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CANTO DECIMOQUINTO
Appena il grido dell’eroe percosse
Con sinistro rimbombo il ciel vicino,
E le prossime schiere e la funesta
Voce avvisàr dei minacciosi estinti,
5Tremâr tutti i Celesti, e verdi il volto
Dalla paura, si guardâr negli occhi
Silenzíosi. Avvertì anch’esso Iddio
L’imminente periglio, e sì com’era
Sfidato e triste e non del fato ignaro,
10Sul primo che gli occorse eburneo seggio
S’abbandonò. Stupidamente in giro
Movea gl’inebetiti occhi, e non tosto
Pipilargli all’orecchio udì il divino
Colombo, e sospirar, qual su la croce,
15L’incarnato suo figlio, in un dirotto
Pianto scoppiò, tutti adempiendo insieme
Di stupore i beati e di sgomento
Qual se dal fondo d’uno stagno, impuro
Suscitator di sitibonde febbri,
20Leva un rospo un loquace inno alla luna,
Tutte svegliansi a un tratto, e gli fan coro
Le profetiche rane, onde all’intorno
Di chioccio chiacchierio suonano i campi;
Tale, al pianger del Dio, per l’azzurrine
25Volte del vacillante Èden destossi
Un suon di disperate urla e di pianti.
Piangean le poverette alme digiune
D’ogni gioia di nozze e d’ogni amore,
E tu primo fra loro, o immacolato
30Fior dei Gonzaga. A un altarino innanzi
Tutto adorno di ceri e di ghirlande
Ei traducea l’eterne ore in ginocchio
Mormorando preghiere a un Crocifisso
D’indico dente elefantino. Il novo
35Gemito udito, in piè balzò, le ceree
Mani protese, e l’argentina voce
Spaventato cacciando, a correr diessi
Per gli stellati corridoj del cielo.
Accoccolata a un angolo romito
40La povera Teresa ivi giacea
Stranamente ghignando. In lei si avvenne
Il fuggitivo, e qual fagian, che senta
Dietro di sè del cacciator la pèsta,
Fra l’ovvie macchie il capo aureo nasconde,
45Tutto ai colpi lasciando il corpo esposto,
Tal fra le gonne sbrindellate e conce
Della squallida pazza il mal completo
Garzon cacciò la paurosa testa,
Nè badò per la prima al sesso avverso.
50N’ebbe gioia la diva, e a quella guisa
Che una grave bertuccia a’ rai del sole,
Tolto fra braccia un piccioletto amico,
Tutta a forbirlo e a coccolarlo intende;
Così, strillando allegramente, al vizzo
55Petto ella strinse il trepido fanciullo,
E tante gli tessè d’intorno al corpo
Con la lubrica man giochi e carezze,
Che alla fine ei sentì corrergli il sangue
Tale un’ignota voluttà, che a un punto
60Sussultando fra’ brividi si svenne.
Sveníansi ancor, ma per cagion diversa,
Molte vergini suore, a cui l’intatta
Orsola impera. Altre scorrono urlando
La reggia; altre stracciandosi le chiome
65E battendosi il petto van d’intorno
Perdutamente; qual con vitreo sguardo
Siede come fantasma, e qual, deforme
Per isterici spasmi e di spumanti
Bave immonda la bocca, a simiglianza
70Si contorce di frigido ramarro,
Cui, smessa a un tratto la pesante zappa,
Fiede il villan con infallibil sasso.
Fra il gridare, il fuggir, le preci, il pianto
Sorse l’invitto Gabríel nell’ira,
75E, volato a Michel, che vergognoso
Dell’ultime sconfitte i men frequenti
Lochi chiedea: — Qual mai desidia è questa
Che t’invade, esclamò? Muti ed inerti
Aspetterem l’esizio ultimo e il crollo
80Di questo regno luminoso? È forse
Speme alcuna d’impero e di salute,
Che nell’armi non sia? Nel contumace
Ozio che il cor già impavido ti prostra,
Rea viltà, dànno certo e infamia io veggio! —
85— Di viltà non parlar, con disdegnosa
Voce proruppe il pro’ guerrier di Dio,
Non parlar di viltà, se vuoi che amari
Non saettin dal mio labbro gli accenti.
Vil non fui mai: fra le celesti schiere
90Trono o arcangel non è, ch’ebbe mai vanto
Di vedermi ai perigli andar men lesto
Di te, che forza del Signor ti appelli.
Ma or che giova il valor? Armi e battaglie
Chi incerto ha il fato ed ha speranze elegga:
95A noi chiaro è il destino. Ombra di Nume
S’è fatto Iddio; l’uom tutto vince. Un tempo
Aquila io fui, che per l’eteree strade
Artigliai le saette; or che ne falla
Con la fede dell’uom del ciel l’impero,
100Notturna upupa io son, cui non già il sole,
Ma il silenzio e la fredda ombra sol giova. —
— Quanto mutato sei! quanto mutati
Tutti d’intorno a me qui nel felice
Regno delle beate anime, aggiunse
105Fra disdegno e pietà l’angel superbo;
Questo è davvero il ciel? Qui regna Iddio?
Tutti d’umani scoramenti invasi
Trovo i petti immortali! Oh! non sì tosto
Io piegherò: spiri seconda o avversa
110Alla battaglia mia l’aura del fato,
Forza a forza opporrò; nè cadrò pria
Che l’avversario mio provi il mio brando! —
Spiegò in tal dir le penne, e la fulminea
Spada traendo, alzò dell’armi il segno.
115Come, uscendo all’aperta aja dal nido,
La mal pennuta chioccia alza la voce:
Odono il noto crocidar materno
I pelati pulcini, e pipilando
Corronle intorno, e per l’accolto strame
120Con piè inesperto a razzolar si dànno;
Così del bellicoso angelo al grido
Corsero i pochi, a cui mal noto ancora
Del conflitto dell’armi era il periglio.
Si sdegnò assai della non folta schiera
Quando l’amor di Gabríel, la vaga
130Cecilia, udito il suon dell’armi e il grido
Del guerriero diletto, a lui sen corse
Spaventata, anelante, e: — Dove irrompi,
Forsennato, gridò: qual cieco inganno
T’ombra il divo intelletto? Ah! non già un uomo,
135Non un popolo sol, non tutta quanta
La terra hai contro e i rubellanti abissi,
Ma con seco i destini. È troppo orrenda
Cosa la pugna, e quando è vana, è stolta.
Cedi al destin; cedi all’amor; non giova
140Produrre a prezzo di perigli il regno;
Se tempo è di cader, cadasi: io teco
Stretta morrò, non già con l’armi in pugno,
Ma nell’amplesso dell’amor sopita. —
Disse, e caddegli a’ piè. Fra due sospeso
145Dubitava il gagliardo Angelo, quando
Dal sen colmo di lei, fosse arte o caso,
Lieve lieve si scinse il roseo velo;
Ed ella in vista lagrimosa e tutta
D’amoroso pudor rorida, ai dolci
150Studj d’amor gli seducea la mente.
Strale fu questo, che andò dritto al core
Del divino guerrier: gli sfuggì il brando
Dalla trepida destra; il vergognoso
Sguardo girò confusamente intorno,
155E balbettando futili parole,
Per man prese la dea, ne le lucenti
Stanze sacre ad amor trassela, e lei
Mal ripugnante degli ambrosei veli
Con mano carezzevole discinta,
160Al talamo invitò, dove il gagliardo
Proposito e il vicin fato e sè stessi
Dimenticando, a delibar si diêro
Del giardino d’amor l’ultime rose.
Come all’odor di ramerino o timo,
165Onor vago dei campi e amor dell’api,
Ruzzan gli agili gatti, e senton forse
Un amoroso stimolo, che il sangue
Fieramente gli assilla, onde su l’erba
Stropicciando il supin dorso flessibile
170Con dolce miagolío chiaman l’amica;
Così, all’esempio del lor duce e al viso
De la santa pulzella, arsero i petti
Dei celesti guerrieri, e nulla ancora
Dell’instante rovina conoscendo,
175Si sparpagliaron clamorosi, e l’armi
Dissuete per via disseminando,
Si diederro a saltar liberi in caccia
D’auree fanciulle e morbidi angeletti.
Mentre così, del lor destino ignari,
180Dansi questi bel tempo, entro alla cupa
Anima del Lojola un serpeggiante
Pensier guizzò. La macera persona
Raddrizzò a un tratto, e con volpina voce
Chiamò quanti nel cielo erano in pregio
185Di sagace accortezza, e a lui ben atti
Parvero all’uopo: il Montaltese, obliquo
Mastro di frodolente opere; il santo
Conversor di Gusman, la cui parola
Scrisse co’l sangue il masnadier Monforte;
190L’atroce Torquemada, anima acuta
Qual furtivo pugnal, che negli umani
Petti s’infisse ad indagar la fede;
Il ferino inventor d’ogni tormento
Manigoldo Arbuense; il pio Ghislieri
195Tessitore di stragi, ed altri, a cui
Negò voce la fama. Eran costoro,
Poichè del fato avverso eransi accorti,
Tutti intesi a raccòr per le fulgenti
Aule del ciel quanto potean di ricche
200Gemme e pregiate masserizie; e fatto
Uno sconcio fardello, a quella forma
Che travagliansi intorno ad un morente
Scarabeo nella polvere supino
le crudeli formiche, ad esso in giro,
205Con le mani e co’ piè forte spingando,
Trafelanti anelavano; e già già
S’involavan dal ciel, stolti! che fuori
Di quel regno di larve avean pensiero
Produrre oltre la vita; e negro intanto
210Li batteva a le spalle il giorno estremo.
Li sorprese in quest’opra il conosciuto
Grido e l’aspetto del sagace amico;
Onde ascoso il furtivo ònere, a modo
D’astute gazze, e fatto al loco intorno
215Di sè stessi gelosa ombra e tutela,
Aspettâr la proposta.
— Accorti e saggi
Siete inver più di me, disse il Lojola,
Se al bisogno del furto e della fuga
Già date il tempestivo animo. Al certo
220Periglioso è l’istante, e di tenaci
Nebbie ravvolto l’avvenir. Del Dio,
Che propugnammo, lo splendor tramonta:
Immortale ei non era; e noi già primi
Lo sapevam, noi che sol nume in terra
225L’utile nostro e il nostro regno avemmo.
Scarsa è la schiera e del mio nome indegna
Che mi resta laggiù; qui non è alcuno,
Che a pugnar pensi, poi che ottuse e vane
Le nostre armi son fatte; arbitro sorge
230Il mortale Pensier, che in aurei nodi
Non a caso io distrinsi; ogni virile
Nerbo gli tolsi a poco a poco, e ucciso
L’avrei del tutto, ove più fine ingegno
Dato avesser le sorti ai miei fedeli.
235Cederem noi per questo? All’uom, già vile
Schiavo e strumento d’ogni mio disegno,
Noi, vili or fatti, piegherem la nostra
Già ferrata cervice? Alcun non sia
Che in cospetto me’l dica! Uom, che alla prima
240Faccia del mal muto s’accascia e trema,
Pusilla anima è detta; a noi, che tanta
Fama abbiam di sagaci, e siam beati,
Qual degno nome si addiría? Son troppe
Le dolcezze del ciel perchè alla prima
245Si conceda al nemico! Abbiam rispetto
Prima a noi, poscia a Dio, dalla cui larva
Già difesi imperammo. Inutil sono
Le braccia e l’armi? E che però? Ne avanza,
Possente arma, l’ingegno. È disperata
250Cosa la pugna? Usiam l’arte e la frode:
Mal, che torni a vantaggio, al ben somiglia. —
Tacque, e le man si stropicciò.
— Son d’oro
Le tue parole, a lui rispose il senno
Del pastor di Montalto, e assai per fermo
255Io ne lodo il valor; ma la patente
Sconfitta che vicina e certa io sento,
E meco ognun, tu non dirai che sia
Sorte miglior d’una latente fuga.
Pria la vita, indi il regno. Io, sin che filo
260Di memoria e di spirto il cor mi regga,
Non dispero acquistar quanto or si perde;
Campar dunque fa d’uopo. —
— Altra io non veggio
Via di salute, il pio Ghislieri aggiunse,
Che la via del fuggir!
— Così ne fosse,
265Gridò allor con schizzanti occhi il grifagno
Consiglier di Filippo, oh! sì ne fosse
Tosto dato in balía quest’incarnato
Sovvertitor di sacrosanti altari!
Tal rete intorno gli ordirei, che vano
270Al districarsi torneríagli il tutto
Suo senno astuto e l’infernal possanza! —
— E chi sa? ravvivando il serpentino
Occhio, soggiunse il Biscagliese obliquo,
Chi sa, che in nostra man da ver non cada
275Quest’audace Lucifero? Fin quando
Spirto alcuno d’ingegno oprar n’è dato,
Chiuder non dèssi alla speranza il core.
Ragno astuto, che vede in un sol punto
Disfatto il fine e pazíente ordito,
280Torna all’opra ben tosto, e in più sicuro
Loco, e con più sottile arte ed ingegno
Più certe insidie ai suoi nemici intesse.
Spero io così trar nella rete il nostro
Burbanzoso avversario. Ardito e forte
285Per certo egli è; ma un punto io gli conosco,
A cui se drizzi insidíoso un dardo,
Larga e secura gli aprirai la piaga.
Benchè spirito invitto e del pensiero
Apostolo sublime egli si vanti,
290Alla turpe materia il più profano
Culto ei professa; ed io più volte il vidi
Prostrato al piè d’una beltà terrena
Svestir l’orgoglio e gingillar la vita.
Udite or dunque un mio proposto. Appena
295Ei si farà su’l limitar del cielo,
Niun lo scontri con l’armi: esperimento
Vano saría; vadagli incontro invece
Una, di quante sono ornate e belle,
Leggiadrissima santa (ed io fra tutte
300Do la palma in quest’uopo alla divina
Prostituta di Màgdala); gli abbracci
Supplicante i ginocchi, e sì lo svolga
Per qualche istante da ogni fier concetto,
Che all’amplesso fallace ei si abbandoni
305In una molle voluttà. Noi, quanti
Qui siamo ancor d’armi o d’ingegno instrutti,
A lui d’intorno in vigilanti agguati
Tutti pronti staremci; e quando il fiero
Debellator di Dio dall’iterate
310Pugne d’amor giacerà stanco e assòrto
Nel più codardo e immemore abbandono,
Noi piomberemgli in un baleno addosso
Come stuol d’avvoltoi; di ferrei nodi
L’avvinceremo; e poi che osceno e carco
315Sarà tutto di ceppi e di ferite,
Tal gli darem di tutto polso un crollo,
Che i neri abissi e il regno suo riveda! —
Piacque a tutti il consiglio, e alàcri e pronti
Diêrsi all’opera intorno, in simiglianza
320D’immondo strupo di codarde jene,
Che, fatte ardite dal favor dell’ombre,
Mute s’affrettan pe’l deserto campo
Dietro al sentore di lontan carcame.
Contro alle sedi dei Celesti intanto
325Lucifero irrompea. Dell’abusate
Porte del ciel stava a custodia il divo
Pietro di Galilea, l’inclito alunno
Del Nazzaren, pastor d’anime e chiave
Del paradiso. Udita avea la voce
330Del nemico imminente; e ben che molto
Fosse d’uomini esperto e di fortune,
Pur sentì scioglier le ginocchia, e a guisa
Di fragil canna, che tentenni al vento,
Ondeggiava diviso in due consigli:
335O sguainar l’arrugginita spada,
Che pendeagli dal fianco, e alla difesa
Rimaner, benchè solo; o, abbandonata
La difficil custodia ad altri o al caso
Svignarsela di furto.
— Audace impresa,
340Dicea tra sè, nè alle mie forze uguale,
Tener fronte da solo a un tal nemico:
Certo ei val più di Malco. E poi, degg’io
Perigliarmi per tutti? Alcun non osa
Impugnar l’armi, ed io restar qui devo?
345No, no; vadasi, e tosto: al proprio scampo
Volga ognuno il pensier. Se Dio non vale
A difender sè stesso, io lo rinnego,
In fede mia, canti o non canti il gallo! —
Così pensando, si sottrasse. Come
350Al furíar di subito uragano
Cade svelta dai cardini la porta
D’un povero abituro: urla dal fondo
La famigliuola spaventata, in quella
Che ogni serbata masserizia in giro
355Sparge, ammucchia, avviluppa il turbo avverso;
Spalancossi in tal guisa al primo tocco
Di chi porta la luce il vecchio albergo
Del paradiso, ovvio lasciando e vasto
Al guardo e al passo del ribelle il varco.
360Grande e securo e tutto lampi il volto
Su la soglia ei piantossi, e parea sole
Di cotanto splendor, che incerte faci
Ben dir potevi a petto a lui le stelle.
Siccome spada folgorante, in pugno
365Un raggio acuto gli splendea; tremenda
Arma, che squarcia il sen dell’ombre, e quanti
Ferrei fantasmi e fiere larve han vita
Con sovrana virtù spezza e dilegua.
Così l’eroe proruppe; impazíenti
370Del solenne giudizio a lui da presso
Si versano le schiere, e tutte in giro
Prendon l’aurea magione, a simiglianza
Di sonanti fiumane, a cui più freno
Non dànno argini e dighe, e l’una e l’altra
375S’accavallando, fragorose e torbide
Divorano la valle e i campi affogano.
Come allor, che dai cupi antri improvviso
Il vecchio Mongibel mugghia e si scuote,
Trema intorno la valle; impauriti
380Fuggon greggi e pastori, a cui di sotto
Balzan globi di fumo atro, e sul capo
Piove di ardente e negra sabbia un nembo;
Così alla vista dell’eroe si scosse
La gran reggia dei cieli, e d’ogni lato
385Fuggîr senza consiglio i sacri armenti
Vociferando; e qual siede, o s’arresta,
Non già vanto ha d’ardire o di piè fermo,
Ma invalidi i ginocchi e l’alma infranta.
Questo fu il punto, che disciolta i crini
390Biondissimi e con piè trepido, in vista
Di verginella, al gran Ribelle incontro
Mosse la bella Maddalena. Il colmo
Petto le ondeggia sovra il cor, sicuro
Della vittoria; indocili traspajono
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(pag. 306)
395Le rosee membra dagli aerei veli;
E tal da tutta la persona un nembo
Le si sprigiona di soavi essenze
Che punge e avvampa a’ men lascivi il sangue.
Tal s’avviene all’eroe, mentre raccolti
400Nei lor taciti agguati ansan parecchi,
Qual fidato all’astuzia e quale al braccio,
Congiurati al Lojola. Intento e assorto
Nel suo pensier quei trascorrea, nè punto
Attendeva costei, che del sedurre
405Tutti ben sa gli accorgimenti e l’arte.
Ond’ella il passo gli precise, e: — O santo
Arcangelo, esclamò, ben si conviene
Alla luce del tuo sguardo immortale
Questo splendido regno! E chi dir puote
410Che nemico tu sei? che una superba
Smania di regno ti conduce al cielo
A sovvertir l’adamantina sede
Di Dio? No, che per certo iniqua e indegna
Ti precorre la fama, e mal diritto
415Veggion queste beate anime, a cui
Tanto incute il tuo nome alto spavento.
Luce ed amor sei tu: simile a novo
Raggio d’innamorato astro sorride
La tua fronte serena, e a dolci affetti,
420Pari al mio Nazzaren, l’anime inviti.
Oh! ben torni fra noi; qui non mortali
Semina rose amor, qui sempre viva
Fonte di voluttà schiude il mio seno! —
Udì l’Eroe la subdola proposta,
425E amaramente le gittò sul volto
Queste parole:
— O penitente eterna,
Nè pentita giammai, qual ti germoglia
Nell’instabile cor postuma brama
Di novelle avventure? Un mi son io,
430Che al lascivo ozíare, a cui mi tenti,
L’aspre battaglie del pensier prepongo! —
Disse, e sdegnando procedea, già sciolto
Dall’inciampo di lei; quand’essa, a un punto
Tramutando tenor d’arti e d’accenti,
435Ruppe in alto cachinno: — E ci voleva
Proprio questa, esclamò; state a vedere,
Ch’oggi che in terra dàn la caccia ai frati,
A questa vecchia golpe senza coda
Vien pizzicor di farsi anacoreta!
440Ma fa’ il piacer, Lucifero! Son donna,
Son figlia d’Eva, e non son senza macchia
Come la madre di Gesù: codesta
Mascheraccia d’apostolo su’l muso
Non ti sta, credi a me: cangiati in serpe
445Piuttosto; ed io farò, come Dio vuole,
Il sagrificio di mangiare il pomo! —
Così dicea, ma seminate al vento
Si disperdean le lubriche parole.
Visto il colpo fallir, nè di salute
450Più sperando altra via, fuori ad un tratto
Dagli agguati sbucò la tortuosa
Anima del Lojola, e si gittando
Di traverso all’eroe: — Salvami, grida,
O gloríoso arcangelo! Per te,
455Non già per Dio, sovra la terra io tesi
La rete mia! — Volea più dir, ma come
Non crudel passeggero, a cui di sotto
Venga un turpe scorpion, che velenosi
Lascia i morsi ove tocchi, immantinente
460Alza il piede e lo schiaccia; in simil guisa,
Sporgendo il labbro, e torto altrove il viso,
Piantò il piede Lucifero sul tergo
Del supplice maligno, il qual diè un sordo
Tonfo, e scoppiò, tutto ammorbando intorno
465Di putida mefite il ciel sereno.
Questo fu il segno della strage. Appena
Del lor duce la fin videro i Santi,
Tutti uscîr dagli agguati a la rinfusa,
Tal che frotta parean di saltellanti
470Locuste ingorde, cui la fiamma incalza
Più vorace di lor. Più volte indarno
Una mano d’audaci angeli e santi
Far impeto tentâr contro alle schiere
Del luminoso eroe; ma qual fremente
475Cavallon che si franga alla ronchiosa
Rupe, spezzate contro a lor cadeano
L’avverse armi e l’ardire. E come avviene
Nel nebbioso novembre, allor che in dense
Falde piovon dal ciel l’umide brume,
480E nereggian le vie, quasi colpite
D’occulta lue cadon le mosche esose,
Ch’or ti ronzan morenti in su la faccia,
Or sui fumidi cibi, onde all’intorno
Sparse e brutte ne van le mense e i letti;
485Così, al proceder dell’eroe, dall’alto
Fioccan morti i beati, e tu soltanto
Li ferivi co’l tuo sguardo immortale,
O tríonfante Verità. Fra tanto,
Con ogni forza ed ogni astuzia in salvo
490Ricondursi volean Sisto e Ghislieri,
Torquemada e Gusman. Li precedea,
Stranamente strillando e mulinando
Sovr’esso il capo la ghierata gruccia,
Il feroce Arbuense, e una mal viva
495Folta di Santi lor tenea bordone.
Li riconobber dall’opposta parte
Co’l profondo veggente occhio i campioni
Del libero Pensiero, e un minaccioso
Mormorio si levò, come di vento
500Precursor di procella. Ardean di cupo
Sdegno le generose anime, in quella
Che con flagel di sanguinosi motti
Mordea Voltèro ai fuggitivi il dorso.
Non però immoti nelle lor falangi
505Stetter Bruno e Vanini; anzi a quel modo
Che una coppia di fulve aquile, altere
Dominatrici di profonde altezze,
Con pari volo e con funesto strido
Piomban sovra la preda, essi al feroce
510Fuggitivo drappel di tutta punta
S’avventarono incontro, e: — O manigoldi
Dell’umano pensier, gridò con fiera
Voce l’ardito precursor di Nola,
Or sì che il fin di vostre colpe è giunto! —
515Disse, e ghermendo con la ferrea destra
Torquemada alla strozza, in turbinoso
Modo il rotò, che spatola parea
In man d’esperto battitor. Lanciollo
Poi qual sasso di fionda; e non sì tosto
520Quei dall’alto piombò, che in mostruosa
Foggia si franse e si divise, a modo
Di crinato utensil d’impura argilla
Lanciato all’aria da fanciul bramoso
D’udirne il tonfo e di contarne i cocci.
525Cadde, e si franse ei sì, ma in braccio a morte
Non s’acquetò; chè in quante parti e brani
S’eran divise le sue membra, in tanti
Si spezzò la sua vita, onde ciascuno,
Che guizzando e serpendo invan tendea
530A congiungersi all’altro, era dannato
A soffrir sempre, e a non morir giammai.
Ma tra le mani al pensator d’Otránto
Fieramente stridean Sisto e Ghislieri.
Ambi agguantati egli li avea, qual suole
535Assiduo scardatore, il qual prendendo
Due manciate di canape, fra loro
Pria le sbatte più volte, indi le affida
Al nemico di lische ispido cardo.
Si mordevan per rabbia i due percossi,
540E sgraffiavan rignando, e parean due
Gatti rivali, a cui bollir fa il sangue
Nel rigido gennaio un caldo amore:
Sul colmo dei muschiosi embrici, in traccia
Dell’amica ritrosa, a notte piena
545Scontransi, e i peli rabbuffando a un tratto,
Soffian, sbatton la coda, alzano in arco
L’ispido dorso e duri, intirizziti
Muovonsi con guardingo atto d’intorno,
L’arida lingua saettando: a bada
550Si tengono così, fin che il più lesto
La granfia avventa e vibrasi all’assalto.
Odi allora echeggiar di strilli acuti
La sacra notte, rotolar sul tetto
Smosse tegole e sassi; e chi del dolce
555Sonno si svolge in quell’istante, umani
Gemiti e grida ascoltar crede al vento.
Così le due sinistre anime, a un punto
Fatte dall’ira e dal dolor nemiche,
Si sbranavan fra loro, insin che stanco
560Di quel fiero piacer l’eroe nemico
Le scagliò da sè lungi. Urlâro i tristi
Dall’alto ciel precipitando, e ancora
Precipitan pe’l chiaro aere: li aspetta
Fremebonda la terra, ove un’eterna
565Vita servile e in gran terror vivranno.
Scòrsi muti e di furto eran fra tanto
L’Arbuense e il Gusmano; e si tenendo
Fuor d’ogni attesa e d’ogni sguardo ostile,
Speculavan la fuga, o un nuovo inganno.
570Si sferrò allor da la sua schiera il forte
Riformator di Vittemberga, in guisa
Di mortifero strale, e una tremenda
Voce vibrò. Stetter tremanti e bianchi
I fuggitivi, e balenâr perplessi
575Fra la lotta e la fuga, in simiglianza
D’inseguito assassin, che fischiar senta
Presso all’orecchio il mortal piombo. Vinse
Il primiero consiglio, e vòlto il capo
Subitamente, s’avventâro ai fianchi
580Dell’iracondo novator. Qual pura
Fiamma tendente al Sole e del Sol figlia,
Se a la putida pece arda vicina,
A lei tosto s’apprende: a poco a poco
Struggesi questa; in negre bolle impure
585Gorgoglia, e più e più spandesi, in tanto
Che giallo e crasso infesta l’aria il fumo;
Tal divenne Lutero, allor che intorno
Gli s’avvinghiâro ai poderosi fianchi
I due rabidi santi, a cui bentosto
590Crepitando ei s’appiglia. Un fiero strido
Mandan gli audaci, e di balzar fan prova,
E staccarsi, e fuggir; ma appiccicati
Restano a lui così, che in foggia strana
Fan di tre forme un mostruoso aspetto.
595Corre pe’l ciel l’inesorabil fiamma,
Che li attacca, e li fonde, e meraviglia
N’han tutti intorno; ed ora i cornei crini
Gli avvampa, or gli erra su le picee terga
Con feroce pigrizia, or dentro ai vivi
600Occhi gli siede, e nei precordj scende,
E i visceri gli mangia, e l’ossa ignude
Con lenta voluttà rode e consuma.
Seguían queste giustizie; ed ecco a fronte
Dell’egro nume il gran ribelle arriva.
605Solo il trovò nel più recesso loco
Del paradiso; e nullo era, di quanti
Alle mense di lui s’eran nutriti,
Che alla difesa or vigilasse: ognuno
Che innanzi al passo dell’eroe non era,
610Futile inciampo, ancor disperso o vinto,
O il vol dava alla fuga, o in un furtivo
Ripostiglio del ciel, pallido, ansante
Aspettava il destin. Voi soli in questo
Stremissim’uopo non lasciaste il trino
615Padre deserto, o sovra ogni pietosa
Fida essenza del ciel pietosi e fidi
Quadrupedanti: a voi, se grazia alcuna
Merta ancora la fede, un chiaro grido
Non fallirà presso i venturi, a cui
620L’alto cor vostro e i vostri nomi io canto.
V’era di Balaàm l’asino e quello
Che riscaldò di Betelèm la greppia
Col mirifico fiato; eravi anch’esso
L’accorto bue, che abbandonato il duro
625Solco e l’aratro, ad adorar sen corse
Il già nato Messia: meraviglioso
Di fede esempio, onde nei cieli assunto
Fu per nume di Dio, che la falcata
Fronte gli ornò di due vividi raggi,
630Come un tempo a Mosè; v’eran del divo
Rocco i fidi mastini impazíenti
D’avventarsi all’eroe; v’era il modesto
D’Antonio alunno, che il signor perduto
Fra’ grugniti piangea: sul nero grifo
635Gli discorrean le lagrime cocenti,
Ed ei, la Dio mercè, fatto maestro
D’oprar le zampe come fosser mani,
Se le tergea con un candido velo
Di ricami stupendo, opera e dono
640Della diva Lucia. Ma visto appena
L’avverso eroe, che procedea sembiante
A novo Sol, di subito disdegno
Arse, sbiecò i verdastri occhi da tanta
Luce percossi, aggrinzò il grugno, a spira
645Ravvolse ed agitò la scarsa coda,
Ed arrotando le spumose zanne
Con irto il dorso e con pendule orecchie
Si scagliò che parea critico arguto,
Che tumido di norme e di sofismi
650Al tallon d’un poeta avventi il morso.
Non fûr tardi a seguir l’eroico esemplo
L’altre bestie devote; anzi ad un punto
Per ogni verso si scagliaron tutte,
E, stupendo a ridir, correano a morte
655Come a danza, o convito. Alti lamenti
Mettea dal petto il Nume; e a lui d’intorno
Per la reggia del cielo era un tedesco
Strano accordo di ragli e di grugniti.
Tentennava l’eroe, commiserando,
660La testa, e con un rigido sorriso:
— Ecco, Eterno, dicea, qual poco armento
Di cotanti fedeli oggi ti resta! —
Toccò in tal dir co’l penetrante raggio,
Che nel pugno tenea, la nebbia densa
665In cui tutto era chiuso il Dio morente,
E l’aprì tosto, e dissipolla in guisa
Che il ciel limpido apparve e la sparuta
Faccia del Nume agonizzante. Ai piedi
Morto giaceagli il divo augel, che il grembo
670Visitò dell’ebrea vergine, e sciolto
Dal trino amplesso, a cui lo strinse il mito,
Stette innanzi all’eroe tranquillamente
Gesù. Splendea nel mansueto aspetto
Tutta umana bellezza, e una fragrante
675Lucid’aura di pace e di dolore
Gli alíava d’intorno alla persona
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Candidissima. Il vide, e il riconobbe
Lucifero, e parlò:
— Ben la catena
Di tua divinità spezzi in quest’ora,
680Santo eroe dell’amore e del perdono;
Ben ritorni qual fosti al luminoso
Raggio del Ver, le cui vendette io segno!
Vedi le schiere mie? Là, fra quei pochi
Spirti di saggi, a cui Socrate è duce,
685Loco a te caro, a niun secondo, io serbo! —
Disse, e insegnava con la destra. Innanzi
Fecesi, a questo dir, l’intemerata
Luce d’Atene, e fra le venerande
Braccia il pietoso Nazzareno accolse.
690Or l’estrema ora tua dirà il superbo
Genio che m’arde, o mal temuto Iddio.
Quando l’eroe ruppe la nebbia, involto
Di nero oblio, fuor d’ogni senso e moto
Tu giacevi; ma allor che con lo sguardo
695Ti penetrò, ratto balzasti, a guisa
Di già morto batràce, a cui dà strani
Moti il valor del ricorrente elettro.
E quale già solea nel greco mito
Le sembianze mutar Proteo marino,
700Quando immerso nel sonno, in mezzo al gregge
Delle putide foche il sorprendea
Con ferree braccia alcun mortale o nume,
Tal sotto al ciglio del guerrier nemico
Cento apparenze e simulacri e larve
705L’egro tuo corpo in ratta vece assunse.
E or di Brama, o di Teuta, or di Saturno
Usurpava gli aspetti; or Cristo, or Giove,
Ora Osiri appariva ed ora Anubi;
Or terribile e scuro e tutto cinto
710Di tempeste e di morte, or fiammeggiante
Sole parea che l’universo avvivi.
Fremean per lo profondo etra le schiere
Luminose dei saggi; dall’opaca
Terra sorgean, che parean fiamme vive,
715Le vittime dei Numi, e tutti a un grido
La giustizia chiedean. Pende dal labbro
Di Lucifero il fato; a lui dintorno
Stanno i secoli. Al Dio che si trasforma,
Tranquillamente egli favella: — È antica
720L’arte, per cui forme tu cangi e nomi:
Rinnovarla or non giova! Assai sembianze
Sostenemmo di Numi, a cui la cieca
Fede dell’uom diè lunga vita e impero.
All’un error l’altro successe; a un vòto
725Fantasma altro fantasma; or tocca il fine
Questa vicenda rea: l’ultimo Iddio
Tu sei; con te, non pur la forma e il nome,
Ma il pensiero di Dio nell’uom s’estingue! —
Così dicendo (ed additava il sole,
730Che sotto ai passi gli sorgea), toccollo
Del raggio acuto, e fuor da parte a parte
Lo trapassò. Stridea, come rovente
Ferro immerso nell’onda, il simulacro
Fuggitivo del Nume; e a quella forma
735Che crepitando si scompone e scioglie
Fumigante la calce all’improvviso
Tasto dell’acqua o del mordente aceto,
Tale al raggio del Ver struggeasi il vano
Fantasima; e in vapore indi converso,
740Tremolando si sciolse, e all’aria sparve.
Così moría l’Eterno. Ai consueti
Balli movean gli antichi astri; dal cielo
Luminose partían come in tríonfo
Le magne ombre dei sofi, e a tutti innanzi
745Lucifero. Arrivò co’l Sol novello
Sul Caucaso nevato, ove al soffrente
D’adamantino cor figlio di Temi:
— Lèvati, disse, il gran tiranno è spento! —
FINE.
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