime se passerà questo tempo senza disordine nella regola di vivere. Io non parlo quanto al cibo solamente, ma quanto al sonno e vigilia e moto e quiete, e affetti dell’animo, che più del tutto importa.2

Fra tutte le cose che occorrono in Francia, nessuna mi porta maggior meraviglia, quanto la concordia tra Condé e Guise; e sto in qualche dubbio, che dal canto del secondo non vi sia tutta la realtà. Quella casa mi è tutta sospetta. Anco Giovilla professa dipendere dal re d’Inghilterra, e da lui è proposto per capitano alla Repubblica. L’essere di Lorena mi spaventa, e il fresco esempio di Vaudemont.

Quanto al regno di Francia, certa cosa è che li grandi non possono esser senza ambizione e desiderio d’avanzarsi, e, per conseguenza, senza concorrenze e disgusti tra loro. Quel di ciò che apparisce non debbo dar maraviglia, anzi bisogna per necessità aspettarne di più. Il tutto è, come bene V.S. discorre, che li popoli siano savi nel tempo futuro, come nel presente. Le cose passate doverebbono esser loro per documento, perchè, finalmente, nei tumulti di già essi soli hanno patito. La quiete fa per i popoli, e il moto per i grandi.3 Le città nei tumulti passati sono state le più pazze; ragione è bene che siano ora le più savie.

Io non sento con buon animo a lodare Condé, quantunque abbia per intimo monsieur di Thou. Questo indubitatamente è incorruttibile; ma che bene spereremo da quello, hostium artibus infecto? li Reformati faranno molto bene a congregarsi e stabilir le cose loro prima che nasca alcuna confusione; perchè allora con gran difficoltà si fanno le cose, che in tempo di quiete s’ordinano con facilità.

Quel Conchino4 mi pare una scintilla per metter fuoco in Francia; ma finalmente la prudenza degli altri, e massime di Villeroy, potrà sempre estinguerlo. Il peggio è de’ Gesuiti, i quali con le arti proprie e con le romane metteranno tanto male copertamente, che innanzi sia veduto, si farà grande e irrimediabile. L’aver Condé datoli repulsa, mi pare un bell’atto, se non è simulato.

Le cose di Gulica, ogn’uno tiene di dover udir presto nuova della resa o presa. Io però resto in gelosia osservando la costanza dei difensori, parendomi che vanamente una fortezza si difenda, quando non vi sia chi la voglia soccorrere; e sto in qualche dubbio di dover sentir un giorno, che li agenti di Spagna si dichiarino per quella difesa. Mi par gran cosa, quand’essi non vogliano rompere la tregua, che vogliano soccorrere un luogo assediato, avendolo potuto soccorrere prima che l’assedio fosse presto; ma dall’altro canto, non è minor maraviglia che lascino perdere un luogo così opportuno per loro. L’evento sarà giudice; ma tra tanto l’orecchie m’intuonano male.

Quanto alle cose d’Italia, delle quali V.S. mi ricerca l’opinione mia, le dirò brevemente quel ch’è apparente, poi quel che io credo di occulto; e quanto al pronosticarle il futuro, non ardisco, per l’esperienza ch’io ho della riuscita delle cose sempre al contrario dell’espettazione. Quello, adunque, ch’è di vero e apparente, passa così.5 Hanno gli Spagnuoli nello Stato di Milano quattro terzi di fanteria italiana, che sono 12 mila; 6 mila Svizzeri, e 6 mila tedeschi del Tirolo, e 2 mila Valloni di cavalleria, oltre la propria dello Stato, che può esser 1500. Hanno 600 cavalli borgognoni. Questa gente non è pagata, ma le città e terre dànno una lira di questa moneta per fante che alloggia in loro al giorno, e due per cavallo; con promessa che queste spese gli saranno rifatte nelle contribuzioni anniversarie che debbono.

Dopo la morte del conte di Fuentes,6 non è restato capitano atto a condur questa gente; anzi, tra il castellano e gli Spagnuoli del consiglio è nata differenza chi dovesse governare nell’interregno, e hanno fatto proclami l’uno contra l’altro, con poca riputazione del re: siccome è stato anco con poca riputazione, che li duoi vice re, nuovo e vecchio, di Napoli,7 nel complire, non si siano intesi delli titoli, e perciò il fratello dell’uno col figlio dell’altro, sfoderate le armi, si siano abbattuti.

Non è venuto ancora a Milano nuovo governatore; ma passa fama che sia destinato il contestabile di Castiglia, il quale (dico per parentesi) mi piace, per esser nemico de’ preti.

Il duca di Savoia ha circa 18 mila persone in arme a spese de’ popoli, mal pagate. Ha deliberato di mandar Filiberto, secondogenito suo, in Spagna per trattar accordo col re, così consigliato anco da Billon; non però per mare, ma per la via di Francia.

Il papa fa ogni cosa acciò non sia guerra in Italia. La Repubblica ha provveduto soldati per difesa, con l’intenzione, se le genti de’ Spagnuoli muovino,8 di muovere anch’essi le loro genti: il che è da credere che quelli non faranno, sì per mancamento di capitano, come per mancamento de’ danari, senza quali non si può muover esercito.

Del duca di Parma non fu vero niente, che si pensasse darli cura delle genti. Non è verisimile che si faccia nella sua persona, nè di altro italiano. Qui li dirò per incidente, che al suddetto duca è nato un figlio maschio la settimana passata, con poco piacere del papa e de’ preti, che mirano a quello Stato.

Ora tornando all’apparecchio delle arme, io credo che vedendo il re di Francia, e tenendosi che dovesse potentemente assaltare il ducato di Milano, il consiglio de’ Spagnuoli fu provvedersi leggermente, e quanto bastava per sola difesa; affinchè gl’Italiani, veduta la Francia potente e senza opposizione, ingelositi, s’unissero con loro. Ma, morto il re, pensarono d’accrescer quelle provvisioni per metter timore al duca di Savoia, e ridurlo a gettarsi loro in braccio: ma restando il duca costante,9 essi si sono armati maggiormente, pur per venire a quel fine. Al quale non potendo, per la costanza del duca, arrivare, si ritrovano in gran perplessità: perchè, disarmandosi senza aver ottenuto il disegno, perdono la riputazione; adoperar le loro armi, adesso non possono per difetto de’ danari e capitano; invernar le genti sarà totale ruina di quello Stato già desolato. Il duca, a cui queste cose sono note, temporeggia; perchè esso vince sempre che Spagnuoli non ottengano il loro fine; e oltre che essi non si possono muovere, egli li trattiene con la deliberazione di mandar il figlio in Spagna: l’esecuzione di che si può ben differire, come altra cosa si è differita; e mandatolo per Francia, si può anco farlo fermar per viaggio, e ritornare.

Debbo ancora dire a V.S. qualche cosa del secreto de’ principi. Il papa non vuol guerra, stando tanto bene, che megliorare non può; ma è in gran pericolo di deteriorare: per il che, risguardando le ragioni umane, bisognerebbe concludere che tanti apparecchi si risolveranno in niente. Ma Dio soprastà a tutti, e conduce a sua gloria, contra i disegni umani, quello che il mondo invia tutto altrove. In tutte queste occorrenze, nessuna cosa per mio credere più nocerà al bene, che la superstizione della regina; e tanto più, quanto, come V.S. dice, vi è la cattività del matrimonio.10

A me dispiace, che il zelo, quale V.S. vidde, qui è mortificato, se non estinto;11 poichè il papa non iam minatur, sed blanditur, e che il fine è comune, cioè la quiete.

Io son stato molto tedioso a V.S., per quel che m’accorgo; e vedo d’esser in obbligo di finire. Le dirò solo di Fra Fulgenzio, esser opinione anco delli stessi cortigiani romani, che gli sia stata violata la fede; e la medesima sentenza che hanno letto pubblicamente nella chiesa di San Pietro, mostrava che non meritasse quel fine. Prego Dio che doni intiera sanità a V.S., alla quale bacio la mano.

Di Venezia, il 14 settembre 1610.



  1. Edita in Ginevra ec., e posta a pag. 271.
  2. Ed eccoci il Sarpi, omniscio (secondo i biografi), eccolo mostrarsi esperto, o (se ciò troppo paresse) illuminato abbastanza nelle cose della medicina.
  3. Così scrivendo il Sarpi, doveva pensare alle condizioni materiali del popolo, e non ad altre d’ordine più elevato; circa alle quali ci ha più volte fatta conoscere altrove la sua opinione, mostrando desiderare, non che il moto, la guerra. Vuolsi altresì considerare che non parlasi in questo luogo di guerre esterne, ma di discordie e guerre civili.
  4. Comunque sia qui scritto o voluto scrivere questo nome, pare da intendersi pel Concini o maresciallo d’Ancre; uomo cui la frenetica ambizione rese pernicioso alla Francia e all’Italia, e funesto a sè stesso ed alla propria famiglia.
  5. L’informazione che segue, è da paragonarsi con quella che trovasi nella Lettera seguente, a pag. 123-25.
  6. La morte di Fuentes, avvenuta in quel torno, salvò per allora l’Italia dalla guerra, ma aperse pur l’adito alle macchinazioni, alle congiure, ai proditorii artifizi di ogni genere, che senza posa si adoperavano contro gli Stati meno servi di essa; cioè Venezia e il Piemonte. Tutti sanno i pericoli a cui la prima andò incontro nel 1619.
  7. Il conte di Lemos e il conte di Benavente, del quale era figlio don Giovanni de Zunica. Su questo fatto “Degno di riso e di compassïone,„ che terminò con una lieve ferita del Zunica, il quale era stato il provocatore, ci ricorda di aver letta a stampa una lettera scritta da uno degli agenti del granduca di Toscana.
  8. Nella prima edizione si legge: con l’intenzione se le genti de’ Spagnuoli muovino le loro genti; e dopo queste parole un asterisco, seguendo poi subito sì per mancamento. Abbiamo raddrizzate le parole che ci parvero invertite, e supplito la lacuna evidente e per altri già indicata, nel modo che più ci parve opportuno.
  9. Benedetto, anche con tutti i suoi difetti, quel duca, che nel difendere i suoi Stati e la sua dignità, non curava più che tanto le minacce nè gli aiuti stranieri!
  10. Parrebbe allusione alla malignità dei due coniugi Concini.
  11. Una sola cosa vogliamo qui far osservare; ed è la consonanza di queste parole con quelle che si leggono al principio della Lettera CXLIX, pag. 109.


Note

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