< Macbeth (Shakespeare-Rusconi)
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William Shakespeare - Macbeth (1605-1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quinto
Atto quarto Nota

ATTO QUINTO




SCENA I.
Dunsinane — Camera nel Castello.
Entra un Medico con una Dama della Regina.

Medico. Son già due notti che veglio con voi, nè posso ancora intravvedere la verità del vostro racconto. Qual fu l’ultima volta in cui s’alzò sonnambula?

Dama. Dappoichè Sua Maestà partì pel campo, io l’ho veduta levarsi da letto, indossare una tunica notturna, dischiudere la sua celletta, prendere alcune carte, spiegarle, poi scriverci sopra, poi leggerle, poi suggellarle, e tornar quindi a letto; e tutta ciò ell’ha sempre fatto sepolta nel più profondo sonno.

Medico. È l’effetto d’un gran disordine o fisico o morale il godere così i beneficii del riposo, e in uno eseguire le operazioni dell’uom desto. — Ma ditemi: in questo sonno ambulante, oltre alle azioni di cui mi parlaste, l’avete mai udita proferire alcuna parola?

Dama. L’ho intesa dir cose che non ripeterò.

Medico. Potreste però a me confidarle; è necessario ch’io ne sia istrutto.

Dama. Non le confiderò nè a voi nè ad alcun altro, non avendo alcun testimonio che potesse confermarlo. Ma eccola (entra lady Macbeth sonnambula con una torcia in mano), eccola quale l’ho vista le tant’altre volte: osservatela senza fiatare.

Medico. Dove ha trovata quella torcia?

Dama. Accanto al suo letto, avvegnachè tenga sempre il lume la notte.

Medico. Guardate come spalanca gli occhi!

Dama. Sì, ma dorme.

Medico. Che fa ora? perchè si stropiccia così le mani?

Dama. È un atto a cui è usata, e pare creda lavarsi; talvolta l’ho osservata a continuare in quell’azione per un quarto d’ora.

Lady Macb. Ma la macchia v’è sempre!

Medico. Sentite; parla. Vo’ scrivere quel che dirà, per farne sicuro tesoro nella memoria.

Lady Macb. Cancellati, esecrabile macchia... cancellati, dico! Una, due... due ore... è tempo di agire. — L’inferno mugghia tenebroso! — Oh! via, Macbeth, via! un guerriero aver timore? Aver paura che non lo si sappia quando alcuno non potrà più chiederci conto della nostra opera? — Però chi avrebbe creduto che il dannato vecchio avesse tanto sangue nelle vene?

Medico. Comprendete ciò?

Lady Macb. Il Thane di Fife aveva una moglie; dov’è ora..? Ma queste mani non diverranno dunque più terse..? No, basta, milord, basta: voi precipiterete ogni cosa col vostro sgomento.

Medico. Oh! s’esca di qui: qual tremendo segreto ho io divinato!.

Dama. Ella ha detto cose che dir non doveva, ne son sicura; e il Cielo solo sa di quai delitti fu colpevole.

Lady Macb. Quest’odore di sangue per tutto mi segue.....! più eletti profumi d’Arabia non varranno a render tersa questa piccola mano, (geme con ansia) Oh! oh! oh!

Medico. Qual sospiro è mai questo! oh come quel cuore è travagliato!

Dama. Non vorrei un tal cuore in seno per tutti i titoli di questo mondo. Pregate Iddio per lei, signore.

Medico. Questa malattia è al di là della sfera delle mie cognizioni: nondimeno ho conosciuti certi sonnamboli che son morti santamente nei loro letti.

Lady Macb. Tergi quelle mani, indossa la tunica notturna; non mostrarti si pallido. Sì, te lo ripeto, Banquo è sepolto, e non uscirà dal suo avello.

Medico. E questo, ancora?

Lady Macb. A letto, a letto; battono alla porta. Vieni, vieni; dammi la mano; il fatto è irreparabile..... andiamo..... a letto, a letto.                                             (esce lady Macbeth)

Medico. Ed ora va a coricarsi?

Dama. Appunto.

Medico. Folli accenti le uscirono di bocca... ma le sole azioni contro natura producono disordini contro natura. Le coscienze macchiate di delitti riveleranno sempre i loro segreti ai sordi origlieri su cui riposano... Addio, signora... quella infelice ha più bisogno del sacerdote che del medico. Dio, Dio, abbiate pietà di tutti (alla dama) Vegliate su di lei; toglietele ogni mezzo di nuocersi; e attendete sempre anche ai più piccoli suoi moti. Fenomeno sì strano m’ha confusa la mente e ottenebrati gli occhi; e colla facoltà del pensare sento mancarmi quella della parola.

Dama. Addio, onesto signore.

(escono)


SCENA II.
Una landa vicino a Dunsinane.
Entrano a man di tamburo e con vessilli spiegati Menteth,
Cathness, Angus, Lenox,
e molti gregarii.

Menteth. L’esercito inglese condotto da Malcolm, da suo zio Siward, e dal prode Macduff, si avvicina. I cuori di quei generosi ardono di vendetta; e la causa loro è si santa, che gli uomini più insensibili devono esserne scossi.

Angus. E’ mi pare che ben faremmo d’andar loro incontro al bosco di Birnam, poich’essi verranno certo di là.

Cathness. È noto se Donalbano abbia seguito il fratello?

Lenox. Credo del no; che fra i chiari di quell’esercito non lo intesi menzionare.

Menteth. E il tiranno come vive?

Cathness. Intende a fortificare il castello di Dunsinane. Alcuni lo dicono pazzo; altri, che meno il disamano, lo credono un demone valoroso. Ma ciò che sembra certo è, che nell’iniqua e disperata causa che difende, inordinato è ogni suo moto, incerta ogni disposizione.

Angus. Ora il terranno schiavo i rimorsi che gli divorano il cuore; ora le diserzioni incessanti che nel suo esercito han luogo gli rinfaccieranno il suo tradimento; ora s’accorgerà come nulla sia l’autorità senza l’amore, e come inetto ei fosse all’usurpata corona.

Menteth. Chi potrebbe non trovare adesso infermi i suoi sensi, se male in lui rispondono agli ufficii a cui li destinò il Creatore? Giusto è che tutte le facoltà di colui fremano d’essere accoppiate ad un tal mostro.

Cathness. Andiamo, andiamo a profferirci ubbidienti di cui dobbiamo; andiamo ad unirci al vendicatore di questo misero regno; e per sanare la travagliata nostra patria apprestiamoci a versare con lui tutto il nostro sangue.

Lenox. O almeno quanto ne occorrerà per inaffiare con tepido lavacro il giovine rampollo del trono, e annegare le malefiche spine che gli vietano di schiudersi in fiore. Dirigiamo i nostri passi al bosco di Birnam.

(escono marciando)

SCENA III.
Dunsinane. — Una Camera del Castello.
Entra Macbeth, il Medico e seguito di Cortigiani.

Macbeth. (ad alcuni messaggieri) Non vo’ più novelle di coloro, e fuggano anche tutti, se loro è a grado. Sinchè la foresta di Birnam non s’avanzerà su Dunsinane, non ho nulla a temere. Chi è questo Malcolm se non un fanciullo? Nol partorì forse una femmina? Gli spiriti aerei che presentono ogni sventura, dissero: Macbeth, non temere nulla d’uomo partorito di femmina. — Fuggite dunque a vostra posta, perfidi Thani, e aggiungetevi alle schiere dell’imbelle Inghilterra. L’anima che informa queste membra, e il cuore che mi batte in petto non ondeggieranno mai per irresoluzione o timore (entra un Paggio spaventato). — I demoni ti portino con quel tuo viso da stolto. Donde tanto terrore?

Paggio. Milord, hannovi diecimila...

Macbeth. Vili come te, scellerato.

Paggio. No, guerrieri, signore...

Macbeth. Vanne, e rivesti sembianze più umane, e dissipa quel nefando pallore che ti ricuopre. Quai guerrieri di’ tu, miserabile? di quai guerrieri hai tu inteso favellare?

Paggio. Di un esercito inglese, milord, che si avanza spaventoso.

Macbeth. Togliti dal mio cospetto... levami dagli occhi quell’allibito volto. — Seyton (richiamandolo)... mi sento il cuore dolente... Seyton... questo assalto deve affrancarmi o perdermi per sempre. — Vissi abbastanza... la mia vita al suo tramonto è già appassita, come la gialla foglia cui sfronda l’autunno; e quanto a ciò che accompagnar dovrebbe la vecchiaia, amore, obbedienza, considerazione, rispetto, io non ho più alcun dritto a pretendervi; invece insurrezioni, sommosse, maledizioni profonde e insopportabili corteggieranno alla tomba il decrepito re! Oh Seyton!... Seyton!...

Paggio. Milord!

Macbeth. Quali novelle recavi?

Paggio. Vi confermava quelle che sonovi state annunziate.

Macbeth. Ebbene, combatterò finchè le mie ossa scarnate rimangano nudo scheletro, pel più orrendo trofeo. — Porgimi le armi.

Paggio. Tosto?

Macbeth. Sì, vo’ rivestirle, vo’ ritornare un eroe. Oh mia onorata lorica! mia fulminea spada! Ordina poscia i cavalli, e scorrazza il paese: a fil di spada vadano quanti parleran di timore. — (al Medico) Dottore, come trovaste l’inferma?

Medico. Non tanto male di corpo, milord, quanto infiammata nello spirito, e atterrita da strane immaginazioni, che le tolgono il sonno.

Macbeth. Ebbene, non potete sanare un’anima malata? Strappar non potete dalla mente un dolore che vi si è radicato, cancellandone ogni vestigio? Compor non sapete un antidoto d’oblio, che fughi dal mio seno l’angoscia che lo dilania?

Medico. Spetta al malato in tal caso la propria guarigione.

Macbeth. Va; offri la medicina a’ cani: non voglio più nulla da te. Seyton, le armi; rivestimi delle mie armi. O trono, ti possiedo; nè ti perderò finchè mi rimanga la vita.

(escono)


SCENA IV.
La selva di Birnam.

Con tamburi e bandiere entrano Malcolm, il vecchio Siward e
     suo figlio
, Macduff, Menteth, Cathness, Angus, Lenox,
     Rosse,
e soldati.

Malcolm. Cugino, io credo non sia lontano il dì della salute.

Menteth. Nè cosa diversa mi sta nella mente.

Siward. Qual è cotesta selva?

Menteth. Il bosco di Birnam.

Malcolm. Ogni soldato ne sfrondi un ramoscello, e lo porti sollevato dinanzi a sè. In tal guisa asconderemo la massa del nostro esercito, e frustreremo le indagini de’ nemici che ci spiano.

Soldati. V’obbediamo.

Siward. Le ultime novelle che avemmo, recano che il tiranno racchiuso in Dunsinane vi si accinga indomito all’assedio...

Malcolm. In cui ripose l’ultima speranza.

Macduff. La prudenza nostra però stia in sè raccolta, e non vada scompagnata da ardire e da arte.

Siward. I tempi si avvicinano in cui debbono fissarsi le nostre sortì. A queste, e siano qual si vogliano, andiamo fidenti incontro, e rinunziando alle vane speculazioni apprestiamoci alle opere.

(escono)


SCENA V.
Il castello di Dunsinane.
Macbeth, Setton, e soldati in armi.

Macbeth. Piantate i vessilli sui baluardi, e splendano come comete di morte ai nemici che si avanzano. Il grido che incessante qui s’ode, è che s’avanzano. Ma sia; la forza di questo castello si fa beffe d’un assedio. Le malattie e la fame ci libereranno in breve degli assedianti, che, ove non soccorsi dai vili che ci disertarono, avremmo incontrati e sconfitti in campagna rasa. — Qual rumore è questo?

Paggio. Grida di donne, signore.

Macbeth. Quasi son fatto dimentico degli effetti della paura? eppure fu un tempo in cui mi sarei sentito agghiacciare il sangue udendo grida di notte; in cui i capelli mi si sarebbero rizzati sulla fronte a una spaventosa novella: ma ora non vi sono più atrocità, nè terrori che possano sgomentir l’anima mia, pasciuta fra scene di sangue... Però donde tante e sì ripetute grida?

Paggio. Signore, la regina è morta.

Macbeth. Ah, ella avrebbe dovuto almeno morir più tardi, quando tolto n’era il mezzo d’udire tal novella... Così il dimani, poi il dimani, poi un altro dimani ancora ci sorprende, e tutti i nostri giorni passati altro non fecero che rischiarare agl’incauti il sentiero che guida alla sepoltura. Oh spegniti, spegniti lampada ingannatrice: la vita altro non è che un’ombra incerta, che offusca brev’ora gli oggetti, poi si dilegua. È una favola narrata da un idiota con enfasi di gesti e di suoni, e che alla fine non significa nulla, (entra un Corriere) Quai cose rechi?

Corriere. Mio grazioso signore, vorrei istruirvi di quel che vidi, ma non ne ho il modo.

Macbeth. Animo, parla.

Corriere. Stando a vedetta sul colle che m’assegnaste, girai a caso gli occhi dal lato di Birnam, e vidi, oh inesplicabil cosa! tutta la selva in moto.

Macbeth. Vil menzognero!

Corriere. Sfogate in me la vostra collera, se il vero non dico. Alla distanza di tre miglia potreste vedere la stessa cosa... si vede una selva che s’avanza verso di voi.

Macbeth. Se falso è il tuo racconto, la tua vita, perfido, rammenderà. — (fra sè) Le mie speranze cominciano a intepidirsi, e temo che l’oracolo infernale abbia mentito con sembianze di verità: Non paventare finchè il bosco di Birnam non muova verso Dunsinane; parole inesplicabili che incessantemente mi ritornano alla memoria. — All’armi, all’armi, e a combattere. — Se la cosa ch’ei riporta è vera, mezzo più alcuno non rimane per fuggire, o per salvarsi qui restando. — La luce del sole comincia a farmisi incresciosa, e vorrei che in questo istante perisse con me l’universo. — All’armi, all’armi; suonino a stormo le campane; soffino aridi i venti: e tu, distruzione, vieni; apprestati a un lauto pasto, e ingoia me pure, ma cadavere di generoso, tutto coperto di ferro.

(escono)


SCENA VI.
Una pianura innanzi al forte di Dunsinane.
Malcolm, il vecchio Siward, Macduff, con soldati
portanti frondi d’alberi.

Malcolm. Fermiamoci qui; e voi soldati, gittate quei rami, e mostratevi quali veramente siete. — Mio nobile zio, a voi sia dunque confidato il primo assalto del castello, mentre il prode Macduff ed io vi saremo alle spalle.

Siward. Addio; e sia la fortuna con noi. Se di raggiunger c’è dato in questa sera l’oste nemica, consento ad esser vinto, se pei primi noi l’investiamo.

Macduff. Suonino con tutta forza le trombe, messaggieri della battaglia.

(cominciano le grida delle ascolte)


SCENA VII.
Altra parte di pianura.
Entra Macbeth.

Macbeth. E’ m’hanno avvinto come ad un giubbetto; nè fuggire più potendo, mestieri è bene che come un orso feroce io combatta sull’arena. Ma qual è il mortale che femmina non partorì? Solo costui io temer debbo, e null’altro.

(entra il giovine Siward)

Siward. Qual nome hai tu?

Macbeth. Fremeresti ad intenderlo.

Siward. No, quand’anche fosse quello del più feroce demone d’inferno.

Macbeth. Mi chiamo Macbeth.

Siward. Satana stesso non ne avrebbe potuto proferire uno più odioso al mìo orecchio.

Macbeth. Nè più tremendo per te.

Siward. Menti, esecrabile mostro; e la mia spada tel proverà. (combattono, e il giovine Siward rimane ucciso).

Macbeth. Eri partorito di donna, e ardisti combattere meco! Sprezzo la spada e l’armi di qualunque mortale uscito da una femmina, (parte; romore di guerra; entra Macduff).

Macduff. È da questo lato che s’udì lo strepito. Tiranno infame, fa ch’io ti vegga. Se d’altra destra, che della mia, perisci, i mani della mia sposa e de’ miei figli non cesseranno di perseguitarmi. E con pena che m’induco a combattere contro gl’infelici gregari, che loro malgrado obbligasti ad assumere la tua difesa. Sei tu, sei tu, Macbeth, ch’io richieggo; nè d’altro sangue, che del tuo, è assetato il mio ferro. Oh! mostrati, mostrati a me, spregevole scellerato, e la fortuna non m’udrà mai più poscia invocarla in questo mondo, (esce; continua il romore di guerra; entrano Malcolm e Siward il vecchio)

Siward. Da questa parte, signore, che la fortezza già già s’arrende. — I soldati del tiranno non combattono omai più, e il valore dei nostri è stato secondato benignamente dalla fortuna.

Malcolm. Ci scontrammo in nemici che non volevano ferirne, e vibravano i colpi all’aria.

Siward. Entriamo, signore, nella fortezza.

(escono; cresce lo strepito; rientra Macbeth)

Macbeth. Perchè dovrei recitar qui da solo la parte dell’eroe romano, e uccidermi da me stesso? Finchè vedrò uomini, le ferite staranno ben meglio sui loro petti. (rientra Macduff)

Macduff. Volgiti, mostro d’inferno, e mi guarda.

Macbeth. Di tutti gli uomini tu sei il solo che avrei evitato; ma fuggi, che l’anima mia è già troppo satolla del sangue de’ tuoi.

Macduff. Non ho parole per te. La mia risposta sta sulla punta di questa spada, sanguinoso tiranno, cui non è nome che si adegui.

(combattono)


Macbeth. Son vani i tuoi sforzi. Tu potresti più facilmente ferire quest’aura che c’insulta il viso, di quello che vibrare su di me i tuoi colpi. Drizza il tuo ferro verso chi non è invulnerabile; la mia vita è difesa da potenze soprannaturali, e niun mortale partorito di donna potrebbe privarmene.

Macduff. Allora dispera della tua salute, e il gnomo che ti protesse, t’insegni che Macduff fu strappato col ferro dal fianco materno assai prima del termine a ciò fissato da natura.

Macbeth. Maledetta la lingua che mi rivela un tal mistero! Essa ha spento il coraggio nel mio cuore, che ornai più non presta fede ai demoni ingannatori, e travede gl’ingannevoli oracoli con cui quei tenebrosi ne danno fidanza. — Non vuo’ combattere contro di te.

Macduff. Arrenditi dunque, miserabile, e vivi per essere mostrato in ispettacolo ad un popolo che t’insulterà. Entro un carcere orrendo passerai il resto di tua vita, e una scritta istruirà il passaggiero, che è ivi che si conserva il tiranno.

Macbeth. No, non mi arrenderò per baciare la polvere dinanzi ai piedi del giovine Malcolm, e per udirmi esecrato dalle maledizioni d’un popolo. Ancorchè il bosco di Birnam m’abbia mosso incontro, e te una femmina partorito non abbia, combatterò non di meno, e fino alla morte. Mira: io già mi copro del bellicoso mio scudo. Investimi ora, se l’osi; investimi, Macduff, e si abbia l’inferno colui che griderà primo: mi arrendo, (escono combattendo; i tamburi cominciano a suonare a raccolta; un istante dopo entrano vittoriosi a suon di trombe Malcolm, Siward il padre, ecc. ecc.)

Malcolm. Vorrei che tutti i nostri amici, che qui non vediamo, fossero in salvo.

Siward. Converrà sopportare la perdita di qualcuno di loro; e vedendo quanti ancora ce ne rimangono, riputare ottenuta a buon prezzo questa grande vittoria.

Malcolm. Macduff però ci manca, nè veggo tampoco il generoso vostro figlio.

Rosse. (a Siward) Vostro figlio, signore, pagò il debito del guerriero, e visse appunto quanto bastava per divenir uomo, e difendere senza arretrarsi il posto affidatogli.

Siward. Oh! egli è adunque morto?

Rosse. Sì; e già tolto dal campo, ove perì. Ora non vogliate agguagliare il dolor vostro alla grandezza della vostra perdita; perchè, così operando esso sarebbe insopportabile.

Siward. La ferita la ricevè egli dinanzi?

Rosse. Sì, nella fronte.

Siward. Ebbene! accolga Iddio la sua anima. Avessi tanti figli, quanti ho capelli, che loro non augurerei morte migliore di questa! In tale voto io voglio che stiano tutti i suoi onori funebri.

Malcolm. Ei ne merita di più; ed io gliene renderò.

Siward. Ebbe quanto meritava, morendo da generoso. Il suo tributo è pagato: or sia Iddio con lui. — Ma ecco nuovo motivo di consolazione, (entra Macduff portando sopra un’asta il capo di Macbeth)

Macduff. Salve, o buon re; che tale già sei fatto. Mira ove posa la testa dell’usurpatore! Il mondo è libero infine di questo mostro, e già io ti veggo attorniato da tutto il fiore del regno, che con gioia ripeterà questo mio grido: Viva il re di Scozia! (un alto squillo di trombe, e grido generale di Viva il re di Scozia!).

Malcolm. Non molto tempo trascorrerà, prima che riconoscenti ci mostriamo al vostro zelo. Per ora, Thani, e signori del mio sangue, siate Conti, e dei primi che mai vedesse la Caledonia. Per quello che mi rimane a fare, per gli atti nuovi che questo rivolgimento richiede: richiamare in patria gli esuli che si sottrassero alla tirannia; punire i crudi ministri di questo truce re e della sua infernale regina, che, a quanto dicesi, s’è uccisa di propria mano; questi doveri, e tanti altri che ne incombono, li riempiremo, coll’aiuto di Dio, con fermezza e prudenza. Intanto vi sieno rese grazie a tutti, e a ciascuno singolarmente, e piacciavi accompagnarne a Scone (1), per assistere alla nostra coronazione.

(marcia festosa; escono)

FINE DELLA TRAGEDIA.

  1. Scone era il luogo dove i re di Scozia venivano incoronati sul tronco d’una quercia che serviva alla loro inaugurazione «Regem oportunum insidiis ad Ennernesam, nactus, septimum jam regnantem annum, obtruncal; de manu collecta Sconam profectus, populari favore fretus, Regem se dicit», Buchanani, Rer. Scoticar, Hist.


Note

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