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CLXI. — A Giacomo Leschassier
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CLXI. — A Giacomo Leschassier.1


Dalle sue lettere dei 15 ottobre rilevai chiaramente in che termini sia la quistione dei Gesuiti con cotesta Università. Ah! il ciel volesse che il Senato prendesse a far quello che con buoni auspíci si operò a Nimes: davvero che ne tornerebbe giovamento non che alla gioventù, ma a tutto il regno. Se i Gesuiti costà si recano alle mani l’insegnamento, ben presto domineranno tutta l’Università, e sarà inevitabile l’eccidio delle buone lettere. Ma a che rammento le buone lettere? Dovevo dire la buona e sana dottrina, della quale è veramente micidiale la Compagnia. L’autore della Supplica composta in nome dell’Università, svela l’arcano della stragrande potenza ecclesiastica; la quale se tolgasi al Concilio per concentrarla tutta nel papa, i principi si ridurranno non in servaggio, ma in catene. Piaccia a Dio che il Senato ponga mente a questo e agli altri capi d’insegnamento; perocchè grandemente è a temere per parte vostra il loro conato di porre ora a noi violentemente in sul collo la strabocchevole potestà regio-papale. Nè pensi la S.V. che il tentativo di Bellarmino sia stato senza il consiglio della curia: di ciò siamo ben ragguagliati, e sappiamo pure dove s’erano drizzate più altamente le voglie. Ma trovato l’intoppo, si principiò a mutar partito. Che se da voi altri si operasse cosa alcuna che facesse al proposito, vieppiù si rinfrancherebbero i nostri, e con maggior lena si contrapporrebbero agli sforzi degli avversari.

Su tale oggetto non fa promulgato il decreto, come s’usa, col mezzo del banditore (e potrei inviarle qualche esemplare), ma s’intimò in voce a coloro cui spetta conoscerlo. Eccole il perchè. Di rado avveniva che si proibisse un libro dall’autorità secolare; poichè aperti insidiatori mancavano, e i regnanti non si davano briga d’indagare quello che ciascuno scrivesse; faccenda a cui badavano i soli preti. Ma quando si venne a guerra co’ romaneschi, si persuasero che grave danno veniva alla Repubblica dalle perniciose scritture, e come perciò bastasse aver l’occhio alla stampa e all’introduzione dei libri. E ciò fecesi e si continuò a praticare. Quando uscì la prefazione del re inglese all’Apologia del giuramento di fedeltà, il nunzio del papa insinuò al principe, che il libro avrebbe portato gran detrimento alla religione; ed essendo molto diffuso per lo splendore del nome, si deliberò e statuì di comandare ai librai che nol ricevessero; ma ciò in segreto, per decoro del re amico. Noterò qui per intramessa, che se quel libro avesse contenuto ciò solo che stava nell’Apologia, sarebbero riusciti vani gli sforzi del nunzio; ma dava ombra quel discorrere sul Purgatorio, sulle sante Immagini, sulla venerazione dei Santi e singolarmente della beata Vergine, cui noi Veneziani siamo teneramente devoti. Già da sei mesi ci era liberamente pervenuta l’Apologia, nè mai fu proibita. Torno all’argomento. Uscì poi la risposta del Bellarmino contro il re; e subito ne fu divietata l’entratura. Si trovò, infatti, conveniente di stabilire che avesse luogo pel libro dell’avversario la sorte medesima incontrata da quello del re. E perchè non sembrasse che il re s’avesse in egual conto del cardinale, l’ultima proibizione fu fatta sotto pena della galera, mentre la prima non aveva pena. Non mosse mai osservazioni l’ambasciatore inglese; il quale se avesse fatto lagnanze o dimandato il decreto... Ho detto abbastanza: sovente, mentre vogliam parere di spregiare le cose vili, trasandiamo le grandi. Ora, come venne in luce il libro di Bellarmino contro Barklay, presosi a deliberare, seguitarono il pregiudizio di procedere come prima, e fu vietata ai librai l’importazione e vendita di esso sotto pena della galera, e fu imposto ai corrieri che venivan di Roma, che non dessero ad alcuno i libri da sè portati prima che fossero veduti dalle persone a ciò deputate. A tanto si procedè, e con intenzione di fare anco di più. A Roma nè il papa nè i cardinali mossero lamento nè parola; ma lo stuolo minore dei cherici mormorò contro i Veneziani, perchè mettessero mani e lingua in cielo, affibbiando loro il titolo di eretici e altri somiglianti che sogliono regalare a chi non fa il papa quasi eguale a Dio. Con questo parmi aver reso esatto conto delle cose seguite, e dimostratole quel che sia a sperare da noi.

In Ispagna, un cotal uomo dotto e prudente scrisse contro il Baronio sulla monarchia della Sicilia:2 l’ambasciatore spagnuolo dimorante a Roma, volle che se ne recasse là un esemplare, e lo consegnò a un certo religioso francescano riformato, perchè lo voltasse in italiano. Il papa, come lo seppe, comandò subito che il frate fosse messo in carcere; ma questi avvisato fuggi, e trovò scampo nella casa dell’ambasciatore. Il papa se ne lagnò in modi aspri e duri coll’ambasciatore, e non so che altro avvenisse; ma il frate fuggi da Roma, riducendosi salvo nel regno di Napoli. Ciò le espongo, acciocchè veda quanto sieno costoro solleciti a sostenere a dritto e rovescio i propri interessi, e quanto pecchino gli altri di negligenza, per tener a vile negozi importanti, quando essi curano gl’infimi. I quali riflessi mentre poniamo innanzi ai nostri conterranei, essi tutto tirano a bene, e al silenzio del papa e dei cardinali dànno nome di riservatezza, e pensano non doversi provocare più oltre. Io commendo assai l’operato a Nimes; sicchè, se costì imprenderete qualche cosa, crescerete coraggio a noi pure. I nostri sono tutti nemici alla curia romana: alcuni ne detestano gli abusi; altri pensano doversi compatire, come frenesie di una madre. Ma sul conto de’ Gesuiti, sono tutti d’un animo solo. Io vorrei che Iddio guardasse sopra di noi benignamente; come Lui prego eziandio che voglia custodirla in salute e in quella sollecitudine che mostra per liberarci da siffatte pesti. Perocchè non ci deve cader dall’animo la speranza di buona riuscita: basta che non ci vinca la poltroneria, e sappiamo emulare lo zelo degli avversari. La prego a salutarmi, se a caso lo vedrà, il signor Gillot. E le confermo la mia molta reverenza.

Di Venezia, li 25 novembre 1610.



  1. Impressa, in latino, tra le Opere dell’Autore, pag. 92.
  2. Quest’opera che il Baronio aveva scritta contro l’indipendenza del regno delle due Sicilie, gli fruttò la esclusione dal papato, datagli per ordine del re di Spagna.


Note

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