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IV. Prosa
III V

IV.

PROSA.

S’intende, secondo la nostra divisione alquanto sommaria, prosa d’arte; ossia narrativa; di romanzi e novelle e simili cose.

L’uso domanderebbe a questo punto un cenno sopra le correnti e gl’indirizzi ideali di codesta arte; come una volta si distinguevano scuole e maniere del romanzo. Ma voi sapete che sarebbero ciarle inutili. Più inutili ancora che per i versi.

In quelli almeno si potevano notare certi ismi; qualità generiche, psicologiche e non artistiche, etichette e pose, ed equivoci sopratutto; ma insomma di liricismo e modernismo, di espressionismo e provincialismo era possibile discorrere con qualche curiosità.

Per la prosa non è possibile neanche l’equivoco; a distinguer sul serio l’umorismo di Pirandello dal realismo di Zuccoli, o magari l’ oggettivismo della Deledda dal borghesismo della Prosperi, non ci arriva neanche un critico giovane e idealista per professione. Romanzi e novelle oramai in Italia hanno realizzato il tipo unico con una felicità da fare invidia ai produttori di vino toscano.

Un tipo solo in tre o quattro confezioni; la novella per la quinta colonna del quotidiano — articolo corrente, à tout faire — ; la novella per il magazine — rapidità e novità — o per la rivista seria — articolo soigné; il romanzo da pubblicare a puntate; e il romanzo che si stampa addirittura in volume — articolo pesante; da esposizione piuttosto che da vendita.

Dopo di che, si potrebbe fare anche a meno di soggiunger dei nomi. Non che facciano tutti la stessa impressione al lettore che squaderna il suo foglio e butta l’occhio in fondo alla colonna; c’è delle firme che si ritrovano volentieri, con una certa fiducia di passar quei dieci minuti meno male; e ce n’è che si subiscono con rassegnazione, come la minestra di magro in famiglia, in quei tali giorni destinati; ma infine, qualunque sia il produttore, noi sappiamo che il tipo della merce non cambia; sia novella, sia romanzo, siamo ben certi di quel che ci aspetta; disegno e fattura, personaggi e scioglimento, interesse e linguaggio.

Tutta questa roba ha una formula, di cui ognuno conosce l’impressione, per quanto non sia così facile renderne conto nei particolari: che rappresentano abitudini letterarie e procedimenti tecnici e imitazioni assai disparate, ma prive oramai di valore e di intenzione propria, dimentiche dell’origine e del significato, ridotte a meccanismo anonimo. A guardar bene, uno del mestiere ritrova nella più meschina di queste novelle tracce e riflessi quasi di nobiltà artistica; così come nei fabbricatori, e massime alle prime cose, si posson distinguere varietà personali della fisonomia e del l’educazione. Ma l’uniformità dello stampo finisce presto a uguagliar tutto; e la signorina sentimentale, il dilettante di provincia, la maestra spostata, l’ex-seminarista e l’impiegato postale scrivono assolutamente le stesse pagine del letterato di professione e del giornalista che è stato a Parigi.

C’è un po’ di tutto in questo stampo, e niente, alla fine. C’è del Maupassant, e dello Zola, prima di tutto; e poi del Verga. Ma c’è anche del D’Annunzio e del France; per non parlare di tutte le influenze secondarie, utilizzate confusamente.

Il taglio e l’impostatura della narrazione è in genere quello della grande novella francese di trenta anni fa (Maupassant); e così la ricerca del rilievo realistico nei particolari, la introduzione dei personaggi per mezzo di note materiali e precise; pelo, color degli occhi e della pelle, bocca, mani e via via. Invece il dialogo e la psicologia è notata piuttosto alla maniera del Verga; con quelle frasi all’imperfetto, e quei costrutti impersonali, un po’ rilasciati.

D’Annunzio si sente, com’è naturale, nella lingua; il vocabolario è sempre il suo; l’uso giornalistico lo ha sveltito, ma non gli ha tolto quell’impronta prima di precisione e di ricchezza un po’ fredda. Invece i congiungimenti delle parole, la ricerca di certe opposizioni e ironie puramente verbali, l’accento di certe sentenze, vien direttamente da France; direttamente, dico, attraverso la moda che ci fu pochi anni addietro di leggere e imitare France, e che si è conservata per inerzia e trasmessa, in certi atteggiamenti di stile, anche a quelli che di France non hanno letto forse una pagina.

Influenze più vicine, delle ultime novità letterarie, non accade di sentirne; son già parecchi anni che in Italia l’interesse per le cose straniere è diminuito di molto; e poi ha cambiato tono, è divenuto una curiosità di cultura, o un pretesto di critica; certi scrittori, Kipling, poniamo, o Gorki, o Barrès o anche Rolland, sono stati letti e han fatto chiasso: ma senza effetto vero e proprio.

Piuttosto nella nostra prosa narrativa ci son delle tracce profonde del così detto simbolismo: e decadentismo della poesia francese, che non riuscì a suscitar niente ili durabile in Italia, ma fu letta e invidiata, con uno strascico ancor visibile in certe posizioni d’aggettivi, in certe sfumature d’impressione e di sentimento.

Somiglianze con Bourget par che saltino all’occhio; son particolari della moda, in vestiti e salotti, un certo snobismo di personaggi, discorsi e via via; ma è cosa in parte fortuita, effetto di snobismo appunto, che non ha paternità letteraria (non c’è la minuzia caratteristica di Bourget). Più curiose da considerare sarebbero certe novità portate dal linguaggio della cronaca mondana e sportiva, con quella disinvoltura di termini esotici e d’impressioni rapide, che è passata dal taccuino del reporter alle cartelle dello scrittore: e questo forse, dopo l’impronta realistica, è il carattere più importante; che si vuole accennare come modernità, impressionismo.

Non badiamo all’incongruenza dei termini.

Si sa bene che tutti codesti caratteri, disparati e contraddittori a pigliarli sul serio, in fondo non significano nulla: sono abitudini, trucchi, ficelles, senza valore artistico speciale,

Niente di quel che è proprio, per esempio, di Maupassant, non diciamo come creatore di sensazioni e di realtà, ma semplicemente come maestro di raccontare, come personalità letteraria, niente si ritrova in queste pagine superficiali; in cui il realismo è fatto di convenzione e di maniera, e le persone sono mannequins, e i paesi son decorazione stilizzata, e perfino la sensualità è falsificata, verniciata di non so che decenza mondana, che evita tutti i particolari crudi (pensate lo scandalo che farebbe una Boule de suif oggi, o En campagne; nè c’è cosa più schietta e più sana, in fondo!), e unisce l’egoismo del piacere avido e facile a un falso idealismo di moda.

Del resto, non bisogna prendersela nè con la ipocrisia nè con altro; poichè tutto, bene o male, è ridotto allo stesso valore; motivo a produrre delle pagine.

Gente che aveva una certa personalità — magari fatta di difetti — in altre cose, la perde nelle novelle; in cui Moretti somiglia alla Guglielminetti, e Pastonchi a Térésah; gente che l’aveva avuta, la perde a poco a poco: perfino il colore regionale — quella benedetta Maremma e Romagna e Sicilia e Sardegna che pareva dovesse affliggerci in perpetuo — si va sciogliendo e uguagliando a vista d’occhio nello stampo comune.

Tutto si logora, si accomoda all’uso anonimo e corrente. Non si tratta più di osservare la verità, di scrutarla, di rappresentarla; e non si tratta neanche di far del bello stile o del sentimento o dell’ironia o dello snobismo.

Si sa press’a poco che una narrazione deve avere quei tali requisiti: il canone si è costituito attraverso gli anni, e adesso è quello che è; e non resta altro che accettarlo.

Tutti vi hanno contribuito un poco; i tentativi e le esperienze lontane degli anni in cui in Italia si cercava di far dell’arte; e l’esempio vicino di tutte le cose che son piaciute e che hanno avuto un po’ di fortuna; niente Oriani per esempio, ma un po’ di Rovetta; e a mano a mano un po’ di tutto; ogni stagione e ogni fortuna letteraria nuova porta un ritocco allo stampo comodo e largo; in cui oramai c’è qualche cosa che ritien della Deledda, e qualche cos’altro lasciato da Beltramelli, e dallo Zuccoli e via via; un contributo importante l’han recato le femmine, da prima le specialiste del racconto sentimentale per signorina e per maestra, e poi, con impronta più risentita, le professioniste ultime della sensibilità femminile, Guglielminetti, Prosperi ecc. Ognuno porta la sua pietra e poi si adatta ad abitare nell’albergo di tutti: chi resta fuori, è perduto; pensiamo quanta ombra copra il lavoro di quei pochi che fanno da sè, secondo il loro tipo personale; o come sia caduto presto dalla moda qualcuno che non ha potuto seguirla per es. Beltramelli che è rimasto al suo primo stile, per quanto si sia sforzato con la guerra.

Con un po’ di temilo da perdere, niente sarebbe più curioso, per esempio, che esaminar lo stato civile dei personaggi che si muovono insieme sopra lo scenario; c’è dei duchi e dei marchesi che vengono dal Bourget e dalla Serao, ma attraverso tanti cambiamenti di moda — perfino attraverso un momento in cui era di buon gusto metterli in ridicolo! — ; c’è degli affaristi che arrivano, per un cammino vizioso, dal palcoscenico; una infinità di professori e di dotti più o meno ridicoli, che son sempre quell’unico Bergeret, rifatto sul serio dalla nostra gioventù di quindici anni fa, e arricchito delle spoglie di parecchi altri personaggi umoristici; e poi le signorine «nouveau jeu», e le piccole borghesi, e le signore dell’aristocrazia, le bambine precoci, e le mature che non si rassegnano, le cameriere e le attrici, tutto un mondo di tipi conosciuti, ma cambiati di vesti e di pettinatura, adattati, alle novità dell’ambiente in cui lo sport e il tango e la letteratura sostituiscono fino a un certo punto l’adulterio, o almeno l’amore.

Allo stesso modo si potrebbero scoprire i moduli dell’intreccio, di cui ognuno ha la sua origine, talora classica e talora anche assai umile: con delle curiose contaminazioni del resto, per cui dei villani o dei borghesi con la durezza e la tristezza del dramma realistico da cui son tolti, figurano in una favoletta ironica e commovente; oppure dei figurini dannunziani recitano una vecchia scena di gelosia rusticana. Ma tutto è così ben lisciato, ripulito, tirato all’ultima vernice, che non si senton contrasti o disuguaglianze; si ha quell’impressione di roba quasi vera, e con dei particolari nuovi, d’attualità, che piacciono meglio sopra uno schema famigliare; quel senso di interesse drammatico non eccessivo, di decoro letterario non tanto squisito da affaticare, di solletico sensuale non tanto sfacciato da poter cadere in discussione, di analisi psicologica non tanto acuta da sorprendere; linguaggio, situazioni, passioni, umorismo, effetti pittoreschi o letterari o sentimentali, tutta roba che è press’a poco come dev’essere, e che passa sotto i nostri occhi con una facilità naturale e sicura e corrente nelle pagine che si somigliano tutte, sotto un titolo che cambia ogni volta.

Questa è l’unica differenza alla fine; il titolo, ln trovata, la combinazione felice o stiracchiata che serve a mettere in moto i figurini sullo scenario. Che se poi la trovata non c’è, se ne può fare anche a meno: forse il quaranta per cento di ciò che si stampa è roba mancata, imperfetta, che avrebbe dovuto restar nei cassetti, come studii non riusciti che potranno esser ripresi o servire in un altro quadro; e invece vien fuori tutto, descrizioni oziose e quasi senza pretesto, profili e considerazioni morali, semplice materiale narrativo, non giustificato da nessuna favola. Non importa: pur che ci sia un po’ del colore o del linguaggio solito, la cosa è fatta e può andare.

A compiere il quadro manca solo una piccola distinzione, generica ma abbastanza netta, fra i due tipi di narrazione; romanzo e novella.

La stilizzazione è molto più profonda nella novella; per il motivo semplicissimo che la novella si presta di più al consumo quotidiano, è un articolo di smercio pronto e sicuro: tutti i giornali lo domandano. Invece il romanzo è qualche cosa di più disinteressato, per necessità; non si può collocar subito; bisogna lavorarci un pezzo e poi stamparlo in volume, con un compenso tardo e scarso, aspettando il momento del trionfo che aprirà le porte delle riviste, le sole che si permettano il lusso di pubblicar dei romanzi, di autori già in voga.

Per ciò tutta quella relativa nobiltà e cura e intenzione vera e propria d’arte, che è rimasta ai nostri scrittori, par che si ricoveri più volentieri nei romanzi, nei quali si sentono meglio differenze di stile, di educazione letteraria e anche di temperamento.

I romanzi sono, di solito, più noiosi e più rispettabili. Del resto, i tipi son quelli: romanzo d’amore e di sfondo letterario monumentale (D’AnnunzioLys rougeBarrès); romanzo naturalista e regionale (con varietà di problemi politici e religiosi); romanzo mondano, che è una novella tirata avanti per trecento pagine.

Avremmo finito. Manca un cenno solo; degli scrittori. Perchè ci sono anche loro. Ce n’è dei vecchi e dei giovani, dei buoni e dei cattivi; dei mediocri e dei grandi: più forse che non si creda.

Qualcuno è lontano, in luogo glorioso da cui non lo vorremo disturbare. Verga: passano gli anni e la sua figura non diminuisce; il maestro del verismo si perde, ma lo scrittore grandeggia.

Voltandosi indietro, come per salutare, ci vien fatto di rivedere anche altri: una figura più mezzana, cara alla nostra fanciullezza, in cacciatora di fustagno, e colla pipa in bocca, un viso un po’ invecchiato, una brunitura di sole e di campagna, e un riflesso deliziosamente toscano, bonario e arguto nel riso e negli occhi semprevivi; Fucini, che ha scritto delle cosette sentimentali e comuni con una vivacità di macchiaiuolo e una limpidezza di artista. E poi la figura onesta di Farina.

E Capuana, che continua a scrivere con una prontezza vegeta e giovanile; scrive cose che non aggiungono molto ai primi volumi (Homo ecc.), che resteranno come un episodio di quel che si disse verismo: era il tentativo artistico di Verga, ripreso con molto meno di forza fantastica e lirica, ma snodato e sveltito nella tecnica, per quella facilità di narratore nato, che è il dono di Capuana, e che si sente ancora schietta in questi volumi: non si staccano dagli altri soliti (Pirandello) per qualità di realismo o di arte singolare, anzi si accostano alla maniera comune e non sempre alla migliore; ma son raccontati bene. Della stessa generazione sarebbe anche la Serao. Che scrive, ed è ancora domandata sul mercato, più degli altri forse: ha quel sentimentalismo erotico che piace tanto alle dattilografe di provincia, delle cadenze monotone di dialogo tanto stanco e tanto suggestivo, e poi un feticismo così piccolo borghese e così femminino per il lusso e i vestiti e i gioielli scintillanti delle signore dell’alta società!

C’è stato un tempo, raccontano i vecchi, in cui anch’essa fece dei tentativi di arte vera o propria, con un realismo abbondante, pittoresco e commosso nella sua minuzia un po’ trita.

Se mai si tratta di un tempo lontano. I suoi clichés appartengono alla letteratura commerciale di second’ordine; osservano la moda, con i santi, le madonne e le conferenze sulla primavera italica, ma un po’ di lontano; la seguono, non la fanno. Una persona di buon gusto, fornita di una certa letteratura, che abbia superato lo stadio Invernizio, Montépin, traduzione di Mendès e di Pierre Louys a 0,70 il volume, e che non sia ancora arrivata al grado supremo, Colette Noailles Bergson ecc., o che non senta l’obbligo aristocratico di rimanervi sempre — massime se è un uomo che voglia prendersi qualche ora di divertimento intellettuale, oggi ha altri libri da leggere: sapete quali siano. Zuccoli prima di tutto: il capofila nella nostra letteratura amena, quello che la rappresenta intera nelle qualità e nel successo. Non c’è vetrina di libraio che sia compiuta senza il suo ultimo volume, non c’è fascicolo di rivista o numero di giornale che possa dirsi riuscito senza la novella o la puntata del romanzo nuovo di Zuccoli.

Tutta la nostra borghesia intellettuale, il pubblico del Corriere — che del resto è il miglior pubblico d’Italia — i professionisti che non hanno rinunziato alla lettura, le signore che non vogliono dimenticare di aver avuto una buona educazione, le signorine e i ragazzi non completamente sportivi, tutta la buona media insomma, non concepisce l’arte, ossia il divertimento mentale in forma elevata, il libro di cui si può dire che è scritto bene, con un certo orgoglio letterario, che fa parer naturale e più distinto il gusto delle storielle piccanti e delle indiscrezioni così precise sul mondo dei viveurs e delle cocottes — se non sotto le specie di Zuccoli. Con ciò non si dice che egli raggiunga delle tirature eccezionali, o che abbia acquistato una vera popolarità; che la gente ricordi i titoli dei suoi scritti, che parli dei suoi personaggi e s’interessi alle sue creazioni come a cose simpatiche e viventi.

Questo pubblico è moderato e ragionevole nei suoi entusiasmi; non è capace di infatuazione e di passioni libresche. Da noi la letteratura è un oggetto di consumo: i grandi trionfi sono stati quasi sempre eccezione, per autori che non erano letti, come Carducci, o che interessavano sotto altro aspetto, come D’Annunzio. Le altre cose che pur piacciono, e son cercate e lette veramente, restano di solito a un livello inferiore. Zuccoli poi non è neanche all’altezza in cui era il povero Fogazzaro; di cui alcune creature (indipendentemente dal loro valore intimo: non confondiamo Luisa e Ombretta con Loredana e Farfui!) vivevano veramente nella memoria e nell’affezione dei lettori.

In ogni modo sul mercato letterario,è il produttore più in vista.

La sua fortuna del resto non ci deve rendere ingiusti verso le sue qualità, che non sono volgari. Anzi tutto sa raccontare. In mezzo a una moltitudine di pagine fiacche, che non hanno principio e fine altra da quella che dà materialmente il tipografo, narrazione e descrizioni che potrebbero seguitare indefinitamente o piuttosto non cominciar mai, le cose di Zuccoli hanno un taglio e uno spicco proprio; un interesse più di racconto che di trovata.

Non è che non abbia anche lui quelle cose senza consistenza, schizzi di una situazione, motivi di figura o di paese non fìssati, senza giustificazione drammatica, che diventan novelle solo per la necessità del giornale che esce tutti i giorni, della rivista che vien fuori tutti i mesi: qualche cosa bisogna pur dare: lo scrittore può riposarsi, la macchina no.

E Zuccoli è lo scrittore ridotto a macchina. Aveva cominciato con delle intenzioni artistiche, non molto profonde, ma abbastanza sincere; la sua letteratura era la solita modernità francese, senza squisitezze; ma il suo scrivere mostrava anche negli argomenti e nella moralità, qualche cosa di personale, una certa opposizione alle mode d’allora, uno sforzo di spirito e d’ironia, una leggerezza mordace che dava rilievo quasi signorile alle sue qualità di evidenza e di piacevolezza.

Questo si è cambiato presto in impronta meccanica, colore brillante e comune che si stampa a volontà sulla stoffa da vendere.

Oggi Zuccoli è una macchina per far dello Zuccoli: senz’altro interesse, quasi, che realizzare nei termini di una colonna o di un volume quei tali effetti che la gente aspetta da lui, e che rientrano perfettamente nel «tipo unico» ben conosciuto.

Un realismo di sensazioni rapide, colorite e banali, di tratti di psicologia acuti e generici, che non fanno persona; una sensualità non ridotta a sistema, non sentita profondamente, non analizzata e assaporata nella sua pienezza, non arrischiata, ma attenuata e alleggerita di tutti i particolari troppo schietti: una sensualità elegante insomma che sfiora le belle carni e le belle vesti, le luci della natura e la freschezza dei paesaggi, quasi attraverso il vetro di un vagone di «express»; con una vernice di mondanità e di scetticismo, non senza le sue increspature sentimentali e le sue interruzioni di solitudine morale e magari di stoicismo. Il mondo contemporaneo, fissato nella parte che interessa di più, che passa per più moderna — aristocrazia, viveurs, mondane, artisti, — ritratto con una certa verità o piuttosto esattezza, attualità di minuzie, mode, linguaggio; con una prontezza facile e sicura nel fermare i caratteri, «silhouette»» meglio che figure, pretesti di avventure e di combinazioni piuttosto che di drammi interiori; ma evidenti e interessanti. Infine un pizzico di personalità letteraria, una precisione di lingua che sa essere italiana e sfuggire gli esotismi senza bisogno, un uso parco ma notabile degli effetti di grande stile.

È la maniera; ma non bisogna scordare le facoltà, reali che servono allo sfruttamento commerciale, metodico e periodico.

Zuccoli ha dei doni di scrittore, un sapore di espressione, che resiste spesso alla banalità; una certa schiettezza, che è sensuale e limpida insieme, e appartiene all’impressione nativa e lascia nella sua frase anche volontariamente asciutta e moderna quasi una vibrazione di lirismo, un fremere nervoso di accenti e sospiri e commozioni che qualche volta si effondono in certi squarci, quasi poetici, che sono letterariamente una ingenuità, ma una ingenuità che giustifica la fortuna degli artifici.

Dopo aver parlato molto di lui, ci possiamo quasi dispensare di dir degli altri: che si trovano sullo stesso piano, con meno qualità e più difetti. Andare a cercare certe piccole differenze di maniera, di garbo e di abilità, sarebbe inutile: quel che conta in Ojetti e in Térésah, nella Prosperi e nella Guglielminetti, nella Drigo e in Pirandello, in Bontempelli, in Bracco e in Brocchi, in Pastonchi e in Cecconi e in Palmieri e in Palmarini, e nella Deledda e in Beltramelli, e in Sfinge e in Neera e in Iolanda, è il tipo; e di quello si è detto abbastanza. Ognuno di questi ha più o meno d’ingegno proprio — qualcuno forse ne ha assai sopra il comune — e scrive con decoro e con qualche facoltà non trascurabile o di sentimento o di ironia o di realismo o di letteratura; ma tutto questo si confonde un poco nella produzione e nel consumo di tutti i giorni: non c’è pagina che si stacchi dalle altre, nè scrittore che spicchi dalla pagina.

Se qualche cosa ha un rilievo più intenzionalmente artistico, non è sempre quella la più felice.

C’è, per esempio, un’intenzione di realismo più penetrante nel Pirandello, con una ricerca di particolari umili duri e silenziosamente veri, che dovrebbero far scoppiare i contrasti della pietà e dell’umorismo: ma quella ricerca e quella precisione è proprio ciò che pesa di più nelle sue pagine, che gli dà quella particolare ingratitudine delle fatiche accurate e un po’ sciupate: il suo bozzetto vai più della novella: e la novella molto meglio del romanzo.

Accade, in apparenza, il contrailo alla Deledda — lo scrittore che si presterebbe di più a essere trattato seriamente. Mentre le novelle son di una mediocrità esasperante, con quella monotonia regionale che non arriva neanche ad avere l'evidenza superficiale e chiacchierina del bozzetto di genere, i romanzi hanno un respiro più largo e profondo che finisce per trasportare uomini e cose e paesi — di cui nessuno ha felicità speciali di osservazione e di fattura — in un’atmosfera propria, quasi di commossa verità. Nelle pagine sempre mediocri c’è un non so che di umano e sincero, una epicità che rende una certa luce ai monti nudi e alle «tanche» e ai pascoli e agli ulivi argentati sull’orizzonte vasto, un certo interesse, un po’ grave, al racconto. Nella Deledda c’è qualche cosa che non si esprime direttamente e precisamente; ma si lascia sentire a poco a poco nel lavoro tranquillo. Bisogna ricordare che ella mosse da principii modestissimi, da un romanzo di avventura sentimentale con contorno di colorito locale, che non aveva quasi pretesa d’arte: e si è migliorata e rivelata naturalmente nel lavoro, fino a un certo limite: quando ha cominciato ad acquistare più coscienza artistica, cultura e ambizione, tentando anche il romanzo moderno, al di fuori della Sardegna, con idee, analisi di anime, precisione di tecnica, come usavano gli altri, i veri scrittori, allora s’è dovuta fermare. E se ha voluto ritrovare il pubblico, e una certa contentezza del suo lavoro, ha dovuto tornare al tipo solito; e l’ha ripreso in certe cose ultime con una maturità e quasi una fusione più calda di quegli elementi semplici e comuni.

Ha una maniera anche lei e la sfrutta; ma non con abilità commerciale; con una certa ingenuità, che la rende noiosa e la fa rispettare. Le novelle sono la traccia del tentativo artistico infelice e insieme una concessione alla volgarità: cadono nel tipo delle altre e non le valgono per piacevolezza.

Non c’è paragone fra la fattura superficiale della Deledda e la ricchezza d’impressioni vivaci e mobili e quasi sincere in un bozzetto, poniamo, di Térésah; o il realismo esatto e l’interesse arguto, se pur meccanico nelle sue combinazioni, di una novella di Ojetti. Anche questo somiglia un po’ a Zuccoli, per una certa eleganza di scrittore, che cominciò con intenzioni ed esercizi propriamente letterari, e a mano a mano s’è dato al mestiere, e ora è uno degli ornamenti del nostro giornalismo: ciò non toglie di avere spirito e garbo invidiabile: non ha veramente il dono del novelliere, non crea personaggi, ma sa osservare e sopra tutto scrivere, quasi signorilmente. La sua prosa non esce dal tipo comune, di tutti i letterati che hanno amato D’Annunzio e letto i francesi un po’ d’anni addietro: ma pare che abbia rinunziato alla pretesa di ricordarlo troppo; questo la rende amabile nella pulizia.

Meccanico come gli altri, nello svolgimento del racconto come una combinazione preparata per lo scatto, ma tuttavia più interessante è Bracco: il quale adopera, — insieme con quel certo realismo di marca francese, adottato dal giornalismo napoletano del 1805, — una facoltà propria di scegliere e semplificare le circostanze, di persone o di casi, che servono come molla a produrre l’effetto.

Ma tutto ciò riguarda solo in parte la letteratura. Novelle accurate e di una psicologia non volgare ha scritto Picardi; con una serietà e acutezza di animo che supera la finezza della fattura. Anche quando l’intenzione è sincera e onesta, questa non basta sempre a far dell’arte. Nobiltà di intendimento artistico ha Neera; e un certo ardore di sentimento, che la divide dal volgo; l’animo è puro e schietto nelle sue passioni: essa lo effonde, piuttosto che lo esprima nelle pagine gentili.

Un’altra donna che non manca di nobiltà artistica è la Guicciardi-Fiastri: profonda e tenace nello scrutar la realtà, ricca di sensazioni e di colore, che pur non risplende: qualche cosa le manca a essere felice, e si sente anche nello stile, che è laborioso e nutrito, ma senza evidenza.

Un po’ in disparte rimane Beltramelli; sospeso fra l’arte, a cui aspirava, a cui pareva destinato per tante qualità dell’ingegno, e la volgarità della maniera, che è stata la sua fortuna e la sua condanna. Adesso è caduto un poco dal favore del pubblico, dal luogo che aveva nei giornali, nelle riviste e negli aggettivi dei cronisti letterari; anche l’uomo pare che si sia ritratto alquanto nell’ombra.

Molto male è stato detto di lui negli ultimi tempi dalla critica. Egli l’aveva meritato largamente: anche senza parlare di un più recente sciagurato volume, appiccicato a quella solita guerra e relativo genio delle stirpi, con dei pezzi di cronaca, e delle parentesi di bello stile ieratico, da fare invidia alla letteratura dei militari, che sognano Loti coronato dei lauri dannunziani; e senza parlare di quell'altra novella stemperata in endecasillabi, in cui un po’ di Pascoli e la più naturalmente spazieggiata cantilena del verso par che dia una dolce novità ai vecchi clichés dell’idillio. Con queste cose egli sembra aver voluto confermare definitivamente l’opinione di coloro che lo dicono esaurito e che fastidiscono nel suo scrivere lo sfruttamento meccanico e interessato di una maniera che non si sa più rinnovare.

Tuttavia non vorremmo scordarci che molti dei suoi vizi così odiosi nascono sempre da quel profondo e torbido lirismo che si travaglia nella sua anima e grava sulla mano male e falsamente educata all’arte. È un poeta alquanto cattivo a noioso; ma appartiene alla razza dei poeti. Ciò si può dire di pochi e può fargli perdonare molto, e forse salvarlo ancora.

Più in disparte, e più in alto, in un certo senso, si trova anche Federico De Roberto: uno di quelli a cui nessuno nega, quasi per consuetudine, rispetto e stima; ma che restano sempre un po’ indietro, in una seconda luce austera e discreta.

Scrittore di romanzi, dialoghi e saggi di psicologia letteraria, senza molte concessioni alla moda giornaliera: accurato e sincero, con degli scrupoli artistici e delle curiosità intellettuali non comuni, e forza di osservazione, e senso schietto di umanità. Registriamo così un poco in astratto i suoi pregi, per rendere il carattere pili vero di quelle pagine. In fondo egli è rimasto, pur con molta serietà di animo e di lavoro, limitato fra l’ideale dell’osservazione verista (di Verga) nel narrare, e il tipo delle variazioni psicologiche un po’ superficiali — e massime di curiosità amorosa intorno a episodi storici, che fu di moda in Francia dopo Sainte-Beuve; ma De R. si accosta meglio a quel che fa oggi Faguet, e che fece tra noi qualche volta, assai piacevolmente, Martini, ai tempi del Fanfulla. Infine, la sua sincerità non arriva a essere originalità; e la sua fatica è più nobile e acuta che non veramente felice. La felicità nell’arte ha ben poco di comune con l’onestà delle intenzioni; quanti sono che andando dietro al piacere e al successo nel modo più semplice, finiscono a trovare dei momenti di fortuna nuova, inaspettata e durabile; è un gran dispiacere per i moralisti, che vorrebbero che il dono dell’arte fosse concesso soltanto a quelli che se lo sono meritato asceticamente; ma il mondo va così.

E così accade, per esempio, di trovar delle cose belle nella Vivanti, e potenza vera, di scrittore in Guido da Verona: son due che dovrebbero appartenere alla categoria più comune dei mestieranti.

Sapete bene ohe la Vivanti è una di quelle donne che scrivono, secondo il vecchio tipo più semplice, fra le Delfine e le Colet; Delfina come fanciulla e musa, e poi come bella signora della società per bene; ma Luisa, per l’ingenuità dell’esibizionismo letterario, che dei ricordi della conversazione col Carducci e dell’orgoglio di aver messo al mondo un piccolo prodigio di suonatrice, fa tutt’insieme prosa per il pubblico; prosa di una vanità così sincera, anche in quella lieve falsificazione di estetismo moderno! E poi va. dietro al successo e all’attualità con un candore che arriva a trasformare in letteratura per i giornali — con bello stile di passioni e condimento di inquietudine morale — anche il fatto diverso e il processo celebre. Ciò non le toglie, per quella inconsapevolezza che è il segreto delle nature femminili, un dono di avere delle impressioni sue e di farle nascere qua e là nelle pagine come fiori di una freschezza svelta e tutta nuovamente trovata. È inutile poi osservare che certi effetti di presentazione bizzarra e gentile anche di cosette comuni, derivano da maniere inglesi, che la Vivanti non ha imitato, ma sfiorato soltanto con una superficialità, che riesce appunto più gustosa. C’è qualche cosa di più che una fortuna di tecnica in certi momenti di disinvoltura, che gioca con le cose e con le parole e le fa brillare e risonare lietamente: ricordiamo una serie di impressioni americane che sono una piccola meraviglia di vivacità, così deliziosamente vuote e colorite! Guido da Verona è press’a poco nelle stesse condizioni: un giovanotto d’ingegno, a cui la vita non piaceva meno dell’arte, per quel che pare, con quel tanto di letteratura che han press’a poco tutti al dì d’oggi, abbastanza ricca e moderna e con qualche pretesa — molto D’Annunzio, per intenderci — ma affatto superficiale in fondo. Un bel giorno s’è messo a scriver dei romanzi; romanzi come quelli di tutti gli altri, press’a poco; con una tal quale apparenza spregiudicata e disinvolta di dilettante baldanzoso, che non lo salvava tuttavia da una servitù letteraria naturale ed inconscia, la peggiore di tutte: alternando gli schemi stilistici e pseudo-drammatici del D’Annunzio con i modi dell’impressionismo corrente e certe audacie di una sensualità mezzo sincera e mezzo di bravata. Prendendo gusto al lavoro e aggiungendo pagina a pagina, ne è venuto fuori un temperamento ricco e autentico di scrittore; ancor torbido nello sviluppo di un motivo molto volgare, come quello dell’ultimo romanzo, senza schiettezza particolare di fattura, ma con un effetto complessivo di vitalità e d’interesse, che si fa più nuovo poi e più personale nella pellicola ilei cavaliere dello Spirito Santo: curioso libro, tirato via alla lesta sopra spunti che vengono dalla letteratura futurista; libro pieno di difetti e di ambizione e di cattivo gusto, destinato anche a piacer meno dei romanzi, di cui non ha le attrattive banali; ma con uno spirito e una bravura di tocco e una novità di fantasia che è un piacere seguire attraverso pagine di cui parecchie sono riuscite male o pesanti, ma qualcuna è leggera come una strofe che non si è curata di esser poesia fino all’ultimo; e ride e stride così stranamente!

Son pagine che possono far pensare, per la fantasia e anche per quel certo decoro letterario di effetto lievemente caricato ironico, al Panzini; se non che nel Panzini è altra gentilezza e maturità. Il Panzini è quasi il solo, oggi, artista schietto: non si dice che sia grandissimo, ma è della famiglia dei grandi. Lavora anche lui per il nostro mercato letterario, press’a poco come gli altri, in apparenza; è uscito a mano a mano da quella ombra mezzana in cui era rimasto con le prime cose, e si trova oramai in prima luce, pur senza rumore e senza spicco soverchio, che non è da lui; ma i giornali e le riviste lo cercano, il pubblico lo legge, e la critica lo ha esaminato con serietà. Si direbbe anzi che si sia piegato un po’ verso il pubblico; lasciando da parte quella forma di libro personale, che ci ha dato fin qui il suo capolavoro, la Lanterna, e limitandosi alle novelle di tipo più corrente, come sono nelle ultime due raccolte. Ma non è vero affatto. Insieme con le cose comuni altre son venute fuori, personalissime anche nella forma, come quel curioso bozzetto di Santippe, che sembra un piccolo viaggio fra di fantasia e di ozio letterario per l’antichità, e ha invece momenti di lirismo fiorito e di attualità così inquieta; e qualche pagina di novella, o piuttosto ricordanza, in cui par di vedere il segno di una maniera nuova. Panzini non è stato mai così vivo come in questi anni; con quelle disuguaglianze che son proprie dei poeti. Perchè la sua natura è di poeta, pur senza il dono del verso; è il poeta della generazione che ha seguito il Carducci; parla per Severino, per il Signorini, e per tanti altri — lasciamo andare il Pascoli, che non appartiene a nessuna generazione. Scolari del Carducci, che lo seguivano nella modestia e nella semplicità del vivere e nell’amore grande e pudore della poesia; ma non avevano di lui la pazienza e la potenza letteraria, il gusto dell’erudizione e della storia, i pregiudizi; e neanche la selvatica felicità del temperamento.

Il Panzini scrive qualcuna delle novelle che si scordò di scrivere il Carducci; le scrive semplicemente, senza cura di modelli francesi, che non ha mai guardato, nè, forse, conosciuto; con un sentimento della vita e dello stile, che è carducciano nel suo principio, ciò è nella schiettezza di un classicismo che non è solo decenza della lingua e insaporimento letterario della fantasia, ma sopra tutto consolazione di umanità, commozione non retorica delle grandi cose belle e del contrasto senza rimedio con la realtà misera e cieca.

È lieve questo classicismo, come in genere l’apparato letterario del Panzini; che si direbbe scarso, povero in confronto della minuzia retorica dei vecchi o della cultura dei nuovi; non molto di greco e di latino, poco di moderno; letteratura d’Italia, senza squisitezze, e non con curiosità uguale, ma a tratti di simpatia e antipatia robusta: e tutto questo poi è scrollato e turbato dagli scatti di un carattere insofferente, che arriva nella sua sincerità a un odio non meno illusorio che naturale per ogni letteratura.

Il vero è che Panzini ha un temperamento nativo d’artista, ricco di movimenti bruschi e di voci fantastiche, non sempre felici e limpide, ma sempre schiette. La educazione letteraria da prima si è imposta a questa natura, semplificandola, riducendola a essere quasi solo una intensità e una risonanza pura del linguaggio volontariamente mediocre e tenuto all’esempio dei grandi: ma poi a poco a poco ha subito di più la forza della persona, che contrastava coi suoi crucci e con le sue nostalgie, con le illusioni e con le riflessioni, alla forma quieta dello scrivere e dell’osservare; e ne è venuta, anche nei bozzetti alquanto superficiali e nelle dilettazioni leggere, quella nervosa e interrotta armonia, quella luce a sprazzi liquidi e ombre spezzate, quel non so che di lirico e pieno, che è la qualità vera della bella prosa di Panzini; prosa viva, d’impressioni e di ritmo, di difetti e di grazia.

Oggi il progresso dell’analisi e della purificazione interiore pare in qualche momento più profondo. Le sue cose hanno perduto un poco di sapore e di fiore. Son più nude; esprimono meglio l’uomo che è debole, senza forza di giocare con le anime e di creare degli effetti secondo la sua volontà: sensitivo e ombroso; tormentato da un bisogno di affrontare e agitare dei problemi, in cui si rivelano certi limiti della sua cultura e della sua intelligenza; ma che sono terribilmente seri, per lui solo.

In questa solitudine la parola è diventata ancora più intensa e più semplice; crea delle sensazioni definitive, e dice delle cose di una umanità commovente, così vera che ci fa scordare qualche volta di esser lettori sopra una pagina, ci fa corrugar la fronte con una ansia di nomini davanti alla pietà e alla oscurità sorda della vita. Pochi hanno mai parlato come lui delle madri e dei figli; dei vecchi e dei giovani.

Vicino al Panzini, per dignità e anche per finezza di lavoro, si trova l’Albertazzi; un altro carducciano mancato, che attraverso gli errores della letteratura ha trovato una personalità di prosa e di racconto, assai cara nella sua discrezione. È anche lui uno di quei letterati di seconda luce, come ne hanno avuti parecchi le nostre scuole secondarie, che lavorano a cose diverse, fra scuola e critica e erudizione, con molto garbo, e stampano inoltre romanzi e novelle, di cui si dice, che son scritti bene, con un significato della frase, un po’ diverso dal solito. La critica lo ricorda con stima, e il pubblico lo accoglie anche nei giornali e nelle riviste di moda con un rispetto vago, in cui non è entusiasmo, ma una certa soddisfazione e fiducia; nessuno lo metterebbe, per esempio, al disopra di Zuccoli, con le parole, ma nemmeno al disotto: si sente una qualche differenza, che può essere inferiorità di successo, ma non certo d’ingegno.

Come si sa, Albertazzi è uno scolaro del Carducci, che ritrasse dal maestro, oltre che la lezione consueta di italianità e di stile, anche la curiosità della storia, ma più come diletto e racconto che come studio scientifico e interesse umano: e non uscì dall’ideale carducciano per un pezzo, adattandosi a dei lavori solo in apparenza metodici di erudizione, ed esercitando con dei pastiches non molto felici la sua facoltà di narrare e insieme l'affezione e l’obbligo della tradizion letterata. Di suo aggiungeva, oltre che la riflessione di una scrittura più arguta e chiara che non lirica e saporosa — ò la differenza dal Panzini — una certa curiosità e cultura moderna. orientata verso i francesi, scrittori di romanzi e di saggi e di varietà piacevoli, e verso alcuni problemi, massime del positivismo e del contrasto fra il nuovo ideale arido della scienza e le antiche forze della religione e del sentimento, che toccarono gli animi circa il 1890 e il 1900, e diedero lo spunto a qualche suo romanzo un po’ a tesi.

Da questi principi si è sviluppato uno scrittore nuovo e schietto, che usa parcamente una abilità tecnica rara. Pochissimi sanno comporre e raccontar bene come lui; con degli effetti così sobri e così sicuri di taglio, di sospensione o di scorcio; con quella velatura, nelle novelle di ricostruzione storica, sia vicina che lontana, dell’età di Napoleone o del risorgimento o del seicento, di un color del tempo così sicuro e tenue, senza nulla di volgarmente pittoresco; con quella evidenza di particolari significativi senza singolarità. Dell’elaborazione e dell’esercizio letterario gli è rimasta nel dire una pulizia, che ha rinunziato alle vanità retoriche così come a ogni pretesa di lirismo e di poesia spiegata, ma ha tutta la gentilezza, appunto, della rinunzia; e una varietà di risonanze e di inflessioni lievi, una limpidezza, una precisione, un non so che di corretto e di pudico, che dissimula signorilmente il pathos di una natura tenera e sensitiva. Il suo umorismo non è intenso, ma sincero; e i paesi son chiari e le figure schiette, piene di naturalezza e di affetto e d’interesse nella modestia dei casi. Non è uno scrittore che abbia inventato o creato cose grandi; ma, in questo secondo piano di cui si contenta. si può ben dire che ha scritto tre o quattro fra le più belle novelle della nostra letteratura: e ne scriverà ancora, con la facilità di questi che non si posson dire anziani, tanto sono ancora tenaci a lavorare e a migliorare, da fare invidia ai giovani. Fra i quali pur c’ò qualche cosa di serio, più che non paia. Non saranno opere grandi, fatiche tranquille continuate con quella sicurezza quotidiana e progressiva che crea anche nel pubblico l’impressione di una forza e di una fisonomia nuova: ma anche fra le incertezze e le turbolenze, bastano pochi momenti a far sentire una personalità di scrittore.

Fra quelli che promettono, e ancora non hanno compiuto, vien fatto di ricordare Morselli, che scrisse favole e scene drammatiche con qualche originalità, se non proprio di arte, di invenzione e di vigoria; e ha dato anche qualche novella, di tipo comune, ma di fattura così facile e robusta da fare aspettar meglio. Uno che è venuto fuori pur ora, e può far dubitare un poco proprio per quella felicità raggiunta forse un po’ troppo presto (che non sia il principio dei soliti compromessi e manierismi), è Rosso di San Secondo. I suoi idilli son cosa tutt’altro che profonda o nuova; ma hanno una piacevolezza deliziosa, un tocco sicuro di scrittore che ha superato quasi senza accorgersene la crisi delle imitazioni e della ricerca letteraria. La sua sensibilità prendeva un sapore lievemente artificiato nelle elegie, in cui l’intenzione personale si piegava sotto il peso della letteratura e degli schemi stilistici e ritmici o addirittura metrici: ma se n’è liberata rapidamente e ora si mostra in cose, che hanno meno pretesa lirica, ma piuttosto facilità di racconto e una certa freschezza di fantasia e di umorismo, fra il comune e il delicato e il melodioso, che non somiglia ad altri e che piace. È questa piacevolezza che manca, per ora, a Baldini; i cui bozzetti hanno pure finezza di analisi e gioco sottile di sensazioni, non molto saporite, ma pulite e senza enfasi; se non che son cosa fredda, che non muove da una vera necessità interna di confessare o di raccontare.

Lontano, e da un’altra parte, si trova Jahier; che è rimasto quasi nascosto al grosso del pubblico in certi tentativi radi e alquanto oscuri, frammentari, che non hanno bastato a metterlo in vista e neanche a dargli coscienza netta dei suoi mezzi e del suo ingegno. Scriveva sulla Voce, degli stelloncini un poco all’uso del primo Soffici, per il tritume delle minuzie e della toscanità più linguaiola che espressiva: questo non gli diminuiva la serietà e un tale fremito d’ansia nel render impressioni di cose vedute e frugate. Poi fece, a intervalli, bozzetti di intimità casalinga, e paesaggi valdesi; cose belle. Contorte, nervose, affaticate da sospiri profondi di intimità e passione e tristezza umana, che si confondevano con un bisogno intenso di realizzare le sensazioni nella loro gioia piena- e i moti dell’anima nella loro musica insofferente: spezzate dalla molteplicità delle intenzioni non tutte artistiche, rotte dalla cura dei particolari; ma belle a ogni modo, anche della felicità che non aggiungevano, con quegli effetti grigi così vivi e mordenti come le ombre di un mattino d’inverno sullo squallore delle pareti domestiche, con quel non so che di melodico e sensitivo e odoroso che si sprigionava dalle impuntature dello stile, come sotto le scarpe che pestano il sentiero e l’erba della montagna vera. Pare che si sia fermato lì. Ha scritto ancora: ma si direbbe che quella certa servitù della, parola e del particolare, che l’ha sempre legato, unita a una sincera e pure alquanto fiacca e corriva preoccupazione moralistico-religiosa (non è carattere solo di lui, ma di altri spiriti, in cui la serietà e il turbamento morale diventa sprezzatura e complicazione in apparenza della forma artistica, quasi dispensata da ogni convenzionalismo, portata all’estremo della personalità; e in fondo poi è quasi pigrizia e retorica e imitazione, in quel gruppo di liguri, mi pare, che è rappresentato con più singolarità di intelligenza e disuguaglianza dal Boine), Io abbia trascinato a falsificare Claudel, che egli ha tradotto e quasi portato in Italia, con un’enfasi non meno inconsapevole che angusta, in cui la sua personalità si è strozzata.

Tanto abbondante e rumoroso e sfacciato nella stia produzione, per quanto Jaliier è stentato e nascosto, appare invece Papini. Del quale si può parlare quanto si voglia in tutti i sensi; ma una cosa resta pur certa, che l’Uomo finito è uno dei libri più notevoli dell’ultima stagione letteraria: non si dice che è un bel libro, solo perchè è di Papini.

Qui non è luogo di ritrarre interamente la figura bizzarra di questo vecchio precoce e falso giovane eterno; che aveva esaurito a diciott’anni tutte le capacità intellettuali e inventive di un uomo e conserva a trenta l’impertinenza la petulanza e il mimetismo degli adolescenti piò acidi: che sarebbe così antipatico nella sua monotonia clamorosa se non si pensasse che è stato mandato apposta dagli dèi per mistificare il volgo dei professori e dei letterati d’Italia, aspettando di finire imbalsamato con tutti gli onori in un capitolo della nostra futura kulturgeschichte, che potrà avere press’a poco per titolo lo sturm und drang culturale della gioventù italiana nel primo decennio del secolo XX. E sarà l’ultima mistificazione; perchè Papini non è soltanto un episodio di cultura o una curiosità del costume o un fenomeno di vanità letteraria e ciarlatanesca, come dicono quelli die vogliono viver tranquilli dentro una definizione, ma è anche un uomo d’ingegno e un vero scrittore. Soltanto bisogna intendersi: non è quello che pare. Quest’uomo che ha dato a sè e agli altri l’illusione di un’audacia intellettuale senza confini e di una malizia quasi diabolica dardeggiante in lingue di vipera e di fiamma sopra tutte le cose di questo mondo e dell’altro, filosofo e teosofo e poeta delle tragedie cerebrali e rivoluzionario e futurista senza pace, in fondo è quasi soltanto uno scrittore, nel senso più vecchio e più retorico della parola; un facile e pronto e robusto scrittore, che sa improvvisare un’amplificazione sopra qualunque tema con una bravura ammirabile e riesce come pochi a costruire la pagina solida, vivace negli effetti e risoluta nel taglio. Si dice che la sua è piuttosto eloquenza che calore, bravura e non originalità; e la sua forza è arida, con un fondo di durezza e di grettezza toscana, capace di beffe senza ironia, e di paradossi senza novità; ha dello spirito meglio che del pensiero: pensiero pareva in lui quella certa vivacità e turbolenza dei venti anni carichi di letture e di orgoglio sommario; non ne è rimasto molto poi nella stagione della maturità secca. La sua creduta potenza di inventare idee è finita a sviluppare certi pseudo-paradossi di una semplicità meccanica e desolante, luoghi comuni rovesciati, sopra i morti e i genitori e il genio; press’a poco sul tipo delle cicalate del cinquecento, sopra i nasi o la pazzia, con altrettanto inutile abilità letteraria; a far molto, un certo cinismo freddo lo potrà avvicinare a figure bizzarre come un Franco o un Doni, che escono dal comune con la vita, ma restano con l’arte nei termini dell’accademia e dello sfoggio retorico.

Ma nell’Uomo finito Tapini ha qualche cosa di più; sempre sommario e superficiale e ambizioso nella confessione che è piuttosto una tumultuosa. descrizione di se stesso, trova tuttavia nell’orgoglio esasperato e nell’insolenza stessa del cinismo momenti di stanchezza amara e di verità profonda; lagrime di passione gocciano sul viso maligno e sembrano creare nell’animo la solitudine di certe campagne penose, pietrificate e sconvolte sotto un cielo cattivo. Gli episodi acquistano una continuità, dialettica, e dal disordine nasce una musica. Allora si capisce che quel rumore superficiale che ci aveva turbato e infastidito fino a ieri, nascondeva qualche cosa di profondo: e risalendo quasi dall’ultimo libro agli altri, si trova, dietro il Papini del volgo, di cui noi abbiamo ritratto ancora per uso la figura antipatica, un altro Papini, di cui non ci potremmo sbrigare con la stessa facilità.

Lasciate pur stare quel che lui e Prezzolini hanno fatto e guastato nella gioventù — e non solo nella gioventù! — d’Italia, da dieci anni in qua; e solo Croce ha fatto di più: lasciate stare anche l’uomo rappresentativo di movimenti e crisi mentali.

Ma solo nelle pagine che ha scritto, nell’agitazione dei pensieri e nella fermezza delle parole, c’è tanto di sciupato e di perduto e tanto di trovato e incominciato, da comporre una figura che è singolare oggi e potrebbe riuscir grande, forse, domani.

Viene in mente Oriani; l’uomo che somiglia più di tutti a Papini, nel bene e nel male, nella superficialità della cultura e nella ricchezza dell’ingegno, nella bramosia del successo volgare e nella scontentezza dell’animo strano, nell’ambizione di pensatore e nelle qualità di retore. Certo Papini non ha la potenza oggettiva e psicologica di Oriani, la mordacità e la penetrazione che giungeva attraverso il rancore fino alla superiorità; ma ha, per compenso limitato, una felicità di espressione imaginosa pittoresca e soda a cui il romagnolo ingrato non si potè mai avvicinare. La parola di Papini ha dei doni nativi di evidenza e di suono lirico. Non si tratta soltanto di franchezza fiorentina, che era anche nelle prime cose, un po’ saporita, e un po’ spassosa e un po’ insolente, come il vociare dei monelli e degli scolari, che con una parolaccia becera si credon di gridar forte al mondo la loro indipendenza spirituale; e la consuetudine necessaria coi classici di Carabba ha confermato e schiarito quella franchezza naturale. Ma le campagne e i ricordi nell’Uomo finito, così come le impressioni della strada e degli amici e del fiume sulla Voce, hanno una solidità di fantasia e una dolcezza di accento che è cosa rara. Ci sarà come al solito un po’ di bravura, e quella facile pienezza che trasporta nella corrente periodica e diminuisce un poco, continuando e compiendo, il risalto di certe parole più felici; Papini non lui la scioltezza delle impressioni di Soffici; piutosto che la trasparenza del colore egli possiede il taglio forte e preciso di una materia superbamente toscana, che fa pensare al Carducci. Parrà poco per uno che ha voluto qualche volta essere Dio?

Ma torniamo a Soffici, che è artista solo.

Le cose ultime che scrisse sulla Voce del 1912 e poi il Giornale di bordo del 1913, hanno dei momenti che sono stati, dopo le Faville del D’Annunzio, la gioia più cara di quelli che amano l’arte.

Non hanno fatto molto rumore, com’è naturale. Sono momenti troppo puri, e anche troppo radi, per fare effetto sul pubblico; sul quale per esempio facevano assai più colpo i vicini, le tirate di Papini o i giochi verbali di Marinetti; Soffici veniva per ultimo, con una figura di stravaganza e neanche molto rilevata. La personalità di questo scrittore è troppo scoperta nei difetti e nei pregi, che non fanno un corpo verisimile; e quella sua felicità disciolta, senza soggetto e senza schema, si presta male anche agli sviluppi dei critici; egli non ha niente che si possa dedurre da un mondo ideale ben architettato; ha qualche cosa bella, che si può soltanto segnare; e bisogna star attenti, che vicino ce n’è delle brutte, e ci vuol poco a sbagliarsi.

Soffici non è nè un’opera, nè un genere: è un dono. Una cosa fluida; un colore schietto; bisogna avere quella certa facoltà nelle pupille per sentire il valore e il piacere di una frase sola, buttata là e che si regge di per sè, trasparente, limpida, solida, senza pasta e senza ritocco; come la pennellata di un vero pittore, che basta che cada sopra una tela, che scorra modellando se stessa, ed è già bella.

La qualità di Soffici è più pittorica che musicale (intendiamoci, senza nessun rapporto col caso che egli dipinge anche certi quadri: parliamo di valori delle parole): si direbbe solo una sensazione, tanto è semplice; si beve tutta con gli occhi, nella sua freschezza; non ha echi interiori nè sbattimenti di intenzioni non dette compiutamente; sopra tutto non è orchestrata, non ha nè dialettica nè contrappunto nè periodo; è quel che è, tutta d’un colpo, senza ombre e senza segreto: ed è intera, nella sua semplicità, non sbavata, non prolissa, ma dura, ferma, sana. Non ha sempre la stessa delizia; ma anche quando non è caduta bene e non prende valore, conserva sempre la stessa semplicità rapida e senza ritorni.

È la sua natura. Non si dice con questo che sia qualche cosa di incosciente o di primitivo; solo nelle ultime prove si è rivelata; e la strada per arrivarci è stata curiosa. Soffici cominciò a scrivere degli stelloncini e delle impressioni parigine sulla Voce, tornando appunto da Parigi, come pittore modernista e pratico di cenacoli e di novità; lasciava cadere quei pezzetti di carta con una bizzarria e sprezzatura di uomo che si può permettere e far perdonare tutto, perchè tanto il suo mestiere è un altro. In realtà ci metteva di molto impegno e sopra tutto uno sfoggio di colorito e di parolette toscane, che finivano a essere assai pedantesche e confondevano l’impressione in un luccichio superficiale. Seguitò poi a scrivere, con più gusto a mano a mano; facendo della polemica e poi della critica d’arte di proposito, e accanto a quella un po’ di tutto, anche della letteratura, delle prefazioni, dei saggi, dei romanzi.

Come tutti gli artisti veri pare che egli si sia dedicato a fare con più passione le cose a cui era meno disposto; lasciamo stare altre cose, ma la critica è stata per un pezzo la sua manìa. Scrisse un libro sopra Rimbaud, per esempio, che tutti i lettori del poeta durano fatica a perdonargli ancor oggi; un libro a cui il problema puramente artistico di quella poesia e di quella sensibilità, non difficile ma rara e concentrata intorno a un punto solo, sfugge completamente; e resta solo un’amplificazione stemperata, una descrizione superficiale ed entusiastica del contenuto. Anche i saggi di traduzione erano, come si dice, fuori di fuoco; falsi, criticamente; ma bei pezzi di prosa un po’ volgare; bozzetti vivaci; a quel modo che anche nella critica d’arte la miglior cosa erano certe descrizioni del quadro o della scultura, non come fattura e valore artistico, ma proprio come soggetto, alla buona maniera antica; paesaggi e figurine e schizzi buttati giù alla brava, con evidenza felice. Qualche bella pagina descrittiva era anche in Lemmonio; ma era quasi sempre bellezza di qualità un po’ inferiore, superficiale; un sapore più facile e piacevole, che personale.

Lo scrittore si mostrò sincero, senza accessori, tutto preso dalla semplicità di un lavoro più modesto d’apparenza, ma più lirico veramente e unito e liscio, in due o tre bozzetti sulla Voce; e trovò poi la sua forma, che per adesso è definitiva, nel Giornale di bordo; cominciato con impressioni di ferrovia, da Firenze a Parigi, e continuando settimanalmente sull’Acerba.

Inutile analizzare questa forma: paragrafi staccati, come fogli di taccuino colla data sopra, del giorno in cui sono stati spiccati, e i segni del luogo, dell’ora: appunti, boutades, riflessioni di lettura, conversazioni di caffè, sfoghi di umore buono o cattivo, strofette malthusiane, frasi o figure colte a volo, effetti di luce, sogni, ricordi: il dialogo con una donna che torna a mente improvvisa, il tramonto che si liquefà nei vetri delle finestre. Soffici non è cambiato: ha sempre le sue abitudini, le sue pose, le sue debolezze. Se la prende con una infinità di mulini a vento; ha la smania delle riflessioni filosofiche, come certi personaggi di Victor Hugo, salvo la brevità e l’arguzia che a lui non manca mai; attacca di gran liti intorno alla critica e al futurismo e alla letteratura accademica, che il più delle volte sono soltanto un esercizio di fiato e di spirito, senza nessun proposito; c’è Croce, per esempio, che gli fa un’ombra terribile; ed è poi il suo maestro, nelle poche idee chiare che è arrivato ad avere sulla critica; tutto questo non supera il livello di una conversazione bizzarra e colorita, ma alquanto mediocre in fondo. E poi ci sono dei tentativi di poesia quasi in versi, molto infelici — Palazzeschi senza il movimento ritmico; ossia, senza più nulla che valga — : ci sono degli idilli e dea dialoghi e delle altre cose oziose. Ma infine viene il momento in cui Soffici esce dalla brigata e se ne va per il mondo; se ne va per il giardino granducale, o sulla spiaggia del mare lascivo, o sotto la pioggia di aprile: guarda una vacca che va al toro, o dei paperi che pescano nel loto, Monte Morello sotto la luna, o le nozze di due lumache; entra in un caffè, s’indugia dinanzi le vetrine coi nastri e le sete nella lissa luce elettrica; ricorda una donna, una sera, un fior di magnolia: o mette dei giacinti in un bicchier d’acqua. Scrive queste cose ed è una festa.

È inutile far delle riserve e delle attenuazioni. Si sa bene; non è un artista intero; gli manca l’analisi che è la seconda vita delle impressioni; è sincero ma non profondo nelle sue riflessioni, che son piuttosto lampi e rughe lievi, civetterie, o movimenti elementari di tristezza e d’umore. Gli manca sopra tutto la potenza di leggere dentro le anime e di crear persone salde, secondo la sua volontà: tutta una parte del suo giornale, che si attarda in episodi e dialoghi d’amore, in osservazioni o massime d’esperienza morale, suona un po’ vuota e monotona; le battute del dialogo son pronte, ma non formano persona agli interlocutori; è una voce sola che parla, sempre Soffici, e la donna non si sente: l’uomo non ha la perfidia psicologica che è necessaria per conversare con l’essere ambiguo.

Si può anche aggiungere che in quella forma del giornale c’è un po’ di trucco; un effetto di prospettiva, per via degli spazi tra un frammento e l’altro, e di quella sospensione che continua gli echi nel vuoto; e poi la bellezza schietta di una qualunque impressione in sè è aumentata dalla curiosità del giornale, che mostra la vita di una persona reale — il «fatto vero» che cercavamo ila bambini nei primi romanzi — che lega in un modo così strano e così caro il sentimento dell’uomo alla particolarità fuggitiva dell’istante, al colore dell’aria e del tempo; tutti conoscono l’effetto quasi di fascino che hanno le note di paesaggio, di ora o di luce, trovate in una vecchia lettera: e tutti conoscono anche il senso di meraviglia che ci fanno sempre nella storia letteraria certi pezzi di lavoro non finito, «à bàtons rompus», certe note quasi intime, siano gli appunti di D’Annunzio per il Canto Novo, o i cenni di idilli e l’abbozzo di romanzo in Leopardi, o lo schema di una novella in Flaubert; che si giurerebbe a prima lettura che tutta l’altra opera espressa e perfetta dello scrittore non aggiunge la bellezza di quelle cose non finite di dire: ed è un’illusione, come quella dei geni mancati.

Infine, Soffici ha dei momenti in cui ci dà la prova che nella nostra soddisfazione c’era qualche cosa di gratuito, prestato da noi: il suo potere è più semplice e limitato. Questo si vede nei tentativi di musica ossia poesia in versi, e anche nei punti dove gli vien fatto di ricordarsi il lavoro altrui: per esempio, la maniera di Renard, che pur ha qualche cosa di comune con lui, nella semplicità delle parole definitive; ma la semplicità di Renard è riflessa, e può passare dal pittoresco all’ironico; invece Soffici non può tentar di aggiungere una moralità ai suoi idilli, senza riuscir goffo. Soffici non ha altro principio letterario che il gusto della parola artistica, ed è capace di coglierla anche in bocca a un contadino, col sentimento quasi di un purista; del resto ha letto i francesi, e li legge ancora forse; ina non se ne ricorda quando scrive. È tutto d’un pezzo, paesano e semplice in questo; fa pensare a una figura ulivigna e un po’ nodosa, ma schietta; come un vecchio intaglio toscano in legno liscio e bruno.

È tanto schietto che si scorda in un momento anche le sue pose di futurismo e di cinismo e fa del sentimento come tutti gli uomini quando son soli; e incontra per la campagna satiri e fauni con una ingenuità di scolaro del ginnasio; oppure con delle parole in libertà compone una passeggiata limpida e ordinata come un disegno classico.

Insomma, è un artista; e non importa prendergli la misura della grandezza.

È uno per cui le parole non solo esistono; ma vivono: sono una gioia e un desiderio, che si esprime tutto, con la sobrietà, felice dei classici; dei quali non sai dire quanto sian profondi, perchè son belli. Anche lui lo sa, nella sua febbre quieta.

«Posar le parole come il pittore i colori e vedere il mondo spiegarsi nel suo splendore.

«Il cielo — Un segno sul foglio e si senta per sempre quest’onda melodiosa di azzurro sulla mia testa, quegli strappi di luce sulle montagne lontane, fra i rami nudi dei pioppi. Questo profondo e limpido mistero sulle cose.

«L’acqua — E, coli l’Ombrone verde, ghiaccio, frettoloso, accanto a me, fra le due sponde rapate....».

Ecco Soffici.

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