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CLXIV. — Al signor De l’Isle Groslot
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CLXIV. — Al signor De l’Isle Groslot.1


Ricevo consolazione per la speranza che l’assalto datole dalla colica debba esser l’ultimo, e sia stato uno sforzo della natura, aiutata dal medicamento delle acque a scacciare le reliquie del male: altrimenti, sentirei eccessivo dispiacere dall’intendere per quella di V.S. delli 10 novembre, che per sei giorni continui ne sia stata travagliata. Prego Dio che la mia speranza sortisca effetto; ma insieme anco la prego che voglia coadiuvare a ciò con l’interporre qualche tempo alli studi e alle altre occupazioni, che producono indigestione; materia di tal morbo.

Io sento dispiacere delle lettera smarrite, le quali credo siano giunte a Parigi nel tempo della sacra2 del re. Spero nondimeno che si troveranno. Nè saprei dire a V.S. che particolare importante vi fosse, salvo che avvisi delle cose occorrenti. Per questo spaccio io ricevo, oltre la suddetta, un’altra piccola dell’istesso giorno; dove vedo l’esquisito suo giudicio in penetrare che il duca di Feria partì non per mancamento di volontà di far male nè di materia atta ad esser lavorata, ma per non aver trovato il tempo maturo. Non dubito che le carezze fatte a noi, abbiano altro fine che di aspettare o di accelerare una tal maturità. Questa è una miseria che non s’è veduta da chi vede le altre cose.

V.S. non dubiti, che le armi di Milano siano contro di noi: al sicuro non sono. Non è utile loro assaltare per quella via, che ha l’esito incerto, e potrebbe terminare a loro più facilmente in male che in bene. Altro abbiamo da temere, e il male è che non lo temiamo. Alcuno dice che vano è il timore di quelli che pure ne hanno parte; che poche volte se ne effettua il centesimo, e che molte cose s’attraversano in aiuto di chi gode il beneficio del tempo, e ad impedimento di chi disegna offendere. Faccia Dio che così sia in questo particolare.

Io non posso ammetterle che maggiore sia il male fatto dai Gesuiti costì, che qui, forse perchè io non veggo questo, e quello come lontano mi pare minore: ma certo operano più per mezzo degli altri loro ministri, che se essi stessi fossero presenti. Credo bene che se ricevessero qualche incontro costì in luogo più eminente che Nimes, gioverebbe e a voi e a noi. Queste sono delle cose a me più chiare che la luce del sole. E i Gesuiti, innanzi che questo Acquaviva fosse generale,3 erano santi, rispetto a dopo: non erano entrati in maneggi di Stato, nè avevano pensato di poter mai governar città; dove che, dopo in qua, e sono trenta sei anni,4 hanno concepito speranza di governar tutto il mondo. Non parlo per iperbole, potendole dir per certo, ch’essi si vantano di dover fra poco tempo poter tanto in Constantinopoli, quanto in Fiandra: per il che anco son sicuro che minima parte della loro cabala è nelle Ordinazioni e Costituzioni stampate del 1570. Con tutto ciò, mi par molto aver quelle. Io userò ogni diligenza per aver le Ordinazioni della loro Congregazione generale, se sarà possibile. E per rispondere a quello che V.S. mi dimanda, le dirò che le Costituzioni sono una composizione fatta dal primo principio della loro fondazione, la quale dopo poco tempo ha ricevuto un augumento intitolato: Declarationes et annotationes Constitutionum, con decreto che queste ancora siano di pari autorità alle Costituzioni: le quali cose tutte sono fatte innanzi ogni congregazione generale. In esse congregazioni fanno, secondo esigenza, nuovi decreti; ed io ho una formula di certi loro voti, nella quale si dice: Extracta ex prima Congregatione generali, tit. 6, decret. 23; tale che V.S. può comprendere quanto siano multiplici le deliberazioni di queste congregazioni, poichè sono distinte per titoli e decreti.

Non le saprei dire quante volte abbiano tenuta la congregazione: ben le dirò che nelle Costituzioni (parte 8, c. 2.) si dice che non è espediente far la congregazione a certi e determinati tempi, ma secondo che i bisogni constringono; nè meno è utile farla troppo spesso, potendosi a ciò supplire con lettere e con messi particolari, da’ quali il generale può intendere i bisogni della società. E (cap. 4): La congregazione per eleggere un generale sia radunata da quello che il generale ha lasciato suo vicario; negli altri casi, dal generale, il quale non lo deve far spesso, se non per causa urgentissima. E (cap. 5): Quando si congrega per l’elezione del generale, il luogo deve esser dove è la corte ordinaria del papa; quando per altro, il luogo che piacerà al generale.

Quanto alle Costituzioni, quelle che io ho, hanno dieci parti. La prima intitolata: Literæ apostolicæ, quibus institutio, confirmatio et varia privilegia Societatis Iesu continentur; Romæ, in Collegio Societatis Iesu 1556, cum facultate superiorum. L’altra parte è intitolata: Constitutiones Societatis Iesu, cum earum declarationibus; Romæ 1570, apud Victorium Ælianum, cum facultate superiorum. Sappia nondimeno V.S., che quel Vittorio stampatore del loro collegio, era uno dei loro coadiutori materiali, come chiamano. Intendo che ad ogni congregazione stampano i decreti, e li mettono insieme; ma questo nel collegio, sì che non occorre pensare di averne da’ stampatori.

Non fa bisogno ch’io le dica, il tutto esser in lingua latina, essendo questo noto. E poichè siamo a dir delle congregazioni generali, dopo l’ultima celebrata in Roma, passò il provinciale di Germania per via di Grisoni, non avendo potuto avere salvo condotto per questo Stato; e in un luogo, interrogato di quello che avevano deliberato, rispose che gli effetti delle gran congiunzioni celesti non si veggono se non dopo molti anni. Adunque, uno potè essere la successione di Luigi XIII alla corona di Francia.

La considerazione che V.S. fa di guadagnarne alcuno, non è effettuabile, perchè non participano la cabala se non a ben provati e passati per tutti i generi di cimenti; nè quelli che sono iniziati possono pensar di ritirarsi, avendo la congregazione un tal dono, mediante la buona regola di governo, che se un tale iniziato parte, muore immediate.

Se lo stile di cotesta corte di Parlamento concede che si possa fare una domanda tale quale è venuto in pensiero a V.S., cioè che mettino in mano di essa corte le Costituzioni, sarebbe mirabile, perchè scoprirebbe tutta la cabala. Ma s’abbia per certo V.S., che più tosto essi partirebbono di Francia, che presentarla.

Io ringrazio V.S. per l’esemplare del Richéome, e per quelli dell’Anti-Cottone, che mi manda; sebbene l’Anti-Cottone è stato fatto e stampato in italiano, non so in qual luogo. Mi sarebbono molto care le lezioni di Cuiacio in canonico solamente, massime per veder lo stile tenuto da quel valent’uomo, e procurare d’accomodarlo a qualche studio qui, come Ella può ben imaginare. Del libro di Bellarmino, V.S. a quest’ora ne avrà ricevuto una copia, che il signor Domenico Molino mandò per lei. Non è da dubitare che sia, come V.S. dice, un trionfo. È vero che questi signori l’hanno proibito con pene grandissime nel loro Stato. Resta che chi ha maggior ragione e forze, faccia la sua parte, come io voglio sperare che sarà fatto. Accomoderò la cifra, secondo che V.S. m’instruisce, e penserò un poco all’amplificazione.

Questa mattina il nuovo ambasciatore d’Inghilterra ha presentato la sua lettera di credenza; del quale io non ho tenuto a mente il nome,5 per esser assai barbaro. Vien detto che sia uomo di valore, e zelante. Era uno dei deputati nel Parlamento ultimamente tenuto: la giornata ci mostrerà la riuscita. Egli ha seco la moglie, che medesimamente viene descritta persona di qualità. Io feci al suo tempo la conveniente scusa sopra il successo delle lettere, sì come in un’altra mia li promessi di fare. Per risposta non mi occorre dirle altro, se non che per la passata risposi a quella delli 27 ottobre.

Passo ora alle cose di qua. Ai 25 del passato, in Roma, Pietro Antonio Rubetti,6 già arcidiacono e vicario patriarcale di Venezia, che V.S. conosce, e che poi andò a Roma perfidamente, avendo la mattina detto messa, e vissuto il giorno secondo il suo ordinario, la notte seguente sprovvistamente è morto; ed essendosi appresso ad alcuni divulgato, ciò esser successo per veleno, il pontefice ha mandato il suo chirurgo e fatto aprire il corpo per certificarsene; il quale riferì non averne trovato alcun indizio: e tutto questo è certo.

Della guerra credo non sarà niente; Spagna non la vuole; Torino non può senza Francia, la quale non vorrà, nè potrà dare aiuto. Il figliuolo non ha voluto dire al re, che il duca dimanda perdono e offerisce la vita e lo Stato: il che essi volevano per introdur principii di servitù. Torino anco teme di Mantova; tanto che le cose passano con qualche confusione.

Pare che quei di Germania voglino riformare la nostra città quanto alle cose delle lettere, poichè a Trento hanno scrutinato tutte le balle de’ libri che venivano da Francoforte, e levato fuori e confiscato molte sorti di libri che non trattano di religione, ma legge ovvero istoria, e in particolare tutti gli esemplari dell’istoria di monsieur di Thou. Ma ben si sa onde questo nasce.

Io aspetto per la seguente d’intender la convalescenza e la totale salute di V.S.; alla quale, facendo fine, bacio la mano, insieme col signor Molino e Fra M. Fulgenzio.

Di Venezia, il 7 dicembre 1610.



  1. Dalla raccolta di Ginevra ec., pag. 314.
  2. Cioè, della consagrazione o coronazione di Luigi XIII, la quale ebbe luogo in Rheims, ai 17 ottobre, per le mani dell’arcivescovo di Rouen. Sono sempre le esagerazioni nocive, e nocque grandemente anche ai principi l’aver voluto così trasumanare la loro temporale e mondana autorità.
  3. Claudio Acquaviva fu eletto generale dei Gesuiti nel 1581, e tenne quel grado, a cui era salito di soli 38 anni, sino alla sua morte, accadata nel 1615. Fu autore della Ratio studiorum proibita dal Santo Ufficio nè bene accolta da’ suoi; e sotto il suo regime, fu pure emanato il decreto solenne della Compagnia contro gli autori che avevano insegnato potersi in certi casi dar morte ai regnanti. Certo, l’Acquaviva restaurò, colla sua operosità e fermezza, la fortuna assai scaduta e pericolante del suo Ordine; ma non intendiamo il perchè a lui, anzichè al Lainez famosissimo, qui sembrino attribuirsi le teocratiche e tirannesche, le oscuratrici e corruttrici tendenze di esso. Sarebbe stato curioso assai, se il Sarpi avesse un pò meglio svolto il concetto ch’egli erasi formato del governo e (forse) dell’indirizzo pratico dato alla nera società da cotesto frate e aristocrata napoletano.
  4. Il computo sembra sbagliato, se vuolsi riferirlo al generalato dell’Acquaviva, dal quale correvano allora soli 30 anni. Ma forse è questo uno dei tanti errori tipografici dei quali è gremita la raccolta ginevrina delle Lettere sarpiane.
  5. Vedilo al fine della Lettera seguente.
  6. La fuga del Rubetti da Venezia è raccontata nella Lettera XLIV, e a lui si fa più volte allusione in altri luoghi, ed anche a pag. 39 di questo stesso volume. Ma nuovi e più importanti particolari intorno alla sua morte, si troveranno al fine della Lettera seguente.


Note

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