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FRAMMENTI
I
1
La gentil donna, che da questa figlia
del duca Araon non torce gli occhi punto,
di stupor piena e d’alta maraviglia
di tal valor a tal beltá congiunto,
e che la vede star con meste ciglia
piú che se ’l padre avesse ivi defunto,
con lei di molte e varie cose parla
e studia piú che può di ricrearla.
2
Or le ragiona de la sua regina,
le cui bellezze essalta e mette in cielo;
or de la patria sua, la cui marina
dal verno è stretta in sin al fondo in gelo,
e piú di cento miglia ne declina
di lá da le fredde Orse il parallelo;
e quando lascia il sol del Tauro il corno,
v’ha per tre mesi o piú continuo giorno.
3
Or le dice degli eruli ch’uscîro
di quel paese ed occuparon quanto
di terra abbraccia col suo largo giro
il gran Danubio in l’uno e in l’altro canto,
a cui li longobardi giá ubidîro
cedendo lor de l’arme il pregio e ’l vanto.
Or de lo scudo d’òr le fa parole,
che seco porta e ciò che far ne vuole.
4
Che non per altro effetto che per darlo
al re di Francia, in Francia era mandata,
con patto che l’avesse a donar Carlo
al miglior cavallier di sua brigata;
e poi soggiunse che volea mostrarlo
a lei, che ben tal vista avrebbe grata,
perch’era lo piú ricco e bel lavoro
che mai con smalto alcun facesse in oro.
5
E che da vecchi e savi chierci avea
udito dir che la savia Sibilla,
ch’abitò a Cume e fu detta cumea,
formò lo scudo all’infernal favilla,
nel tempo ch’a Silvestro dar volea
Costantino a guardar quella gran villa;
villa dirò, ch’allor villa divenne
la cittá che del mondo il scettro tenne.
6
Dicea la donna: — Quando ebbe disegno
Costantin di lasciar Italia e Roma,
venir in Grecia e far capo del regno
quella cittá ch’ancor da lui si noma,
molti lo giudicâr di poco ingegno,
e ch’avesse il cervel sopra la chioma;
pur, come sempre a’ gran signori accade,
gli osavan pochi dir la veritade.
7
E discorrendo alcuni sopra questa
biasmata volontá, giudicio fêro
che saria la ruina manifesta
prima di Roma e poi de l’altro Impero.
Tal gita piú d’ogn’altro ebbe molesta
chi piú d’ogn’altro ne previde il vero,
la Sibilla cumea, la qual ridotta
s’era in quei tempi alla nursina grotta.
8
Su gli aspri monti in una selva folta,
dai lochi ameni ove abitava prima,
si trasse, poi ch’al vero Dio rivolta
s’era la gente quasi in ogni clima
e che l’oblazion si vide tolta
e rimaner inculta e in poca stima;
e fuor d’ogni comercio in quella parte
è di poi stata sempre a far sua arte.
9
Quivi la fama, a cui nulla s’asconde,
penetrando, apportò che Costantino
il seggio imperiail volea da l'onde
del Tebre trasferir presso all’Eussino.
Alla Sibilla fur poco gioconde
queste novelle, che ’l fiero destino
antivedea ch’a Roma dal partire
del stolto imperator dovea seguire.
10
E perché avea per le bell’opre antiche
di Cesari e di Scipii e di Marcelli
le voglie ancor, come ebbe sempre, amiche
all’alto imperio che si accrebber quelli,
va discorrendo come rompa o ’ntriche
le fila ordite e, in somma, far vedelli
disegna le ruine e i gravi danni
ch’avea Italia a patir ne’ futuri anni.
11
E via piú che de l’altra Italia tutta
la gran cittá, del mondo allor regina,
che molte e molte volte a patir brutta
e fiera strage avrá foco e ruina;
ch’ora sará da vandali distrutta,
or da goti, or da gente saracina,
or da gli unni e molt’altri populi empi,
de’ quali il nome oscuro era in que’ tempi.
12
Il dotto e savio chierco, da chi detta
mi fu l’istoria (ché ben n’era instrutto),
dicea che la Sibilla, acciò perfetta
notizia avesse Costantin del tutto,
fece dodici scudi far in fretta,
in ciascun de li quali avea ridutto
lo spazio di cent’anni: io voglio dire
ciò ch’in cent’anni Italia avea a patire.
13
Fra mille e ducent’anni ciò che debbe
patir Italia nei dodici scudi
dipinse la Sibilla, a cui ne ’ncrebbe,
e tutte v’adoprò l’arte e li studi;
e poi ch’al bel lavor dato fin ebbe,
rimesse i fuochi, i martelli e l’incudi,
dove sudâr Vulcani e Piragmoni,
Steropi e Bronti e cento altri demòni.
14
Li scudi un giorno, senza comparire
il portator, suspesi in Roma al muro
di Lateran, quand’alla messa uscire
volea l’imperator, veduti fûro;
il qual mirolli, e quanto avea a seguire
de la partita sua non gli fu oscuro;
ché per note minute, oltra il dipinto,
di tempo in tempo il tutto era distinto.
15
Le guerre che in Italia dovean farsi,
tutte vi si vedean come giá fatte:
ombri, piceni, insubri, appuli o marsi,
morti e captivi e le cittá disfatte;
Roma presa più volte e li templi arsi
e l’alte moli, e non mai più rifatte,
da gente strane, ch’a quei tempi, come
giá detto v’ho, non pur si sapea il nome.
16
Questo mirando Costantin fu alquanto
fra voler ire o rimaner suspeso;
ma li maligni chierci, che giá quanto
era util lor ch’andasse avean compreso
(però che quanto egli lasciava tanto
da lor sarebbe in pochi giorni preso)
creder gli fêr che tutte illusioni
erano false ed opre di demòni.
17
Li quali, per turbare il ben, la pace,
la maestá e la gloria de l’impero,
s’aveano imaginato con mendace
spavento di mutarlo di pensiero.
Cosí l’imperator da la fallace
suasion del tralignato clero,
in Grecia transferí il seggio romano,
lasciando i scudi al tempio Laterano.
18
Volgendo gli anni poi successe quello
che fu pur ver, senza mancarne dramma;
che Alarico e poi Totila, flagello
detto di Dio, diè Roma a sacco e a fiamma;
e i scudi appresso all’altro arnese bello
in preda andâr, né se ne salvò lamina,
fuor che d’un sol, che non fusse disfatta
indi in moneta e in altro uso ritratta.
19
Questo ch’in esser suo primo rimase,
forse il più bello, il crudel re de’ goti
mandò da Roma alle paterne case,
ai liti del mar balteo sií remoti,
col qual i gran successi persuase
ch’ancor per fama ben non eran noti,
che la superba Italia aveva doma
e presa ed arsa e saccheggiata Roma.
20
Galeotto lo Brun, ch’era a’ di suoi
il maggior cavallier ch’al mondo fusse,
che l'isole lontane e li Stenoi
col nostro regno al scettro suo ridusse,
si fe’ signor di questo scudo, poi
ch’un re de’ goti di sua man percusse,
percusse e messe a morte, indi portollo
seco in Islanda, ove al morir lasciollo.
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