< Lucifero
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Canto decimoquarto
Canto decimoterzo Canto decimoquinto

CANTO DECIMOQUARTO





Argomento.


Saluto di Lucifero al Sole; tra’ raggi del quale rivede l’immagine di Ebe. — Attirato da mirabile forza d’amore l’Eroe si solleva per l’aria; traversa gli spazj, giunge in Venere, si confonde con l’amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell’ultimo giudizio. — I morti d’ogni età e di ogni loco risorgono, e s’innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio. — Rassegna di filosofi; d’istitutori di popoli; di riformatori. — Le vittime domandano vendetta.


    Così moría l’alma implacata. Al Sole,
Che al meriggio splendea limpido e caldo,
Lucifero parlò:
                  — Re della luce,
    Odimi. O sia che il bruno orbe tu chiuda
5Entro un mare di fiamme, onde le negre
Cime dei monti tuoi sorgono, e dànno
Ombre indistinte al tuo nitido aspetto;
O sia che un vel d’opache nubi, amico
Di fulgidi riflessi, e una diffusa
10Sfera di luce e di calor ti avvolga,
Te genitor d’ogni terrena vita
Io chiamerò, quando da te deriva,
O che vegeti immota, o inconscíente
Movasi, o pensi ogni creata forza
15A te le numerate ore d’intorno
Danzano; a te, padre di climi, il fronte
Volge amante di luce ogni pianeta;
E tu, di vita liberal, dispensi

Raggi e sorrisi a qual ti porga il volto,
20E i più miti alla terra. Umile in vista
E ritrosa al tuo sguardo offre ella il grembo
Palpitante a la lunge, e non si attenta,
A par del fuggitivo Èrmete, appresso
Fartisi tanto, che mortal saetta
25L’amoroso tuo raggio a lei diventi.
Tu per propria virtù dal mare insonne
Traggi i vapori, e in nubi atre li addensi,
Che indi, in pioggia disciolte, al vigilato
Solco dan biade e pomi al bosco e nuova
30Freschezza alla vitale aere, da cui
Vigor nuovo di membra all’uom deriva.
Nè i sensibili corpi orni soltanto
In visibile guisa, e ti compiaci
D’apparente beltà, però che in seno
35Scendi a tutti i mortali, e, a quella forma
Che scaldi e svolgi il fecondato seme,
E del tuo sguardo il puro etere allumi,
Desti così nell’ordinata mole
Delle membra il pensier, ch’è de l’eterna
40Ben disposta materia agile alunno.
Qual dalle scarse gelosie d’un chiostro
Libera il guardo al ciel la verginella
Disïosa d’amor, tal dall’oscura
Compagine mortal di nervi e d’ossa
45Si sprigiona l’amante animo, e, tutto
Di te, sovrano genitor, sentendo
L’occulto foco e la natía virtude,
Pei campi dell’eterno essere, in cerca
D’ignote sfere e di negati oggetti,
50Lanciasi, e tanto si dilunga e sorge,
Che par sostanza spirital, che possa
Dagl’involucri suoi viver divisa.
Ma chi dirà, che viver possa il modo

Senza l’obietto, o ver da lui distinto?
55Che fuor della gagliarda arbore viva
L’occulta forza vegetal? Si schiude
Per valor della terra il seppellito
Seme, germoglia, si divide e s’alza
In foglie, in rami; con robusti nodi
60Stringe ed avvinghia la materna zolla,
Respira, ama, s’infiora, infin che un diro
Turbo lo schianti, o avversa scure il tocchi.
Forse quella virtù, che gli diè vita,
Morto lui, fugge altrove, e per sè vive?
65Suono di melodiosa arpa, che il petto
D’indefinita voluttà comprende,
Quando i candidi rai piove la luna
Su le mute campagne, e i sonnolenti
Fiori deliba la fugace orezza,
70Io già non penserò, che per sè solo
Le sonore dell’aria onde commova:
Frangi le corde del gentil strumento,
Tosto il suon cesserà. Simile in questo
È l’uman corpo all’arpa: Amor risveglia,
75Divo maestro d’armonie, le nostre
Facoltà, che nel cor siedon sopite;
E quanto in noi più gentilezza è posta,
Maggiore e più gentil n’esce un accordo
D’affetti e di pensier, d’opre e di accenti.
80O Amor, sole dell’alma, ove io ripensi
Di che alata virtù doni il pensiere,
Scarso e povero assai sembrami il lume,
Che avviva ed orna ogni creato oggetto!
A te, come alla mite alba la schiera
85Dei canori volanti, al nuovo aprile
La famiglia dei fiori, al Sol che torna
Tutte cose universe, alzasi in festa
L’umana vita, e al magistero intende

D’ogni nobile ufficio. Immota e cieca
90Mole sarían le nostre membra, e inerte
Cosa il pensier senza di te: sembiante
A tardo bue, che il travaglioso ordigno
Del volubile bindolo raggira
Tutto il dì, senza posa, e non sa quanto
95Sgorghi tesoro dalla sua fatica.
Ma tu, di libertà padre, fai lieve
Ogni gravezza, ogni umiltà sublimi,
Ogn’inerzia dilegui, e di noi stessi
Conoscenza ne dài piena e sicura.
100Tu dell’etereo Sol, da cui proviene
Quanto è d’uopo alla vita, il più fecondo
Raggio in noi custodisci, ed una al chiaro
Conoscimento, che da lui si nacque,
Un ribelle ne infondi altero istinto,
105Per cui, divino matricida, a fronte
D’essa Natura l’uman genio irrompe
Con fiera sfida, e la tenzona a morte.
O solenni ardimenti, o generose
Pugne e vittorie senza fine, a cui
110Deve l’uomo mortal meno infelice
Vita nel mondo, e sol per cui si eterna!
Sovra la fossa, ov’ei tutto discende,
La memoria di lui sorge, e qual face
Da mille spere riprodotta in giro,
115Entro ai petti degli uomini risplende
Centuplicata, e si perpetua, e in guisa
Vive con noi, che, per superbo inganno,
Vita verace il ricordar si tiene
Ed anima immortal, ch’abiti altrove,
120La memoria che d’altri in noi risiede.
Ma del credulo gregge e dei fallaci
Ciurmadori dell’Arte e di Sofia
Scevre serbate voi le nuove genti,

O Sol, re de la vita, o Amor, sovrano
125Del pensiero mortal; voi della vostra
Pura luce vital fate lavacro
Agli egri petti, e date ala ed acume
A qual dentro l’error cieco si ostina
Siccome talpa sotterranea: ei senta
130Stupefatto ad un’ora il vostro lume,
Mentr’io, già presso al mio tríonfo, a voi
Tendo le palme, e voi propizj invoco! —
    Tal parlava implorando, e il guardo acuto
Più che punta di stral figgea nel volto
135Radíoso del Sol, quando a un sol punto,
O che vero ei mirasse, o che all’ardente
Spirto facesse illusione il senso,
Visto gli venne un portentoso aspetto,
Onde il cor gli balzò. Come nell’ora
140D’un purpureo tramonto, ove più ferve
A piè della Scillèa balza il vorace
Turbo estuoso del latrante mare,
Sorger vede il nocchier vigile un roseo
Fantasima di donna, a cui ghirlanda
145Sono i raggi di cento iridi, e molle
Guanciale il fior delle fioccanti spume;
L’affisa egli ammirando, e, se in quel tempo
Gli sorride nel petto un dolce amore,
L’oggetto dei suoi voti in lei ravvisa;
150Così a fior del fiammante orbe del sole
Nuotar vede l’eroe trepido un’ombra,
Incerta ombra da pria, che umana forma
Man mano assume e leggiadria cotanta,
Che la viva in suo core Ebe gli sembra.
155Esultò giubilando, e in queste alate
Voci si effuse:
                    — Oh! ben t’è stanza il sole,
Ben t’è regno la luce, aurea bellezza,

Che il petto mio vago di luce, imperi!
L’amor mio non sei tu? L’idolo amato
160D’ogni speranza mia? L’ala e la possa
Del mio pensier? Deh! come fausto io deggio
Stimar l’auspicio, che da te mi viene
In quest’ora solenne! Ecco, già sento
Crescer lena al mio spirto; odo la voce
165Della terra e dei secoli, che chiama
Al gran giudizio Iddio! Non altrimenti
Che fosco immaginar d’egro intelletto
Della rosea salute al giovanile
Soffio si sperde, io sperderò le larve,
170Che ne usurpan dei chiari astri la sede:
Tutti i Numi cadranno; al ciel, da cui
Una fiera e tenace ira mi escluse,
Or mi solleva, e trionfante, Amore! —
    Ciò detto appena, una tal forza il prese,
175Che per lo spazio il sollevò, non punto
Dissimigliante a fuscellin, che avversa
Forza di calamita attira e regge;
Se non che, quanto più di contro al sole
Lucifero salía, tanto fra’ biondi
180Raggi del ben veggente astro la bella
Creatura d’amor veníagli appresso.
L’un si lasciava a tergo il montuoso
Arido aspetto della varia luna;
L’altra il denso Cillenio; e già alla vista
185Ridea d’entrambi l’acidalia stella,
Cara sempre ad Amor, sia che tra’ fiori
Del candido mattin splenda, e le piaccia
Di Lucifero il nome, o che tra’ rosei
Vespertini crepuscoli biancheggi
190Dagli amanti invocata, e più le giovi
Che il penoso mortale Espro l’appelli.
Qui s’incontrâr l’alme felici, e un’onda

Di purissima luce e di colori
Si diffuse d’intorno, e parte n’ebbe
195Ciascun pianeta e non minor la terra.
Tal, se indagine umana il ver ne scopre,
Versa tesor di colorati raggi
Sovra i cultori suoi Perseo superbo,
Perseo, che all’alba Galassèa nel grembo,
200Qual trionfante eroe, splendido incede,
E trono e serto ha di due Soli: un, tutto
Fiammeggiante di porpora, vermigli
Dardi per l’aria, a par di Sirio, avventa;
L’altro in un vel di cupo indaco avvolto
205Mestissimo risplende, e d’ambi al raggio
In cento iri d’amor l’aria si frange.
    All’aspetto di lei, luce costante
Del suo pensier, verbo non ebbe o voce
O sospiro l’eroe; sol di quantunque



All’aspetto di lei, luce costante
Del suo pensier, verbo non ebbe o voce
O sospiro l’eroe;

(pag. 279)


210Forza d’amplessi alle sue braccia, e al ciglio
Splendor di sguardo a lui mai diede Amore,
L’abbracciò tutta quanta, e la comprese.
Ella parlò:
                  — Me non la luce, o il cielo,
Ma la terra natía covre e trasforma
215Con benigna virtù: polvere io sono,
E su le membra, che l’amor fioría,
Or l’argentea rugiada educa fiori,
Tra cui l’armoníosa aura susurra.
Però non ammirar, se agli occhi tuoi,
220Siccome un dì, pur tuttavia risplendo
Entro la luce dei miei giovani anni:
Miracolo è d’Amor; palpito e vivo
Immortal vita nel tuo petto, e queste
Forme fiorite, che l’amor mi dona,
225Altro non sono che veder, per cui
L’anima tua pietosamente illude. —

    Con questi detti eran venuti all’auree
Case del Sol, che tutto vede. Agli occhi
Dello stupito eroe di luce nuova
230Balenò la fanciulla, e tanta prese
Parte di lui, che dentro a lui disparve.
Dritto sul fiammeggiante astro egli stette
Con eccelso pensier: fra quel deserto




Dritto sul fiammeggiante astro egli stette
Con eccelso pensier.

(pag. 280)


Vastissimo di luce, immensurata
235Granitica parea mole, che sfidi
La procella dei sordi anni e del cielo.
Dove figge lo sguardo? Al globo estremo,
Che i pensanti mortali alberga e nutre,
Veglian perpetue le sue cure. Orrende
240Cose egli vede in quell’istante: oscure
Carceri e ferri cigolanti e ruote
Stridule sopra a vive ossa e cadenti
Sovra al collo dell’uom nitide scuri
E torbe fiamme crepitanti, ingorde
245D’umane carni e gorgoglianti abissi,
Da cui, fra un vasto popolo di morti,
Pochi, indomiti capi alzansi a guisa
D’incrollabili rupi e di Titani;
E, sopra tutto, galleggiante un’ara
250Lucida ai roghi, e in cima ad essa un muto
Fantasima, che or dorme ed or sogghigna
Villanamente. Fiammeggiò negli occhi
Terribile l’uman Dèmone, e tutto
Dal profondo del cor svegliando il grido,
255Queste all’aure avventò voci supreme:

                — O voi, che nella fossa
            Da tanti anni dormite,
            Vestite i nervi e l’ossa,
            Fuor della morte uscite;
            260Dall’una all’altra riva,

            O morti, in piè levatevi:
            Il gran giudizio arriva!

                Su la temuta scranna,
            Giudice inesorato,

            Morti, voi siete i giudici,
            270Il delinquente è Dio!

                Porgi al vietato sorso,
            Tàntalo, il labbro; scuoti,
            O Encèlado, dal dorso
            Il cupo Etna; dal fondo
            275Dei fiammeggianti inferni,
            Tifèo, balza, e t’allegra:
            L’adamantina Morte
            Spezza del ciel le porte,
            E, spazíando libera
            280Pe’ vani antri superni,
            Fischia, e s’apprende all’egra
            Canizie degli Eterni.

                Novello Bríarèo,
            Bronte novello al grido,
            285La voce alza e la faccia
            Il Pensier numicido;
            E, con più fauste prove
            Che sul campo flegrèo,
            Strozza il mutato Giove
            290Con le sue cento braccia. —

    Disse, e balzâr su dagli avelli i morti
D’ogni età, d’ogni loco. A quella forma
Che noi vediam, quando più ferve agosto,
Sorgere al ciel degli orizzonti in giro
295Sparsi mucchi di nubi, a cui dà il vento
Strani aspetti di mostri e di giganti,
Che arruffando più e più le bianche creste
Sfidan mugghiando il sole: impaurito
Il parco agricoltor guardali, e trema
300Non saettin dal grembo in su’ compiuti
Grappoli il nembo d’una ria gragnuola;
Similmente s’ergean su dall’immensa
Folta alcune preclare Ombre, per cui

Prende ’l cor dei Celesti alto sgomento.
    305Or tu, qual che tu sii, dèmone amico,
Ch’entro al cervello mio semini i forti
Carmi, a cui sol, più che ricchezza o nome,
Fieri conforti alla mia vita io chieggio,
Tu, poi che tanto il ricordar ne giova,
310Le più illustri rammenta, onde non sia,
Chi, nel dì sacro alla ragion del Vero,
Degli eroi del Pensier non sappia i nomi.
    Primi a tutti sorgean quanti fra un cieco
Gregge di paventose anime e l’ombra
315D’insofferenti età la fronte audace
Spinser, chiamando a mortal guerra Iddio:
Sdegnose alme ribelli, a cui stiêr contro
La terra e il ciel, gli uomini e i Numi, e nulla
Fede giovò, nè culto altro che il Vero.
320Duce e signor di questa schiera eletta
Empedocle insorgea, nome e decoro
Dell’antica Agraganto; e a lui da presso,
Come ad avvalorar la sfida antica,
Tu fiammavi tuonando, Etna superbo.
325Salute al foco genitor, salute,
Vecchio vulcano, a te! Fiammeggia e tuona,
Come in quest’ora ch’io ti guardo e canto,
O sepolcro di sofi e di titani;
Tuona, fiammeggia; ed alle sfatte genti,
330Ch’invide o ignare a noi drizzano il dardo
Del meschino epigramma, e ne dàn nome
Di selvatiche stirpi, una favilla
Gitta, in pietà, dell’incorrotte fiamme,
Che bollon nelle tue viscere, e a noi,
335Di lingua no, ma d’alma e di man prodi,
Superbamente ardono il petto: avranno
Forse vergogna di sè stesse allora
Che sentiran dentro alle fiacche vene

Scorrer men pigro e men putrido il sangue!
    340Secondo al saggio agrigentin venía
L’amabil sofo di Gargetto, a cui
Fu scola e Dio la voluttà del bene;
E tu gli eri da canto, austero vate
Della Natura
, alla cui dotta voce
345Scese del Tebro bellicoso in riva
Venere santa, e una divina infuse
Nel tuo petto gagliardo aura di canti.
Seppe allora di Marte il fiero alunno
Delle cose il principio, il mezzo e il fine,
350E maledisse alla feroce e stolta
Religíon, che d’ogni mal feconda,
Potea nel sen della virginea prole
Spingere un padre a insanguinar la mano.
    E già dietro a tal duci impazíente
355Balza Vanini, e contro al ciel si lancia:
Scuro e bieco ei s’inalza, e nugol sembra
Nunziator di procella. Orridi in vista
Gli s’ergean sotto i passi il palco e il rogo,
Ed egli co’ fiammanti occhi tremende
360Cose dicea, ma fieramente muto
Era il suo labbro: ahi! la faconda lingua,
A cui diede Sofia nuovi argomenti,
Mozza gli avea chi dai venali altari
La luce e il detto di Sofia paventa.
365Vien seco il Mantovan, che dall’augusto
Dell’umana Ragion tempio immortale
L’anima e Dio securamente escluse;
E chi pria rubellando il dotto ingegno
All’idolo inconcusso di Stagira,
370Più vasto al pensier nuovo aere dischiuse,
Cui ratto con gagliarda ala discorse
Liberamente il prigionier di Stilo.
O voi del Crati fragoroso opache

Selve, così vi serbi intatte il nembo,
375Proteggete almen voi d’ombre cortesi
Le sacre, inonorate ossa del vostro
Vecchio Telesio! Accanto a lui, che tutto
Splendido in suo candor cheto s’inalza,
Freme e lampeggia il precursor di Nola,
380Dal cui fiero intelletto e dal cui rogo
Tanta infamia ebbe Roma e luce il mondo.
Ma forse il genio mio scorda il tuo nome,
Di Malmèsburi onor
? La tua bizzarra
Fronte, non io maledirò, se assisa
385Sovra il collo ai mortali in ferreo trono
Vedesti, autrice universal, la Forza.
Forse il dritto e il sapere, adamantino
Brando e scudo, di cui s’arma e difende
Per natura chi umano ebbe il sembiante,
390Forza eterna non è? Ben essa al volo
T’armò in tal guisa il prepossente ingegno,
Ch’oltre all’etra sorgendo, al vulgo illuso
Quinci gridasti: Un vuoto nome è Iddio!
Tal dall’Ande selvose al ciel sublime
395Lancia la poderosa ala il condòro,
E le nubi calpesta, ed orgoglioso
Dei voli suoi sfida stridendo i nembi.
    Ecco, appresso a costoro a cui d’intorno
Fa ressa e ondeggia una men chiara folta,
400Rompe un fiero drappello, a cui son duci
Diderotto ed Holbacco, incliti entrambi
Risvegliator di popoli; vien terzo
Elvezio, e quarto Volneí. Qual suole
All’improvviso infuríar d’un nembo
405Fendersi ai lampi il ciel, tremar la terra,
Crollare alberi e tetti, e scatenarsi
Dalle ripe con fiero èmpito i fiumi;
Così d’intorno alla tremenda schiera

Un fremito, un fragore, una ruína
410Terribile s’udía, mentre il solingo
Ginevrin
, precedendo, iva due faci
Sanguinose agitando, e come strale
Il riso di Voltèro il ciel fendea.
    Dall’altra parte, in cupa nebbia assorti,
415Vengon color, che il falso al ver mescendo
Con sagace pensier, norme e governi
Persuasero ai popoli, ritrosi
Ad ogni culto di civil commercio.
Da l’aurifero Gange, in simiglianza
420Di marmorea colonna, ergeasi al cielo
Il vetusto Manava; ed eran seco,
Co’l ben veggente istitutor dei Parsi,
Trismegisto e Confucio, e quei che miti
Dettò leggi ai Fenicj, esimia gente
425Domatrice del mare ed il flessanime
Germe di Clio, trionfator di traci
Belve e dell’Orco, non di voi, gelose
Donne dell’Ebro, al cui baccar fu il biondo
Capo concesso e la parlante cetra,
430Non vivo il core a un solo amor devoto.
V’era inoltre Pompilio, anima ricca
Di scaltriti consigli, e finalmente,
Simile in tutto all’arabo Misèmi,
Il campato dall’acque astuto Ebreo.
    435Videli appena dall’opposta parte
Di Malmèsburi il saggio, e li squadrando
Con traverso cipiglio:
                             — O voi di Numi
Fabbricatori e mercatanti, disse,
Qual maligno talento a noi vi mena
440In quest’ora di gloria e di vendetta?
Stolti! che al sommo socíal potere
Sovrapponeste un fiero idolo, al cui

Temuto auspicio con radici immani
Colpe ed errori avviticchiâr la terra.
445Ma stagione or mutò: gli egri intelletti
Dal morbo rio, che li torceva al cielo,
La Ragione guarì: solo e severo
Nume e legge la Forza; e qual volesse
Novelli Iddii favoleggiar, d’infame
450Morte morrà. Mal vi destate adunque
Di Lucifero al grido; al vostro Nume,
Gloria non già, morte e vergogna ei reca! —
— Inclito senno d’Albíon, rispose
Tosto l’eroe, che pur nel nome ha luce,
455Quale acerba rampogna or t’è fuggita
Dalla rigida bocca? Impazíente
Del trionfo dell’uom, ch’è mio tríonfo,
E sdegnoso di tutti idoli a dritto
Epperò degno mio campion tu sei;
460Ma trasvolar quanta ragion mai possa
Proteggere costor d’un’aurea scusa,
Lodevol cosa io non dirò, nè giusta.
Allor che inconscj d’ogni ver, fra bieche
Fraterne ire e sospetti, una brutale
465Vivean vita gli umani, e la Paura,
Despota d’ignoranti anime, orrende
Cose spirando, il ciel, la terra, i flutti
Popolava di Numi e di Chimere,
Chi avría, senza periglio e senza tema
470Di gittar l’opra inutilmente, esposto
Scevro di veli ad uman guardo il vero?
Il vero è Sol, che i grami occhi abbarbaglia
Di chi vive nell’ombre. Or chi di biasmo
Farà segno costor, se al radíante
475Volto del Ver, perchè men dèsse offesa,
Posero un’ombra, a cui diêr nome Iddio?
Come in aprica e ben disposta aiuola,

Ove il buon giardinier, tutte a lei vòlte
Le rigid’opre della ria stagione,
480Depose i germi prezíosi, i solchi
Serpeggianti vi aprì, per cui non manchi,
Quando più punga il Sol l’arida terra,
La fresca linfa ch’ogni fior ricrei;
Al richiamo d’april vestesi a festa
485Ogni pianta, ogni stelo, e tutto in giro
Ride il suol di colori e di fragranze;
Così al precetto di costor, che fûro
Primi maestri di civil costume,
Fiorîr genti e città, su cui dall’ara,
490Perch’uopo avean di fede i rozzi ingegni,
Stendea la Legge il moderato impero.
Se non che, sòrta quella rea masnada,
Che, l’umana pietà mercanteggiando,
Usurpò i templi della terra, e il cielo
495Con chiave d’oro al fornicar dischiuse,
Non più di civiltà mezzi e stromenti
Ma tiranni dell’uom fûr fatti i Numi.
Nacque allor nelle oppresse anime, a cui
A tempo il Ver fatto avea chiaro il senno,
500Fiero un disio di rubellarsi al plumbeo
Giogo del ciel; suonò per l’aria il grido
Della riscossa, e si pugnò. Non vinse
Per certo Iddio: vide fumar d’umano
Sangue innocente i mercenarj altari;
505Ma le vittime han vinto. A poco, a poco
Scemò, come al mensil corso la luna,
La possanza del Dio, ben che di ferro
Tempra vantasse ed immortal. S’ostina
Pur tuttavia, quantunque imbelle, e inciampo
510Ultimo ei resta al trïonfar del Vero.
Or, perchè l’uomo in sul fulmineo carro
Di civiltà varchi ogni meta e segno,

Sovra il corpo di Dio convien che passi! ―
    Seguían queste parole; ed ecco incontro
515All’aureo Sol levarsi altra falange
Di pure e maestose ombre, che a duci
Budda e Socrate avean. Per l’opalino
Etra sorgeano, e più ch’uomini e forme
Parean candidi rai d’alba nascente,
520O visibili idee: tanto di luce
Avean d’intorno e tal purezza in viso.
Sorge anch’ei dietro a lor, ma torvo e solo,
Sopra cavallo indomito l’ossesso
Battaglier di Medina, a cui nel pugno



Sorge anch’ei dietro a lor, ma torvo e solo
Sopra cavallo indomito l’ossesso
Battaglier di Medina.

(pag. 290)


525Nudo lampeggia e sanguinoso il brando:
Nembo ei par di tempesta, ove tra’ buffi
D’euro si squarcia, ed ignei serpi avventa.
    Ma già un nuovo drappel chiama la voce
Del canto mio. Come vorace fiamma,
530Poi che tutte afferrò l’aride secce
Del vasto campo, il vicin bosco invade;
Terribilmente crepitando esulta
Con cento lingue sanguinose all’etra;
Così questi venían dopo un vessillo
535Fluttuante a l’avverse aure, su cui
Con vivo sangue uman scritto è: Riforma.
Qual dall’eolio mar, quando più cupa
Dorme sotto ai veglianti astri la notte,
Fra dodici fantasmi ispidi o scogli,
540Cui morde la rabbiosa onda d’intorno,
Sorger tu vedi e lampeggiar, perenne
Ara di foco, la vulcania ròcca;
Tal sorgea lampeggiante, in mezzo ai mille
Che premeansi a’ suoi lati, il procelloso
545Protestator di Vittemberga. Appresso
Muovongli il cheto confessor d’Asburgo,
E il rigoroso Ginevrin, cui tardo

Par l’altrui passo e andar vorrebbe il primo;
Non che il prode di mano e d’intelletto
550Novator di Zurigo, e i due di Praga,
Ch’ebber pari il supplizio e l’ardimento,
E duce a entrambi e ispirator Vicleffo
Eversore di dogmi; e quanti osâro
Alle voraci arpíe di Vaticano
555Spennacchiar l’ale e rintuzzar li artigli.
Destossi anch’ei sul torbido Tamigi
Il lascivo Tudorre, e già già mezzo
Sorgea dall’acque, e s’apprestava al volo,
Quando piombâr su la sua testa, a guisa
560Di rapaci avvoltoi, le trucidate
Sue concubine, e il regal manto e il petto
Gli addentaron, sbranandolo. Stridea
L’obliqua alma del Re, mentre, ravvolta
Nel casto velo, sdegnosamente il tergo
565Gli volgea l’infeconda Aragonese
Commiserando; e tu dalla lontana
L’incatenavi co’l tranquillo sguardo,
O grave ed incorrotta ombra del Moro.
    Eran queste le schiere e questi i duci,
570Ch’oltre al Sole movean, e al mover loro
Dai quattro venti della terra un grido
Terribile s’ergea, qual se sconvolti
Da profonda procella a un punto solo
Mugolassero i mari, o scatenati
575D’avversi poli s’azzuffasser tutti
Con forze uguali ed ugual rabbia i venti.
Tuonavan dalle selve ime e dagli antri,
Già sacri al vorator d’uomini Odino,
Quant’ostie mai su’l suo tremendo altare
580Caddero; urlavan fieramente anch’esse
Le vittime di Teuta, a cui, più care
Di rugiadosi vischj e di verbene,

Bionde teste mietea pei boschi opachì
La druidica falce; un gemer lungo
585Di greche madri in sugli oblati infanti
Prorompea da l’Idee valli, superbe
Del vagito di Giove; alto dal Tebro
Fremean l’espíatrici ostie ferite
All’ingordo Saturno; e una selvaggia
590Querela uscía dai seppelliti avanzi
Delle Puniche ròcche, in quel che in armi
Sorgea sdegnoso il redentor d’Imera.
    Ma chi tutte può dir le voci e i pianti,
Che al ciel salíano a dimandar vendetta?
595Dal braminico aurato Indo, dagli orti
Rosiferi d’Irano alle feconde
Trinacrie rive del geloso Egitto;
Dalle terre promesse a una masnada
Di lebbrosi omicidi, dal sepolcro
600Sanguinoso del Cristo alle funeste
Valli d’Alby; dai tríonfati fiumi
Dell’industre Batavia, a cui sul petto
Gavazza ancor del fiero Alba il fantasma;
Da le Calabre valli a le solinghe
605Nevi di Valtellina ergeasi un grido
Formidabile, immenso, a cui fean eco
Dalla Senna e dall’Ebro urla e minacce.
    Udía dall’alto il Nazzareno, e il biondo
Capo scrollando amaramente: — O amore,
610Dicea, per cui l’innocua vita io diedi,
Qual mar di sangue alla mia Croce intorno!

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