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CLII. — A Giacomo Leschassier
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CLII. — A Giacomo Leschassier.1


Lessi con sommo piacere la sua lettera del 24 agosto; e mi godè l’animo udendo che Ella attende a scoprire gli artifizi dei Gesuiti, essendo necessità di far chiara a tutti la loro sediziosa e scellerata dottrina, acciò possiamo renderci sicuri delle loro insidie. Quello che i Gesuiti insegnano in proposito del regicidio, è, al mio parere, un perniciosissimo dogma, perchè ne viene il sovvertimento della cosa pubblica: ma l’insegnare ch’essi fanno, come sia lecito usare senza peccato gli equivoci di parole e la restrizione mentale, colla qual dottrina si distrugge ogni umana convivenza, e l’arte d’ingannare, di cui nulla v’ha più dannoso, si pareggia alla virtù; questa dottrina oso dire esser anco più perniciosa dell’altra che insegna ad uccidere i re. E invero, qual cosa può mai farsi o trattarsi con costoro che cuoprono la menzogna con la maschera della virtù? Il gesuita Cottone difende la società sua dal crimine del regicidio: io non dubito che in ciò non si covino molti equivoci e forme evasive, le quali allorquando sarà il bisogno, verranno apertamente allegate in iscusa; come fece il Bellarmino rispetto al Richéome: e quando Ella lo desideri, additerò ancora i luoghi. Io volli opporre al Bellarmino il Richéome, nell’Apologia per Gersone,2 accadendomi definire la Considerazione decima (ediz. Veneta, pag. 33); ed egli mi rispose (secondochè avvertii) come leggesi nell’opuscolo intitolato da lui Risposta al Trattato dei Sette Teologi3 in Venezia replicando alla diciannovesima Proposizione, quasi in fine del libretto (che nell’ediz. Bolognese è a pag. 52). Di tal proposito io trattai novamente nell’opuscolo che ha per titolo Confirmazione ec.4 (a pag. 309, ediz. Veneta); non solo per dimostrare com’essi coll’astuzia del linguaggio si facessero beffe del re, comecchè giovane e in pien possesso della sua autorità; ma, soprattutto, come delle loro parole, per quanto di miele condite, nessuno mai possa fidarsi. Ciò che il regio procuratore aveva detto, ch’essi sono da temersi più da lontano che da vicino, l’esperienza nostra ce lo dimostra presentemente. Non possono fare a pezzi nè strozzare la Repubblica, la quale non vive in un sol uomo; ma dalle nostre città succhiano adesso maggior quantità di danaro, che non facevano quando ci stavano in casa. Per via di emissari anche prezzolati, insegnano con maggior cura la dottrina della papale onnipotenza e della cieca obbedienza; e, quel ch’è il peggiore de’ mali, disseminano l’odio tra le famiglie e la sedizione tra gli ordini dei cittadini. Sinceramente lo dico: essi ci fanno maggior male che in passato; poichè allora non ci odiavano, ma ci volevano salvi per aver del nostro di più e più lungamente, per godere la nostra dimestichezza e per dominarci. Ora cordialmente ci odiano, e bramano di vederci distrutti, affinchè più non sia chi osi disprezzare la loro potenza: a tale che non rimane più a noi speranza alcuna, se Iddio stesso non ci soccorre.

La S.V. mi prega a scriverle il mio parere intorno agli affari d’Italia. Il farò con tutta schiettezza. Se in qualche materia tengo in briglia il cervello, egli è in questa sopra tutte le altre; nè credo già che coloro i quali particolarmente si occupano de’ politici negozi e quegli stessi che v’hanno interesse, possano fare con fondamento congettura alcuna; perciocchè nessuno già opera quello che i prudenti opererebbero, ma quello invece che farebbesi da persone nè per costumi nè per ingegno da noi conosciute.

Gli Spagnuoli hanno nel ducato di Milano 12,000 pedoni italiani, 6000 tedeschi, 6000 svizzeri e 2,000 valloni; 600 cavalieri borgognoni e 1500 nostrali. Non v’ha in Italia capitano alcuno che sia abile a governare un tale esercito, dico tra i guerrieri di sangue spagnuolo; nè questi hanno danaro con che pagare gli stipendi, ma i soldati si alimentano alle spese delle popolazioni, con grandissimo devastamento del paese. Il duca di Savoia ha circa 16,000 uomini, parte di suoi sudditi e parte di Svizzeri. Egli non può assalire l’esercito spagnuolo, ch’è più potente del suo: lo Spagnuolo non può attaccare il duca, perchè mancante del danaro che è necessario per muovere un esercito, e insieme privo di condottiero. Incalza frattanto il verno. Se lo Spagnuolo finch’esso duri, vorrà mantenere in piedi l’armata, la è finita per quel povero ducato; il Milanese verrà ridotto a un deserto: quando poi lo licenziasse, verrebbe a perdere tutta quanta la riputazione, per non avere con tante spese, con tanti uomini, operato cosa alcuna; mentre, all’incontro, il duca salvato avrebbe i suoi possessi, e la sua dignità e libertà. Questo principe dà segno d’inviare il suo secondogenito al re di Spagna per trattare con esso lui della pace; ma quando sarà o se sarà veramente mandato, lo ignoro; in ispecie perchè il duca ha prescritto di fare il viaggio, non già per mare, com’è costume, ma per terra, traversando la Francia; per il che diventa più lungo, e nel frattempo potrebbe mutar pensiero.

Questo avviene alla scoperta; in segreto poi, così procedono le cose. Lo Spagnuolo non vuole in verun modo la guerra: egli sa che in Italia non può acquistare più oltre, ma ch’è facilissimo di perdervi anche quello vi possiede. Tenne dapprima pronte le armi per far paura al duca; ma quando vide di non riuscirvi, le rafforzò per ottener l’intento propostosi. Ora, non avendo egli cominciato a spaventarsi, lo Spagnuolo tiene il lupo per le orecchie:5 desistere dal proposito è vergognoso; il seguitare, arduo e di dubbio esito. Il duca difenderà come può meglio la sua libertà, non consentendo che un sol soldato spagnuolo sia ricevuto, com’essi chiedono, nelle sue fortezze: ma, d’altra parte, le forze sue proprie non gli bastano; s’egli potesse, commetterebbe guerra da sè medesimo. Egli non fa niuna stima di ciò che possiede; agogna le cose altrui: tentò già quelle di Francia, come Ginevra; vorrebbe ora tentar quelle d’Italia, come da lui credute più agevoli. Egli, senza dubbio, starà vigilante a tutte le occasioni, e qualsiasi speranza gli servirà d’incitamento. Per ciò che spetta agli altri principi, il papa e la curia di Roma vorranno, per quanto possono, la guerra fuori d’Italia: conciossiacosachè, tra il cozzo delle armi verrebbe meno l’Inquisizione; l’Italia empirebbesi di soldati che hanno in orrore la Religione romana; nè può dubitarsi che la potenza della curia di Roma sarebbe ridotta al suo disfacimento, se la guerra durasse in Italia per soli due anni. Il duca di Firenze lascia guidarsi da due donne, l’austriaca e la lorenese; onde creda la S.V., che egli e lo Spagnuolo hanno la stessa mente ed anche lo stesso scopo. La Repubblica veneta ama la pace e rifugge dalla guerra; pronta a fare ogni sagrifizio perchè quella si mantenga. Se contuttociò, a suo malgrado, altri si precipitassero alla guerra, essa di certo non mancherebbe di adoperarsi per la libertà d’Italia, nè per ciò perdonerebbe a spese e a fatiche. Ora è sì aliena dalla guerra, che non vorrebbe nemmen dare al Savoino buone parole, acciò in queste fidando, egli non osi di più intraprendere contro gli Spagnuoli e venga ad assalirli, od anche porga maggiori occasioni onde sieno costretti ad impugnare le armi. Frattanto, la Repubblica ha vie più munite le sue fortezze, e preparate quante armi stimò necessarie alla difesa del suo dominio. Ma se il re di Spagna terrà in piedi le squadre durante l’inverno, anch’essa a primavera farà d’apparecchiare un giusto esercito. Per tutto restringere in una sola parola, o tutti quelli che in Italia hanno Stati abborriscono dalla guerra; o il solo duca di Savoia la farebbe, quando se ne offrisse l’occasione.6 Tal è lo stato dei pubblici affari; ma V.S. ricorda bene che non sempre accadono quelle cose che gli uomini vorrebbono; e che i fati conducono chi vuole, e chi non vuole trascinano.7

Rispetto a ciò ch’Ella dice, che non le consti la impurità della chiesa di Corinto, non posso maravigliarmene; perchè talmente siam fatti, e non senza ragione, che in tutto ci giova deferire all’antichità; e ciò dipende dalla nostra stessa natura, per la quale abbisogniamo d’esser mossi dagli esempi. Ma impura io la chiamai, pensando a ciò che san Paolo aveva a’ quei popoli rimproverato. Perocchè, se alla carità si riguardi, erano fra loro scismi e contese, come nel Cap. I e II; nè lievi, ma tali che dividevano il Cristo. Se trattisi dei costumi, intorno a ciò (Cap. V) leggiamo: «Si commette fra voi fornicazione, quale non si ode nemmeno fra’ gentili.» Se dei riti è questione, sta scritto (Cap. II): «Già non è mangiare la cena del Signore;» e se, finalmente, della dottrina (il che credo ch’Ella stesse aspettando), è nel Cap. V: «Perocchè alcuni tra voi asseriscono che non ha luogo la resurrezione dei morti.» La S.V. ricorderà che fra tutti gli scrittori non n’ha veruno più modesto nel riprendere, di quel che fosse san Paolo; e ponendo mente alle altre censure di lui, si accorderà meco nel creder queste, per quanto potevasi, temperate. Ma circa a quel luogo di san Paolo dove si parla dell’edificio innalzato sulle fondamenta della fede, non mi è ignoto in qual guisa venga dai più tartassato; volendo alcuni che edifici sieno le opere, non la dottrina; altri, che questa pur sia, ma dottrina curiosa. I tempi nostri hanno duopo di un Democrito, ossivvero d’un Eraclito. Ogni cosa noi deriviamo dagli scritti e dalla dottrina degli antichi; ma insieme cambiammo il senso di tutte le voci da quelli usate. Non è più per noi la cosa stessa ciò ch’essi chiamavano papa, cardinale, diacono, chiesa, cattolico, eretico, martire. Che più? Tutto abbiamo pervertito; e mentre si fa professione di produrre i monumenti degli antichi, rechiamo in mezzo i nostri soltanto.

Ma io l’ho lungamente trattenuta con queste ciance, togliendole tempo alle cose di maggior pro. Presi a scrivere coll’intenzione di esser breve, ma non so in qual modo mi portasse tant’oltre la penna, prevalendo alla mia volontà. La prego almeno di scusare quanto ho scritto senza cura veruna. Duolmi delle vicende del signor Casaubono;8 ma bramo ch’egli voglia rassegnarsi al divino beneplacito, imperocchè spesso le cose avverse si mutano in meglio, e le desiderate in peggio. Nessuno può sapere a qual fine Iddio abbia destinato i casi che testè sono accaduti. Noi dobbiamo, come uomini, indirizzare a lui le nostre preghiere; e dobbiamo soffrir con pazienza, quando non voglia esaudirci per ragioni che da lui stesso dipendono. La prego di consolare a mio nome l’amico, persuadendogli di sperar cose migliori, e che le avversità presenti, per gravi che sieno state, si volgeranno in bene. Ancora le raccomando di salutarmi in particolar modo il signor Gillot, che io stimo e venero con tutto l’animo; siccome chiedo da Dio che feliciti ambedue in ogni momento della loro vita. Stia sana.

Di Venezia, il 14 settembre 1610.



  1. Tra le stampate in latino, nelle Opere dell’Autore, pag. 88.
  2. Opera di Fra Paolo, pubblicata nel 1606. Vedi Griselini, Memorie ec., pag. 59.
  3. Di questi teologi che allora difesero la Repubblica di Venezia, possono vedersi i nomi nelle Memorie stesse del Griselini, pag. 58.
  4. Cioè, Confermazione delle Considerazioni sopra le censure di Paolo V; altra operetta del Sarpi, benchè pubblicata a nome di Fra Fulgenzio. Vedi Griselini ec., pag. 60.
  5. Modo proverbiale, anche altrove usato dall’Autore. Lupum auribus tenere, significa in latino: Fare impresa pericolosa, versare tra due o diversi pericoli.
  6. Lodammo altre volte la perspicacia politica di Fra Paolo; nè questo lungo paragrafo è tale, che smentir possa le nostre lodi.
  7. Ducunt volentes fata, nolentes trahunt; sentenza degli antichi filosofi.
  8. Il Casaubono, di religione riformata, dopo la morte di Enrico IV, che lo aveva fatto suo bibliotecario, fu esposto all’intolleranza dei sedicenti ortodossi, e dovè ritirarsi in Inghilterra. Vedi anche al principio della pag. 113.


Note

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