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CLXVIII. — A Giacomo Gillot
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CLXVIII. — A Giacomo Gillot.1


Devesi ai maneggi dei romaneschi, se a un tempo ci giunsero e i forti decreti del regio Senato, e le deliberazioni fatte in contrario dal privato Consiglio del principe. Nè potemmo non rammaricarci considerando i destini di una stirpe valorosissima, che, per codardia e corruttela di pochi, è costretta a vedere scrollati i fondamenti del regno e a sopportarlo in pace. Ogni giorno più si chiarisce qual buon giuoco abbia fatto a’ nemici la morte del gran re. Faccia Dio che non si abbia da conoscere appieno, prima che passi l’anno. La vostra disgrazia è anche disgrazia nostra, poichè secondo i successi di costà gli animi s’ingagliardiscono o si spaurano. A Roma narrarono cotesti fatti con una tal quale adulazione verso di noi, esclamando che qui si era adoperata maggior prudenza, per non essersi posto mano a scritture: il che se torna gradito al volgo, non toglie a’ savi di conoscere dove mirino cotesti panegirici, nè di sospettare d’artificio in quel confonder tutto, battezzando (atteso l’indole nazionale) per prudenti noi, i quali, comunque fermi nel fronteggiare gli ostacoli, siamo alquanto rimessi in quanto all’affrontare le utili imprese. Non può negarsi che ciò non abbia portato grave ferita alla riputazione ed alla dignità comune; e pure ho per fermo che i buoni Francesi si mostreranno più ardimentosi che timidi nel tempo avvenire.

Io ricevei due lettere della S.V.; l’una del primo di dicembre, con l’esemplare dell’arresto con l’Apologia di Euformione e col non mai abbastanza lodato Tocsin. L’Apologia è gravissima d’erudizione, e dimostra nell’autore un ingegno svegliato e sodo; ma l’autore del Tocsin è assai intendente di faccende politiche. Voglia Dio che venga ascoltato dai vostri magnati; i quali se continueranno a dormire e non emenderanno gli errori commessi per la furberia e le suggestione dei nemici, io ne prenunzio loro altri e ben più solenni. L’Epistola a Paolino Ex-datario,2 che io ricevei con la lettera della S.V. dei quindici di dicembre, enumera molte ruberíe fatte dai Gesuiti oltre l’Alpi: il che io ignorava. Ma Italia non ne va libera, e qui lavorano colle stesse arti che fanno oltremonti. Ma io mi maraviglio sommamente del potere o strapotere ch’essi esercitano costà; ove potendosi stampare e ritener tutto, pur non è lecito di toccar loro: se non che, quanto più favori usurpano, tanto mi lusingo che dovranno più presto restar colpiti dalla concordia dei buoni.

Compiacciomi e lodo che la S.V. non si disvolga dal mettere insieme pubblici documenti. In questo è da insistere con maggior nervo, per contrabbilanciare gli altrui accaniti sforzi. Fa stupore che lavorino all’uopo di mani e di piedi dieci e più Gresuiti, volendo per sè e pel papa l’imperio del mondo. I principi e i loro intimi ministri non sanno prendere un partito; e, quel ch’è peggio, incutono paura ai volonterosi che si oppongono. Io metto molta fiducia in cotesto Senato e nei suoi singoli membri; e confido (purchè diate ascolto a Tocsin) che saprete prendere le prime occasioni opportune, o piuttosto andare incontro alle sopravvegnenti. Ma io sono un dappoco dandomi a credere di spronar chi già corre. Lasciate queste intramesse, vengo a’ casi miei propri.

Il servirmi del legato Foscarini non mi par più mezzo sicuro per inviar lettere alquanto libere; e perciò non so indurmi a finir questa, come presago che per qualche tempo non vedrò i suoi caratteri. Io mi affaticherò di trovare altro modo. La scongiuro frattanto di non cancellarmi dalla sua memoria; ma come si degnò già di amarmi, così voglia ciò fare in perpetuo. Le bacio le mani.

Venezia, 4 gennaio 1611.



  1. Edita in latino, tra le Opere ec., pag. 17.
  2. Questo, con gli altri titoli d’opere che s’incontrano in questa Lettera e nelle più prossime, li abbiamo per capricciose denominazioni di libri che si scrivevano intorno alle religiose controversie di quel tempo.


Note

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