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CLXIII. — A Giacomo Gillot
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CLXIII. — A Giacomo Gillot.1


Vidi, finalmente, con animo lietissimo, il nipote di V.S., che da tanto tempo aspettavo: così fossemi stato concesso offrirgli qualche segno d’onore! Ma il tempo corto e la modestia soverchia di lui mi privarono della sodisfazione di mostrargli in qual che sia modo la mia servitù. Il nipote presente svegliavami con piacere la immagine dello zio, e solo dolevami non poter fare omaggio anche ad esso. Cercai della S.V. con gran premura, e godei che in tale età possegga interezza di sensi: voglia Dio che ciò sia per lunghissimo tempo! Il nipote è partito per venirsene a Lei con lento viaggio, dopo aver percorso e visitato le città della Lombardia. Fino a qui gli arrise la condizione dell’atmosfera, che si mantenne serena: ora credo che si sarà accostato ai monti, e che Ella lo rivedrà poco dopo l’arrivo della presente. Come a me disse, le porta un esemplare del libro del Bellarmino: in altro tempo mi sarei dato cura di mandargliene uno io medesimo.

Intorno al qual libro, cotesto pretore urbano ha preso invero provvedimenti degni del re e del regno. Quanta sfrontatezza in questi uomini che amano dirsi santi, e non soffrono si dica di loro la verità, e tutto si fanno lecito anco verso gli unti del Signore! In questo proposito vorrei rivivesse l’antico coraggio e costanza del collegio della Sorbona; giacchè, se fosse proibita una volta quella perversa dottrina da qualche università cattolica, i principi ne prenderebbero animo a sostenere la propria dignità. Perocchè tutti si lasciano spaventare a quelle parole: Questo è di fede cattolica; chi altrimenti sente è un eretico; così decisero la Chiesa, i Concili, i SS. Padri e tutti i dottori. Questa è la testa gorgonica; sono questi i viperei crini. Io anelo che questa controversia discutasi piuttosto pubblicamente, che da private persone; sia perchè s’affermi e difenda l’autorità principesca, come reclama al tutto il vantaggio dello Stato e l’onore divino; sia perchè cadrebbero tutte le altre quistioni gesuitiche e romanesche, che a quest’una fan capo. Voglia credermi: tutte le loro mire son volte a questo; e se alcuno s’attentasse a rapire Dio dal cielo, non se ne darebbero per intesi: basta che rimanga al papa la sua vicedivinità o, meglio, sopradivinità. Nella sua scrittura, il Bellarmino ha detto chiaro, che il restringere l’autorità papale alle faccende spirituali, torna lo stesso che annichilarla: tanta hanno stima dello spirituale, da paragonarlo a zero.2

Questa Repubblica, per la prima, non temè d’estirpar un tal libro dal suo dominio, camminando innanzi a coloro che avrebbero il dritto e la forza di operare. Questo si attende da voi. E altrettanto si adoperò con fermezza a Nimes, dove furono abbruciati libri di falsi miracoli: resta adesso che usino maggior costanza quelli cui tocca, e che sono sollecitati dagli esempi dei predecessori. Aggiungerei che ciò sarà per tornare utile all’Università in quella disputa che dovrà sostenere coi Gesuiti, quando, oltre a quello che avvisò l’autore della Supplica alla regina sugl’insegnamenti gesuitici rispetto alla quistione della superiorità del papa al Concilio, aggiungasi pur l’altra della superiorità del papa al re. Ma perchè cotesto nunzio s’è tanto travagliato costà, quando il pontefice non ha mosso parola al legato veneto, e il nunzio qui non ha aperto bocca sul fatto della Repubblica? Si dànno forse l’aria di padroni in Francia, dopo che il re fu morto (se non per altri mezzi) dalle loro dottrine?

Ma di ciò basti. Se (come la S.V. scrive) la sfacciataggine dei papolatri le rivolta lo stomaco e le fu di sprone a metter fuora quei documenti sulle libertà e i diritti della Chiesa Gallicana, io non piglierò troppa collera contro una tale sfacciataggine, che fu occasione di tanto bene e a noi e a tutta la Chiesa. Perocchè importa a questa che tali cose si pubblichino e sieno vedute da tutti. Ma frattanto vorrei che questo pensiero non andasse innanzi a quello della sua sanità; la quale anzi esorto e scongiuro la S.V. a curare. Io penso che la malattia di calcoli ond’ha poco fa avuto travaglio (e godo che per poco), le sia derivata dalla non mai intermessa applicazione agli studi letterari. Accetto la promessa degli Atti del senato per lei raccolti, ed ho già fatto mettere il suo nome nel calendario.

Avevo veduto (e non senza nausea) la testimoniale del vescovo di Parigi in favore della Compagnia. Con essa si vuole imporci la credenza che la Chiesa non sia fabbricata sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, ma su quello dei Gesuiti. Ma fino a qui sono poveri a fatti. Aspetti che abbiano avuto adempimento gli sforzi ch’ora fanno d’ascrivere il loro Ignazio all’albo dei Santi, e vedrà di quanti nuovi articoli di fede vorranno caricarci. Faccia Dio, di cui commemoriamo la luce recataci nell’Avvento, che si sperdano queste tenebre e dilunghisi da tutta la Chiesa la profonda notte dell’ignoranza.

Se ardisco scriverle senza sceltezza e troppo alla buona, la V.S. egregia sappia scusarmi, attribuendo ciò al cortissimo tempo concessomi. Poichè, com’arriva il corriere, in due giorni soli mi tocca a rispondere a tutti. Prego Dio che la custodisca in salute e nella pienezza de’ suoi doni. E le bacio le mani.

Venezia, 7 dicembre 1610.



  1. Pubblicata come sopra, pag. 14.
  2. A noi par logica questa del buon Servita, e logica veramente cristiana. Altri vegga se, dopo due secoli e mezzo, le dottrine del Bellarmino rivissero; e che cosa fruttassero e fruttino e sieno per fruttare alla Chiesa ed alle nazioni che a loro moral codice tengono il Vangelo.


Note

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