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ALCESTE D'EURIPIDE
Versione postuma di Vittorio Alfieri T. l. pag. 155. Edizione che porta la data di Londra 1804.
ATTO TERZO
SCENA SESTA
feréo, adméto, coro.
Feréo.
A travagliarmi ne'tuoi mali, o. figlio,
Men vengo. Or tu, saggia e valente sposa
(Chi'l niegheria?) perdesti: eppur, quest'anco
Di sopportar ti è forza, abbenchè duro
Insopportabil sia. Ricevi or dunque
Questi ornamenti a seppellirsi eletti:
Vuolsen fregiare il costei corpo: è dessa,
Che pur morì per darti vita, o figlio;
Che me non volle di mia prole orbato
Veder marcire in lúgubre vecchiaja;
Che al sesso tutto immensa laude, in somma,
Recava, osando questa egregia impresa. -
O tu, che a me questo mio pegno hai salvo,
Che noi cadenti rialzasti, ah mite
Omai ti accolga di Pluton la reggia!
Nozze eran queste; io 'l dico: e all'uom ben giova
O tali, o niune, celebrarne.
Adméto.
A queste
Esequie tu, non invitato, or vieni:
Nè dirò, che il vederviti mi aggradi.
Niun de' tuoi doni sarà mai, che adorni
Costei, che nulla al seppellirsi ha d’uopo
Aver da te. Tu, condolerti allora
Ch'io per morire stavami, dovevi.
Ma allor tu assente, i giovani lasciavi,
Tu attempato, morirsene: ed or questa
Tu piangeresti estinta? Ah, no, non eri
Vero mio padre tu; nè madre, quella
Che pur di aver me dato in luce ha fama.
Di servil sangue io nato, il non mio latte
Dalla consorte tua succhiai furtivo.
Ti mostrasti qual t'eri; e a te non figlio
Io mi professo. In timidezza, hai vinto
Ogni uomo tu; che d'anni carco, e all'orlo
Già del sepolcro, pur morir pel figlio,
Nè volesti, nè osasti. A morte andarne
Bensì lasciaste questa estrania donna:
Straniera, è ver, di sangue; ma, di affetti
Sola mia degna e genitrice e padre.
Eppur di egregia gara avevi palma,
Se tu morivi pel tuo figlio. Un breve
Avanzo di tua vita ricomprava
La vita intera di costei: nè in pianto
I'mi vivria di tal consorte orbato.
Felice al tutto, quanto altr'uom giammai
Vissuto t'eri: Re da' tuoi primi anni,
Me figlio erede del tuo regno avevi;
Nè, morendo, lasciavi orfana casa
Da lacerarsi infra straniere genti.
Nè dir potrai, che abbandonato a Morte
Mi avessi tu, perch'io spregiare osassi
Mai la vecchiezza tua: ch’anzi tu spesso,
E la madre anco, laude a me non lieve
Piaceavi dar pel riverente mio
Vero amoroso filíal contegno.
A procrearti nuovi figli or dunque
Più non indugia omai: quelli nudrirti
Denno in vecchiezza; quelli il morto tuo
Corpo adornare e seppellir; non io:
Questa mia man non ti darà mai tomba.
Morto io son, quanto a te: che s'io pur miro
La luce ancor, di chi me la serbava
Dico esser figlio, e di sua vecchia etade
Esser l’amato nutritore. Indarno
Vituperando e la vecchiaja e il lungo
Tempo del viver loro, i vecchi in detti
Braman morir; ma, se Morte si appressa,
Più non è grave a lor vecchiezza, a niuno
Più vuol morire.
Coro.
Or, deh, cessate: è troppo
Già per se stessa la presente angoscia:
Perchè inasprir, tu figlio, il cor del padre?
Feréo.
Figlio, insanisci? alcun tuo compro schiava
Di Lidia o Frigia, malmenar ti estími?
Tessalo, e nato di Tessalio padre,
E schietto liber' uom son io; nol sai?
Troppo arroganti giovanili detti
In me tu scagli; nè impunito andrai.
Te generato di mia casa erede
Ebbi, e tal ti educai: ma ingiusta legge
Nel divenirti io padre accettai forse,
Di morir io per te? Fra' Greci ignota
Usanza ell'è, morir pe' figli i padri.
Felice, o no, nascevi tu a te stesso:
E da noi, quanto aver dovevi, avesti.
Tu in somma regni, e in ampio regno; e vaste
Possession ti lascerò pur io;
Che tante a me lasciò 'l mio padre. Or dunque
In che ti offesi io mai? di che ti scevro?
Non per me tu, nè morir io pur deggio
Per te giammai. Del Sole almo la vista
Giovati? e credi al genitor non giovi?
Lungo è l'Orco pur troppo; il viver, breve;
Ma dolce in un: tu il sai, che incontro a Morte
Battagliasti pur tanto, e rossor nullo
Di viver oltre al tuo giorno prefisso
Prendeati; e, spenta la tua moglie, or vivi.
E me poi tu di timidezza accusi,
Tu vinto, o timidissimo, da Donna,
Che in tua vece moria: leggiadro in vero
Garzoncellino! E il ritrovato è astuto;
Per non morir tu mai, l’indurre ognora
Qual ti abbi moglie a dar per te sua vita.
E gli amici, che in ciò ti ricusaro,
Rampogni poi, sendo peggior tu stesso.
Taci: e pensa, che cara ogni uom la sua
Tien, qual tu la tua vita: onde, se oltraggi
A me dirai, molti ne udrai più veri.
Coro.
Ed ora, e dianzi, già sen disser troppi.
Dunque, tu antiquo, il tuo figliuol non vogli
Punger più omai.
Adméto.
Di' pur, poich'io già dissi:
Ma, se il ver duolti, non dovevi or primo
Fallire in me.
Feréo.
Fallo ben altro il mio
Era, s'io mai per te moriami.
Adméto.
Forse
Pari è il morir, giovane o vecchio?
Feréo.
In una,
Non in du'alme, vivere l’uom debbe.
Adméto.
Vorresti, il veggo, più invecchiar che Giove.
Feréo.
Tuoi genitor tu, non offeso, oltraggi?
Adméto
Il viver lungo è a te diletto, il sento.
Feréo.
Ma, di te stesso in vece, or non sotterri
Il costei corpo tu?
Adméto.
Trofei son questi,
O timidissim'uom, di tua viltade.
Feréo.
Che uccisa io l'abbia, noi dirai tu al certo.
Adméto.
Deh, possa tu, quando che sia, di questo
Tuo figlio aver pur d'uopo!
Feréo.
Abbiti in copia
Mogli, ond’elle per te muojano in copia.
Adméto.
Di ciò tu adonti; e n'hai ben donde: amasti 1
Il viver tu; donna spregiollo.
Feréo.
È dolce
Quest'alma luce del Dio Febo, è dolce.
Adméto
Indole trista, e non virile, or mostri.
Feréo.
E in sotterrar tu il vecchiarello, forse
Non rideresti?
Adméto
E sì morrai tu pure,
Ma morrai senza gloria.
Feréo.
A me non cale,
Morto ch'io son, che che si dica.
Adméto
Ahi quanto
Colma pur d’impudenza è la vecchiezza!
Feréo.
Non impudente la infelice Alceste
Ti si mostrava, ma demente.
Adméto.
Or vanne;
E questo corpo seppellir mi lascia.
Feréo.
Men vo. Ben dei tu seppellirla; uccisa
L'hai tu per certo: e il fio ne pagherai
A'suoi parenti, tu. Che d’uom non merta
Il nome Acasto, ah no, se in te vendetta
Non fa del sangue dell’uccisa suora.
Adméto.
Male a te stesso, e alla tua moglie, accada:
Qual vi si debbe, orbi invecchiate entrambi,
Benché pur vivo abbiate il figlio. E in fatti,
Meco mai più, mai non daravvi albergo
Un tetto istesso. Itene omai. Deh, fosse
Lecito pur degli Avi tuoi la casa
Farti interdir dal Banditore! al certo
Io la t'interdirei, Ma noi frattanto,
Poiché il subir questa sventura è forza,
Andianne: abbiasi il rogo il morto corpo.
ALCESTE SECONDA
Opera parimenti postuma, pag. 235. Tomo ed Edizione citata.
SCENA SECONDA
feréo, alceste, adméto, coro, e figli
d'adméto.
Alceste.
Vieni, o padre, tu pure; a noi ti appressa;
Mira il tuo figlio misero, cui manca
E voce e senso e lena. Or per lui tremo;
E lasciarlo, pur deggio. Al di lui fianco
Tu starai sempre, osservator severo
D’ogni suo moto. - Io taccio: omai compiuto
Quasi è del tutto il sagrificio mio.
Feréo.
Figlio, abbracciami: volgi, al padre volgi
Deh tu gli sguardi.
Adméto.
Al padre? e il sei tu forse?
Feréo.
Oh ciel, che ascolto! e nol sei tu pur anco?
Adméto.
Io 'l fui; ma nulla omai più son: la vista
Dei già miei figli emmi dolor: la tua,
Più assai che duol mi desta ira, o Feréo.
Feréo.
Così mi parli? e neppur più mi appelli
Col nome almen di padre?
Alceste.
Oimè, quali odo
Dalle labbra d’Adméto snaturati
Detti non suoi!
Adméto.
Ben miei, ben giusti or sono
Questi accenti, in cui m’è proromper forza.
Or, non sei tu, Feréo, nol sei tu solo,
L'empia cagion d’ogni mio orribil danno?
Tu, mal mio grado, a viva forza, in Delfo
Mandavi per l’oracolo; mentr'io,
Presago quasi del funesto dono,
Che mi farian gli Dei, vietando andava
Che in guisa niuna il lor volere in luce
Trar si dovesse. Io, vinto allor dal morbo,
Al Destin rassegnatomi, diviso
Per lo più da me stesso, iva a gran passi
Senza pure avvedermene alla tomba;
Perchè ritrarmen tu?. . .
Feréo.
Dunque a delitto
Or tu mi ascrivi l'amor mio paterno?
E in ciò ti offesi? Ah, figlio! e il potev’io,
In sul vigor degli anni tuoi vederti
Perire, e non tentar io per salvarti
Tutti e gli umani ed i celesti mezzi?
Adméto.
E mi hai tu salvo, col tuo oracol crudo?
Non mi morrò fors'io pur anco? e morte
Ben altramente dispietata orrenda
La mia sarà. Ma, il dì che pur giungea
La risposta fatai di Delfo, or dimmi,
In qual guisa, perchè gli avidi orecchi
Della mia Alceste anzi che i tuoi la udirò?
Perchè, se pur dovuta ell'era all'Orco
Una spontanea vittima in mia vece,
Perchè tu primo, or di', perchè tu solo,
Che tanto amor per l’unico tuo figlio
Aver ti vanti, allor perchè non eri
Presto a redimer con la vita tua
Il mio morire tu?
Alceste.
Sposo, e tu farti
Minor pur tanto di te stesso or osi
Con cotai sensi? ad empia ira trascorri
Contro al tuo padre tu? di chi ti dava
La vita un dì, tu chieder, tu bramare
Duramente la morte?
Feréo.
Oh figlio! acerba
Emmi bensì, ma non del tutto ingiusta
Or la rampogna tua: benché tu appieno
Non sappi, no, ciò che ad Alceste è noto.
Essa dirtel potria, quanta e qual arte
Per deludermi usasse, indi furarmi
L’onor di dar per te mia vita.
Alceste.
Adméto,
Il puro vero ei dice. Io fui, che prima
Intercettai l'oracolo: poi tutte
Preoccupar dell’adempirlo io seppi
Scaltramente le vie: chiaro pur troppo
Era, che a me sì generoso incarco
Spettava; ed io l'assunsi: ogni amor cede
A quel di sposa. Il punto stesso, in cui
Seppi che andarne in contraccambio a Stige
L'uno tra noi, per te sottrarne, er'uopo;
Quel punto stesso udìa l'alto mio giuro
Di scender per te a Stige. Era in mia mano
Da quel punto il salvarti; altrui non chiesi
Ciò che potea, voleva, e doveva io.
Feréo.
Or qui far pompa di maggior virtude,
Ch'io non m'avessi, Adméto, non mi udrai.
Qual io per te nudrissi affetto in seno,
Unico figlio mio, senza ch'io 'l dica,
Tu il sai: tel dice l'affidato scettro,
Ch'io spontaneo lasciavati anzi tempo
In mia verde vecchiaja. Annichilato
Fu da me stesso il mio poter, per farti
(Me vivo pur) Re di Tessaglia e mio.
Prova era questa, credilo, cui niuna
Pareggia; e non men pento, ed in vederti
Adorato dai sudditi, son pago.
Vinto in me dunque il Re dal padre, acchiusa
Nella tua gloria ogni mia gloria ell'era.
Io, d’ogni stolta ambizíon disgombro,
Privata vita alla consorte accanto
Traea felice. E qui, non niegherotti,
Nè arrossirò nel dirtelo, che dolce
M'era ancor molto il viver, ch'io divido
Or già tanti anni con sì amata donna,
Con la tua egregia venerabil madre:
Specchio è dell’alma mia; per essa io vivo,
E in essa vivo.
Coro.
Oh puro cuore! oh rara
Virtude!
Feréo.
Adméto, quell'affetto istesso,
Ch'or disperatamente ebbeti spinto
Ad oltraggiare il padre tuo; lo stesso
Affetto di marito, in me non scemo
Dal gel degli anni, mi avria tolto forse
Quel coraggio sublime, onde trionfa
Or la tua Alceste d’ogni maschio petto.
Per te morir non mi attentava io forse,
La mia donna lasciando: ma, se due,
D’una in vece, dovute erano a Pluto
Le vittime; se in sorte alla cadente
Moglie mia fida il natural morire
Toccato fosse; ah, nè un istante allora
Io stava in dubbio di seguirla, io sciolto
Allor da tutti i vincoli di vita.
Non così, no, quand'io dovuto avessi
Quella compagna mia di tanti lustri
Abbandonare, in tale etade, in tale
Egro stato, a se stessa, alla funesta
Solitaria vecchiezza. Oh cielo! un fero
Brivido a me correa dentro ogni vena,
Solo in pensarlo. Eppur, io per salvarti,
Diletto figlio mio, (se a me giungea
Pria che ad essa l’oracolo) io data
Avrei pur anco a così immenso costo
Per te la vita mia: ne attesto il Cielo;
E la tua Alceste attesto, che primiera
A me recò l’oracolo, e i veraci
Sensi scoprì del mio dolore.
Alceste.
Io sola,
(E con qual arte!) io l'ingannava, e tolto
Gli era da me il morire.
Adméto.
Oh sposa! oh padre!
D’uopo a te no, non eran or cotanti
E si cocenti sviscerati detti,
Con cui tu il cor mi trapassasti in mille
Guise tremende, perchè io a te davanti,
Pien di vergogna e di rimorso e d’alta
Inesplicabil doglia, muto stessi.
S'io t'oltraggiai, fuor di mio senno il fea,
Per disperata angoscia. - Alceste! Alceste!
Deh quante volte io chiamerotti, e indarno!
Alceste.
Padre, e tu sposo, amati nomi, in breve
Io vi lascio; e per sempre. A voi sian legge
Queste parole mie tutte di pace,
Ch'ultime a voi pronunzio. In te, Feréo,
Come in terso cristallo, traspariva
Or dal tuo dir la inenarrabil pura
Degli affetti di padre e di marito
Sacra dolcezza: e tu pur anco, Adméto,
Padre e marito sei, ma in un sei figlio;
Sacri a te sempre i genitori entrambi
Sieno; e la destra tua, pegno or mi sia,
Che tu vivrai pe' figli nostri. A un tempo
Dall'adorata tua sposa ricevi
Alfin l'amplesso estremo.
Adméto.
E in quest'amplesso,
Sarà ver ch'io non spiri?. . .
Alceste.
Amiche Donne,
Spiccate or voi con dolce forza, io 'l voglio,
Da me quest’infelice, e con lui pure,
Questi teneri figli. Addio, miei figli. -
Tutto è compiuto ornai. Feréo, tua cura
Fia di vegliar sul misero mio sposo,
Nè abbandonarlo mai.
Eumelo. 2
Deh, dolce madre,
Tu ci abbandoni! e ci han da te disgiunti?
Feréo.
Tolta a noi tutti oggi favella ha il pianto.
Adméto, oimè, più di lei semivivo,
D’ogni senso è smarrito. Ancor più lunge
Strasciniamolo, o Donne; al tutto fuori
Della vista d'Alceste.
Alceste.
O voi, fidate
Ancelle mie, prestatemi ancor questo
Pietoso ufficio: in queto atto pudico
Da voi composte alla morte imminente
Sian queste membra torpide. . .
- ↑ Il Testo dice soltanto: Questo etti disdoro; poichè tu non volesti morire. Si sono aggiunte quelle poche parole, per meglio spiegare qual fosse il disdoro.
- ↑ Rivolgendosi addietro.