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CCIV. — A Giacomo Leschassier
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CCIV. — A Giacomo Leschassier.1


Se i padri Gesuiti vogliono istruire la gioventù francese anco a vostro dispetto, hanno messo pietosamente gli occhi ancora sulla nostra; e noi, fatti accorti da voi, c’ingegniamo in ogni modo per non provar gli effetti di tanta loro grazia. Io credo che per divino beneplacito sieno seguiti contemporaneamente i fatti di costà e quelli di qui; e mi piacque inviare alla S.V. un esemplare del nuovo decreto, insieme con altra del primo, che dalla stessa lettura rileverà essersi resi di pubblica ragione. Perchè non m’odino più che non fanno, vorrei che nessuno sapesse che l’ho mandato io, all’infuori del signor Gillot, cui prego la S.V. a partecipar la presente e offrire tanti miei saluti. Vedrà frattanto come essi tendano laccioli alle matrone e zittelle a fine di raspar quattrini. Ma dirò cosa che dal decreto non apparisce: portano via più roba da questo dominio esuli, di quel che si facessero presenti.

Di Castiglione, ecco come va la faccenda. È un luogo situato tra Verona e Brescia, appartenente in realtà alla diocesi di Brescia, ma soggetto al dominio del marchese Gonzaga, fratello a quel giovane che si domanda comunemente il Beato.2 Ha una piccola fortezza, e per di più è borgo, ove abitano un presso a duemila di uomini e donne, coloni quasi tutti, e più che poveri, miserabili. I Gesuiti, dopochè furono esiliati dalla Repubblica di Venezia, rizzarono qui un collegio e pretendono fare scuola (com’Ella rileverà dal decreto) non solo a’ fanciulli, ma anco alle giovinette. Ma se anderà in fumo quel che raccoglievano dai Bresciani e Veronesi, bisognerà bene che faccian fagotto o muoiano di fame. Le trappole che ci apprestano in Italia, sono un bel nulla al paragone di quelle che disegnano in Costantinopoli, tutto arruffando e sommovendo per concitare i Turchi contro a noi. Io mi lusingo che questi sforzi torneranno a nulla; ma intanto niuno di loro può sfuggire alla divina giustizia, mentre si millantano Cristiani, anzi i soli Cristiani. Non aggiungerò parola; che se le presenti mie riusciranno noiose, domando scusa, pregando le SS.VV.3 ad avermi nella usata loro benevolenza. E bacio a quelle le mani.

27 marzo, 1612.

Il cardinal Gioiosa parte di Roma per venir costà, e ne spaccia a motivo fra ’l volgo una chiamata della regina. Ho per certo esser questa la vera cagione: che si venga a qualche risoluzione contro il libro del Sindaco,4 o dal clero o dal senato o da qualsivoglia altra autorità. Mirano a ottener questo, perchè si paia a Roma che non la pensano a quel modo tutti i Francesi che godono di legittima autorità e pubblica rappresentanza. Ciò tengo per indubitato, e come di tale ne scrivo.



  1. Stampata, in latino, tra le Opere ec. del Sarpi, p. 100.
  2. Il fratello di San Luigi Gonzaga, che Paolo V aveva giustamente ascritto fra i Beati, chiamavasi Francesco; diverso assai dall’altro suo fratello Rodolfo, uomo iniquissimo, a cui era succeduto. Sarebbe curioso un confronto tra questi sì diversi fratelli: l’uno tutto del cielo; l’altro tutto delle corti e mondano, pur meritevole che gli fosse dopo morte innalzata una statua dai vassalli, che molto lo avevano avversato; l’ultimo, de domo inferi, addirittura.
  3. Riferibilmente al Leschassier insieme e al Gillot, ai quali avea detto dover esser comune questa Lettera.
  4. Edmondo Richer. Vedi la nota 2 a pag. 291.


Note

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