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Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1929)
Antichità
Questo testo fa parte della raccolta Poemi (Esiodo)

LO SCUDO DI ERCOLE











     O come1, abbandonate le case e la terra paterna,
seguendo Anfitrïóne possente guerriero, la figlia
d’Elettrïóne venne, pastore di popoli, a Tebe.
Essa brillava su tutta la molle feminea stirpe,
5di forma, di statura fra quante mortali ai Celesti
diedero figlie, nessuna con lei contendeva di senno:
a lei dal capo giú, dalla chioma cerulëa bruna,
spirava un’aura, come da Cípride. l’aurëa Diva.
E tanto ella in cuor suo venerava lo sposo diletto,
10quanto nessuna mai l’onorò delle tenere donne,
sebbene ucciso il padre le aveva, ché in pugna lo vinse,
ch’era adirato pei bovi. Fuggiasco dal suolo paterno,
a Tebe venne, e volse la prece ai Cadmèi valorosi.
E can la casta sposa quivi egli abitava, ma privo
15del genïale amore: ché ascendere il letto d’Alcmèna
dai bei malleoli, gli era conteso, se pria non avesse
tratta vendetta dello sterminio dei prodi fratelli
della sua sposa, ed arse coi fuoco che tutto distrugge,
dei Telebòi, dei Tasi, prodissimi eroi, le borgate.
20Tale il destino suo: ne furon gli Dei testimoni.
Ed ei, l’ira dei Numi temendo, a compir s’affrettava,
quanto poteva piú, la gran gesta prescritta da Giove.
Ed i Beoti con lui, bramosi di pugne e di zuffe,
usi a sferzare cavalli, terribili sotto i palvesi,

25e i Locri, usi a combatter da presso, ed i prodi Focesi,
seguiano: era signore di questi il figliuolo d’Alcèo,
fiero dei popoli suoi. Ma degli uomini il padre e dei Numi
altro consiglio volgeva: volea generar contro il male,
pei Numi e pei mortali che cibano pane, uno schermo.
30E dall’Olimpo balzò, macchinando nel cuore un inganno,
di notte, ché bramava l’amor della donna elegante.
A Tifaóne presto pervenne, ed ancora movendo,
giunse alla vetta più alta del Ficio il saggissimo Giove.
E quivi stette, e volse la mente a un’impresa divina:
35ché, nella stessa notte d’Alcmena dall’agil caviglia
il letto ascese Giove, l’amò, sazïò la sua brama.
Ed anche Anfitrïóne, l’eroe condottiero di turbe,
compiuta la gran gesta, tornò quella sera al suo tetto.
Né tra i famigli andò, non andò fra i pastori nei campi,
40ma pria della sua sposa nel talamo venne l’eroe:
tal desiderio ardeva nel cuore al pastore di genti.
Come allorquando un uomo sfuggito a un malanno s’allegra,
quando abbia un grave morbo fuggito, o una dura prigione,
Anfitrïóne cosí, compiuta la dura sua gesta,
45alla sua casa giunse con cuore giocondo e felice.
E giacque con la casta consorte per tutta la notte,
e gioie d’Afrodite godendo, dell’aurëa Diva.
E da un Celeste amata la donna, e da un uomo perfetto,
nella settemplice Tebe die’ a luce due gemini figli.
50Ma l’uno uguale all’altro non eran, sebbene fratelli:
ché l’uno era da meno, di molto migliore era l’altro
figliuolo: Ercole esso era, gagliardo, terribile, invitto.
Questo la donna al figlio di Crono dai nuvoli negri
concetto aveva; ad Anfitrïóne signore di genti
55Ificle: ben diversi rampolli: ché l’uno a un mortale,
e l’altro avea la donna concetto al Signor dei Celesti.

     E questi Cigno uccise, di Marte il magnanimo figlio,
ché lo trovò nel bosco d’Apollo che lungi saetta,
lui con suo padre Marte, che mai non è sazio di guerre,
60chiusi nell’armi, come barbagli di fiamma che arda,
ritti sul carro ambedue: scalpitavano i ratti corsieri,
l’unghie battevano, e intorno bruciava la polvere ad essi,
percossa sotto il carro massiccio ed il pie’ dei cavalli.
Il ben costrutto cocchio squillava, squillavan le ruote,
65correndo due corsieri. Lieto era il fortissimo Cigno,
perché sperava il figlio possente di Giove e l’auriga
uccidere col bronzo, vestirsi dell’armi sue belle.
Ma non l’udí Febo Apollo, mentr’egli pregava: ché invece
accrebbe contro lui a forza del figlio di Giove.
70E tutto quanto il bosco d’Apollo Pegàso e l’altare
riscintillava per l’armi del Nume tremendo e di Cigno,
dagli occhi loro un fuoco fulgeva. Qual mai dei mortali
l’ardire avrebbe avuto di farsi a lui contro, se togli
Ercole, e il suo suo scudiero Iolào? Ma ben grande
75era di quell’eroe la forza, ma invitte le braccia
sopra le membra massicce sporgevan dagli òmeri fuori.
Al suo possente auriga, cosí disse allora, a Iolao
«Iolào, campione a me diletto fra gli uomini tutti,
molto di certo peccò contro i Numi signori d’Olimpo,
80Anfitrïóne, quel dí che a Tebe dal fulgido serto
venne, che avea Tirinto lasciata, la solida rocca,
poscia ch’Elettrïóne, pei bovi cornígeri, uccise.
Lieti lo accolsero quelli, gli diedero quanto era d’uopo,
quanto a un fuggiasco offrire si deve, e gli resero onore.
85E lieto egli vivea con Alcmena sua sposa, dal vago
malleolo. E a luce noi, dopo un breve trascorrere d’anni,
tuo padre ed io venimmo, che d’indole pari e di senno
non eravamo punto: ché il senno a lui tolse il Croníde,
sicché, la casa sua lasciata ed i suoi genitori,

90partí, ché volle un uomo ribaldo onorare, Euristèo.
Lo sciagurato poi dové farne gran pianto, e pentirsi
del fallo suo; ma più revocarlo, possibil non era.
Gravi travagli a me un Démone invece prescrisse.
O mio caro, su via, stringi or tu le purpuree briglie
95dei rapidi corsieni, moltiplica in seno ardire,
il carro e dei veloci corsieri la forza diritto
avventa, e non temere di Marte omicida il frastuono,
che con acute grida va or furïando pel bosco
sacro d’Apollo Febo, del Dio che lontano saetta.
100Sazio dovrà dichiararsi, per quanto sia forte, di guerra».
     E questo a lui lolao, rispose, l’eroe senza pecca:
     «O caro, assai, di certo degli uomini il padre e dei Numi,
assai l’Enosigèo t’onora, che vago è di tori,
che l’alte mura e la rocca di Tebe possiede e protegge:
105tale un mortale, casi gigante, così valoroso,
sotto le mani tue conducon, ché gloria tu n'abbia.
Su' dunque, indossa l' armi di guerra, ché, senza indugiare,
l’uno su l’altro i carri lanciando, di Marte ed il nostro.
si pugni; ei non potrà spaventare il figliuolo di Giove
110senza paura, né d’Ificle il figlio; ma penso che invece
egli fuggire dovrà dai figli del figlio d’Alcèo
che sono presso a lui, che cupidi sono di guerra,
cupidi della zuffa, che a lor grata è piú del banchetto».
     Disse cosí. Sorrise, ché in cuore godeva, la forza
115d’Ercole: tanto a lui tornarono grati quei detti.
E gli rispose, e a lui parlò queste alate parole:
«Iolào, saldo campione nutrito da Giove, non lungi
è l’aspra pugna, e tu, come fosti sin qui valoroso,
Aríone, il gran cavallo dai ceruli crini, anche adesso
120in giro spingi, e più che puoi, dammi aiuto alla pugna».
E, cosí detto, alle gambe d’attorno legò gli schinieri
di lucido oricalco, d’Efèsto bellissimo dono,

i fianchi cinse poi tutto in giro col bel corsaletto
125istorïato, foggiato nell’oro: l’aveva donato
a lui Pàllade Atena, la figlia di Giove, quand’egli
dovea la prima volta provarsi nei duri cimenti.
Poi quel tremendo, il ferro che tiene lontana la morte,
sugli omeri adattò: fissandolo al petto, il turcasso
130concavo, dietro le spalle gittò: dentro v’erano molte
frecce, di muta morte ministre, di brividi orrendi.
In punta avevano esse la morte, stillavano pianto,
erano levigate nel mezzo, lunghissime, e dietro
velate con le piume dell’aquila fulvida negra.
135La lancia indi impugnò, con la punta di lucido bronzo,
orrida, sopra il capo gagliardo una gàlea pose,
istorïata di fregi, infrangibile, adatta alle tempie:
d’Ercole il capo questa schermiva, del figlio di Giove.
Poscia lo scudo, vario d’agèmine, prese; né alcuno
140franto lo avrebbe, ammaccato di colpi: stupore a vederlo.
Ché tutto quanto in giro, di smalto e di candido avorio
riscintillava, e d’oro fulgea tutto quanto e d’elettro.
Un drago, poi da centro spirava indicibile orrore,
che con pupille oblique fissava, e brillava di fuoco;
145e nella bocca una fila correva di candide zanne,
terribili, funeste. Sovr’essa l’orribil sua fronte,
Contesa svolazzava, che gli uomini a guerra schierava,
funerëa, che il cuore, che il senno rapiva ai mortali
che faccia a faccia, contro pugnassero al figlio di Giove.
150Erano ancora qui figurati l’Attacco e la Fuga,
la Strage quivi ardea, lo Strepito ardea, l’Omicidio,
vi furïava il Tumulto, la Rissa, la Parca funesta,
che un uomo or or ferito stringeva, uno illeso, ed un altro
morto, e lo trascinava, ghermitolo al pié, tra la zuffa.
155* L’anime loro, poi, s’immergono sotto la terra,
entro nell’Ade, l’ossa d’intorno alla madida pelle

si putrefanno sul negro terreno alla vampa di Sirio. *
Bruna di sangue umano sugli òmeri aveva una veste,
terribilmente guatava, gridava, strillava a gran voce.
160E, piú che non si dica, terribili, teste di serpi
v’erano, dodici: e in seno spiravan terrore ai mortali
che a faccia a faccia contro movessero al figlio di Giove.
Alto suonava dei denti lo strepito, quando pugnava
d’Anfitrïóne il figlio, mandavano fiamme le insegne.
165Eran varïegati di punti gli orribili draghi:
azzurri sopra il dorso, ma negre parean le mascelle.
E branchi c’eran poi di cinghiali selvaggi e leoni,
che gli uni sopra gli altri gittavano gli occhi furenti,
cupidi, e andavan fitte le loro falangi; né questi
170tremavano né quelli: sul collo, irti i crini ad entrambi.
Ché già spento un immane leone giaceva, ed intorno,
privi di vita due cinghiali, e di sotto stillava
a terra il negro sangue. Cosí, le cervici stroncate,
giacevan dove uccisi li avevan gli orrendi leoni.
175E piú crescea di zuffe la furia e l’émpito, in questi
e in quelli, apri selvaggi, leoni dagli occhi di fuoco.
     C’era la zuffa poi dei Lapíti maestri di lancia,
col re Cenèo, Drianta, Pirítoo, Pròloco, Oplèo,
Falèro, Esòdio, Mopso d’Ampíco figliuol. Titarèsio
180prole di Marte, Tesèo figliuolo d’Egèo, pari ai Numi:
essi d'argento, l’armi che ai fianchi cingevano, d’oro.
Eran dall' altra parte raccolti i Centauri, alla pugna,
intorno al gran Petraio, ad Àsbolo vate d’augelli,
ad Arto, a Urèo dai negri capelli, a Mimante, a Driàlo,
185ai due Peucídi, a Perimedèo: tutti quanti foggiati
eran d’argento, e abeti stringevano d’oro fulgente.
E, fatto impeto insieme, cosí come fossero vivi,
con l’aste e con gli abeti da presso veniano alla pugna.
Ed eran qui di Marte terribile i ratti corsieri,

190d’oro; e lo stesso Marte funesto s’ergea tutto in arme,
che un giavellotto in pugno stringeva, eccitava le turbe,
di sangue tutto brutto, che agli uomini, ritto sul carro,
togliea la vita; e presso gli stavan Terrore e Sgomento,
ch’erano tutti brama d’irrompere in mezzo alla pugna.
195La Tritogenia figlia di Giove, la vaga di prede,
v’era, e sembrava come volesse apprestare la pugna:
ché l’asta e l’elmo d’oro dal triplice ciuffo reggendo,
l’ègida su le spalle, moveva alla cruda battaglia.
      Ed una danza v’era di Súperi, sacra: nel mezzo,
200soavemente il figlio di Lato e di Giove cantava
sopra la cetera d’oro. De Numi la sede, l’Olimpo
v’era, e una piazza, e attorno, corona di Numi infinita
a contemplare una gara. Le Muse Pïèridi, al canto
davan principio, e voci di femmina avevano, acute.
      205Di buon ormeggio un porto, nel pelago senza riparo
effigïato v’era, di stagno purissimo, tondo,
e che ondeggiasse pareva. Nel mezzo, parecchi delfini
guizzavano qua e là, correndo, alla caccia dei pesci.
E nuotatori v’eran: due d’essi sbuffavano l’acqua;
210e innanzi a loro, i pesci fuggivan, foggiati nel bronzo.
Un pescatore sedea su la spiaggia, e spiava, e una rete
da pesci aveva in mano, parea che volesse gittarla.
      Di Dànae chioma bella poi v’era, scolpito nell’oro,
il figlio Pèrseo, e ai piedi cingeva gli alati calzari.
215E non toccava coi pie’ lo scudo, né pur n’era lungi:
gran meraviglia a vederlo, ché punto non v’era poggiato:
con le sue mani così lo costrusse l’insigne Ambidestro,
Dal bàlteo, su le spalle pendeva una spada di bronzo
dai negri fregi: a volo movea, come vanno i pensieri,
220l’eroe. Tutta la schiena copria della Gòrgone il capo,
del mostro orrido; e tutta, stupore a veder, la cingeva
una bisaccia d’argento, svolavano lucide frange

d’oro; e, tremendo, il casco d’Averno stringeva al signore
la fronte; e lo cingeva notturna caligine fosca.
225Ed il figliuol di Dànae, com’uomo che abbrivida e fugge,
si distendeva al corso. Si precipitavan su lui,
insazïabili quanto nessuno può dir, le Gorgòni,
bramose di ghermirlo. Squillava dal pallido ferro,
sottessi i passi loro, lo scudo con alto fracasso,
230tinnulo acuto; e sopra la cintola a ognuna di loro
si svincolavano due dragoni, inarcando le teste,
E lingueggiavano entrambi, nell’ira aguzzavano i denti,
terribilmente guatando. Sovresse le orrende cervici
delle Gorgòni, orrore torcevasi immane. ― Al disopra,
235uomini, d’armi guerriere coperti, pugnavano: questi
che dalla strage schermo facevano ai proprî parenti,
alla città: quegli altri tentavan di metterla a sacco.
Molti giacevano: i piú, capaci tuttor di pugnare,
pugnavano; e sovresse le torri di bronzo, le donne
240si laceravan le gote, levavano acute le grida,
simili a donne vive: ch’Efesto le aveva scolpite.
E gli uomini d’età, che avea già ghermiti vecchiaia,
stavano fuor dalla porta raccolti, ed alzavan le mani
verso i Beati Celesti, temendo pei loro figliuoli.
245Ed alla pugna questi badavano intanto. E le Parche
livide, dietro ad essi, dai candidi denti stridendo,
torve, terribili, tutte coperte di sangue, implacate,
rissa d’intorno ai caduti facevano, cupide tutte
di bere il negro sangue. E quei che ghermissero prima
250già spento, oppur caduto ferito di fresco, su quello
l’immani unghie una d’esse gittava, e lo spirito all’Ade,
al Tartaro cruento scendeva. E quand’eran poi sazie
di sangue umano, dietro di sé lo gittavano, e ancora,
novellamente, correndo, moveano alla strage, al tumulto.
255Cloto e Lachèsi innanzi movevano a tutte. Piú fiacca

Àtropo, e di statura piú bassa, ma d' anni piú grave
era di tutte l’altre, ché prima venuta era al giorno.
Tutte pugnavano a un uomo d’intorno una zuffa crudele,
e l’una contro l’altra volgevano gli occhi furenti,
260l’unghie provavano l’una su l’altra, e le mani rapaci.
E presso a loro stava la querula Ambascia odïosa,
pallida, magra, cascante di fame, e gambe stecchite,
e l’unghie lunghe lunghe sporgean dalle dita: colava
dalle narici moccio, cadevano giú dalle guance
265stille di sangue; ed essa, con grande stridore di denti,
stava, e sugli òmeri suoi si addensava la polvere fitta,
molle di pianto. — E presso, sorgeva una rocca turrita,
da sette porte d’oro difesa, connesse ben salde
dagli architravi. E dentro, le genti, in carole e in festini,
270si sollazzavano. Alcuni, in un carro di rapide ruote,
guidavano allo sposo la sposa. Il sonoro imeneo
volava: in man le ancelle reggevan le fiaccole accese,
ed il fulgore lontano volava. Movevano innanzi
esse, di gioventú fiorenti: seguivano a schiere
275i danzatori. Quelle, dai teneri labbri, al concento
delle sampogne acute levavano il canto, ed intorno
si rifrangeva l’eco. Guidavano al suon delle cetre
quelli l’amabile danza. — Poi giovani, altrove, in tripudio
al suon del flauto, questi godevan di balli e di canti,
280quelli ridevano; e avanti movevano, ognuno seguendo
un suonator di flauto; e danze, piaceri, festini
empievan la città tutta quanta. — Dinanzi alla rocca,
genti ai cavalli in groppa correvano. — Intenti all’aratro
scalzavano i bifolchi, succinte le vesti, la terra
285divina. E c’era un campo di biade, profondo; ed alcuni
con gli affilati falcetti mietevano i calami lunghi
gravi di spighe, onde poi si frange di Dèmetra il dono;
altri in covoni poi le stringevan, battevano l’aia.

E chi pei gran vigneti, dei vendemmiatori, alle ceste
290grappoli bianchi e neri portava, di pampani gravi
tutti, e d’argentei viticci, chi colmi portava i canestri.
Ed una vigna d’oro quivi era, d’Efèsto lo scaltro
opera egregia; e scoteva le foglie sui pali d’argento,
carica tutta quanta di grappoli; e i grappoli, neri.
295E chi pigiava, e chi beveva. — Coi pugni, alla lotta,
si misuravano altri. — Correvano dietro alla lepre i
cacciatori, e cani dai denti crudeli dinanzi:
questi ghermirle, quelle fuggire anelavano. — E presso
avean cavalïeri contesa fatica e travaglio
300per una gara: stavan sui solidi carri, gli aurighi,
lente lasciando le briglie, sferzando i veloci cavalli;
e con gran romba i carri massicci volavano, i mozzi
stridevano alto; e mai non cessava la loro fatica:
ché la vittoria a nessuno rideva, era incerta la gara.
305E nella lizza era esposto il premio d’un tripode grande.
opra d’Efesto, l’artefice scaltro, foggiato nell’oro. —
Correva presso all’orlo l’Ocèano, pareva rigonfio,
e tutto quanto cingeva lo scudo scolpito. E su quello,
cigni per l’aria, con alto clamore volavano, a sommo
altri nuotavan dell’acque, d’intorno scherzavano pesci.
310Era una meraviglia vederlo, sia pure per Giove
sire del tuono, pel cui comando lo scudo massiccio
grande, manevole, Efèsto costrusse. Il figliuolo di Giove
lo palleggiava con mano gagliarda.
                                                                           Balzò sopra il carro,
315che folgore sembrò lanciata dal padre tonante,
con salto agile; e accanto l’auriga gagliardo Iolào
a lui balzò, reggendo le briglie del carro ricurvo.
E venne presso a loro a Diva occhicerula Atena,
infuse in essi fede, con queste veloci parole:
320«O di Lincèo, l’eroe glorïoso progenie, salute.

Giove che impera sui Numi beati, gran gloria v’accorda,
che morte a Cigno diate, che l'armi sue belle indossiate.
E un’altra cosa, o prode fra tutti i mortali, ti dico:
allor che della vita sua dolce avrai Cigno privato,
325lascialo, lascia l’armi sue belle ove cadde; e tu fissa
Marte omicida, mentre s’avanza, ove ignudo lo vegga,
sotto lo scudo ornato: qui vibra l’aguzzo tuo bronzo,
e indietro fatti, poi, ché fato non è che tu possa
predare né cavalli del Nume, né l’armi sue belle.
330Poi ch'ebbe detto cosí, sul cocchio la Dea fra le Dive,
che la vittoria e la gloria reggea nelle mani immortali,
balzò con un gran lancio. Iolao generato da Giove
die', con un grido orrendo, l'aíre ai corsieri; e a quell'urlo,
trassero, empiendo il piano di polvere, il cocchio veloce:
335ché furia in essi infuse la Diva occhicerula Atena,
che l’ègida scoteva: rombava dintorno la terra.
E a un tempo anche moveano, parevano fuoco o procella,
Cigno, l’equestre signore, con Marte mai sazio di pugne,
E, a fronte a fronte gli uni degli altri, d’entrambi i cavalli
340nitriti alti levarono, e l’eco s’effuse d’intorno.
     Ercole invitto disse fra loro le prime parole:
«Perché, stolido Cigno, spingete i veloci cavalli
contro di noi, cosí sperti di pene e travagli? Su via,
fatti in disparte col carro tuo ben levigato, il cammino
345lasciami libero, cedi. Io sono diretto a Trachíne,
presso Ceíce sovrano. Ché questi, col senno e la forza,
regna in Trachíne, bene lo sai da te stesso: ché sposa
hai la sua figlia, tu, Temistònoe dai ceruli cigli.
O stolido, se mai dovessimo a pugna venire,
350neppur Marte da te potrà tener lungi la morte.
Un’altra volta già, ti dico, dové fare prova
della mia lancia, quando, nei pressi di Pilo sabbiosa,
a fronte egli mi stette, per brama implacata di pugna.

Tre volte egli toccò la terra, tre volte colpito
355dalla mia lancia, e forato lo scudo: la quarta, spingendo
di tutta forza, immersi nel femore la cuspide, ruppi
di gran squarcio le carni. Piombò nella polvere prono.
E stette quivi, e segno d’obbrobrio restò pei Celesti,
ché sotto te mie mani lasciò le sue spoglie cruente».
     360Disse cosí. Ma Cigno dall’asta di frassino, ligio
ai detti suoi non fu, rattenere non volle i corsieri;
e rimbombò, mentr’essi movevano, l’ampïa terra.
     Come allorché d’un monte gigante dal vertice estremo
balzano rupi giú, strapiombano l’una su l’altra,
365e assai querce d’eccelso fogliame si spezzano, e pini,
e pioppi dall’eccelse radici, quando esse dall’alto
rotano impetuose, sinché non pervengono al piano:
cosí, con alte grida, piombarono l’uno su l’altro.
E tutta la città di Mirmídone, e l’inclita Iolco,
370ed Ame, con Antèa l’erbosa, e con Elica, un’eco
lunga a quel grido mandò. Piombarono l’uno su l’altro
con ululo infinito. Tuonò fieramente il sagace
figlio di Crono, e versò dal cielo sanguigna rugiada,
per inviare un segno di guerra al magnanimo figlio.
375Come per valli alpestri selvose, terribile un apro,
con le sporgenti zanne compare, anelando la pugna,
piantato obliquamente: la bocca digrigna, la spuma
gocciola giú, le pupille somigliano a fuoco che arda,
irti sui dorso e su la criniera si drizzano i peli:
380simile a questo, il figlio di Giove discese dal carro.
     Erano i dí che la bruna canora cicala, sul ramo
tenero verde, a cantare comincia l’Estate ai mortali,
che solo ha per bevanda, per cibo, la molle rugiada,
e la sua voce effonde dall’alba, sinché dura il giorno,
385nell’afa esosa, quando piú Sirio prosciuga la pelle:
i dí quando le reste compaion sui chicchi del miglio,

ch’è seminato l’està, quando invàiano i grappoli acerbi,
doni di Bromio che gioie comparte ai mortali e tormenti.
Pugnarono in quei dí, della pugna fu grande il fracasso.
390E come due leoni, d’intorno ad un cervo abbattuto,
l’un contro l’altro, furore spirando, si avventano, e orrendo
suona il ruggito loro, lo strepito suona dei denti:
come avvoltoi dall’unghie rapaci, dal becco ricurvo
che sopra un’alta rupe si batton con fiero clangore,
395per una capra alpestre, per una selvatica pingue
cervia, che un giovinetto, vibrando una freccia dall’arco,
trafisse; ed egli poi, dei luoghi inesperto, lontano
andò vagando: quelli la videro súbito, e intorno
impetuosamente le corsero, ad aspro conflitto:
400cosí quelli, gridando, balzarono l’uno su l’altro.
E qui, Cigno, bramoso d’uccidere il figlio di Giove
onnipossente, vibrò sul suo scudo la lancia di bronzo;
né il bronzo si spezzò: ché schermo fe’ l’opra del Nume.
Ercole, invece, il figlio possente d’Anfitrïóne,
405gagliardamente immerse fra l’elmo e lo scudo la lancia,
nel collo, ov’esso ignudo pareva, al disotto del mento.
Il frassino omicida recise l’un tèndine e l’altro,
ché grande era la forza del colpo. E piombò come quercia
piomba, o scoscesa rupe, colpita dal folgor di Giove.
410Cosí piombò: su lui suonarono l’armi di bronzo.
E allora lo lasciò di Giove l’impavido figlio,
ed aspettò guardingo l’arrivo di Marte omicida,
fissandolo con occhi terribili, al par d’un leone
che in una preda s’imbatte, la pelle con l’unghie possenti
415cupidamente gli fende, ne sazia l’ingorda sua brama,
e, sfavillando tremendo negli occhi, le spalle ed i fianchi
coi pié gli scava, e sferza la coda, e nessuno che veda
farglisi contro ardisce, combatter con lui faccia a faccia.
D’Anfitrïone il figlio mai sazio di zuffe, di fronte

420stette a Marte cosí, crescendogli in cuore il coraggio,
impetuoso; e quegli, crucciato, si fece a lui presso;
e con orrende grida, piombarono l’uno su l’altro.
Come allorquando una rupe si stacca da un vertice eccelso,
e con immensi balzi giú rotola, e irrompe furente
425con gran fragore; ed ecco, si oppone al suo corso un gran poggio:
quivi essa cozza; e il poggio l’arresta: con simile romba
balzò, gridando, Marte, flagello dei carri. Ma quello
súbito contro gli stette. E Atena, figliuola di Giove,
contro si fece a Marte, schermita dall’égida fosca,
430e bieco lo guardò, gli volse cosí la parola:
«Marte, trattieni il cuore furente e l’invitto tuo braccio:
perché fato non è che tu Ercole stermini, il figlio
dal temerario cuore di Giove, e che l’armi ne indossi.
Via, dalla zuffa desisti, né starmi di contro a battaglia».
     435Cosí disse; né il cuore superbo di Marte convinse;
ma con grandi urli, armi, che fuoco pareano, vibrando,
rapidamente balzò sopra Ercole forte, anelando
di dargli morte. E a furia — tant’ira l’ardeva pel figlio
spento — dal grande scudo vibrò la sua lancia di bronzo.
440Ma si protese dal carro la Diva dagli occhi azzurrini,
e volse altrove il colpo dell’asta. Ed acuto cordoglio
invase Marte. E fuori traendo l’aguzza sua spada,
contro Ercole balzò, dal cuore magnanimo. E il figlio
d’Anfitrïóne, che mai non fu sazio dell’orrida pugna,
445sotto lo scudo bello, la coscia, ove ignuda appariva,
gagliardamente trafisse, le carni di squarcio profondo
aprí, colpendo, il Nume rovescio mandò per le terre.
Spinsero súbito presso Sgomento e Terrore il veloce
carro e i cavalli, il Dio sollevaron da terra, sul carro
450lo posero, di fregi molteplici ornato, le sferze
vibraron sui cavalli, tornarono ai picchi d’Olimpo.

Ed il figliuolo d’Alcmèna, con Iolào coperto di gloria,
poscia che l’armi belle dagli omeri tolser di Cigno,
partirono; e sul carro veloce pervennero presto
455alla città di Trechíne. E Atena dagli occhi azzurrini
novellamente tornò del padre alla casa, in Olimpo.
E Cice a Cigno diede sepolcro, col popolo immenso
che, intorno alla città dell’illustre sovrano, abitava
Ante, con la città dei Mirmídoni insigne, e Iaòlco
460Elide ed Arne. A onorare Ceíce diletto ai Celesti,
popolo molto s’accolse. Ma poscia invisibili rese
tumulo e tomba, gonfio di piogge invernali, l’Anàuro.
Febo volle cosí, perché Cigno, chiunque recasse
sacre ecatombi a Pito, tendeva l' insidia a predarle.



  1. [p. 281 modifica]Il principio sembra dimostrare che questo brano appartenne alle Eoe, vedi pag. 113. Però non si vede bene come in un poema che trattava principalmente di donne trovasse luogo questo luogo racconto, a cui non si può tribuir carattere di digressione, dell’impresa d’un uomo. Posto adatto vi troverebbe il principio, sino al verso 56.

Note

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