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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1834
LI PARAFURMINI.1
Tenételi da conto sti puntali
De ferro inarberati a ’ggni cantone!
Come si2 anticamente, sor cojjone,
Nun usassino3 ar monno temporali.
Avete tempo d’inventà invenzione:
Li fraggelli de Ddio so’ ssempre uguali.
E lo sperà cche un furmine nun cali
Pe’ uno spido,4 è un mancà dde riliggione.
Li veri parafurmini cristiani
Pe’ trattené pper aria le saette
E ccaccià vvia li furmini lontani,
Nun zo’5 mmica sti ferri da carzette,
Ma ssò li campanelli loretani,6
Le campane, e le parme7 bbenedette.
28 maggio 1834
- ↑ [v. sullo stesso argomento, e collo stesso titolo, il sonetto dell'11 nov. 32.]
- ↑ Se.
- ↑ Non usassero.
- ↑ Per uno spiedo.
- ↑ Non sono.
- ↑ Nel maggior furore delle tempeste sogliono le pie donne cavare un braccio fuori della finestra, agitando nell’aria un campanelluzzo, stropicciato già sulla sacra scodella della Santa Casa di Loreto. La procella allora, dopo fatto il suo corso, cessa e ridà luogo alla serenità.
- ↑ Palme. Sono per lo più ramuscelli di ulivo. [Che si benedicono la domenica che precede quella di Pasqua di Resurrezione, e si mettono a capo del letto, e anche fuori delle finestre per tutelare la casa dai fulmini.]
Note
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