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NOTA
Delle Maccheronee il Folengo ci ha lasciato quattro redazioni stampate (manoscritti non si conoscono), molto diverse fra loro: mirabile prova della serietá artistica, dell’amorosa cura con cui dalla prima giovinezza sino alla morte egli elaborò i suoi poemi, martellandone quasi, instancabile cesellatore, ogni esametro.
L’edizione principe del Baldus in 17 libri (Venetiis, in aedibus Alexandri Paganini, inclito Lauredano principe, kal. ian. MDXVII; riprodotta una sola volta, nel 1520, a Venezia da Cesare Arrivabene) è poco piú di un abbozzo di adolescente precoce. Ci dá i canti goliardici sbocciati a Bologna, tra la gaia baraonda universitaria; ritoccati dal Folengo, con segreto rimpianto delle sue scapestrerie studentesche, negli inizi della clausura monastica. Benché il volumetto contenga embrionalmente tutti i germi fecondi dell’arte folenghiana, può nondimeno esser lasciato affatto in disparte (come semplice curiositá da eruditi) in una ristampa delle Maccheronee.
Ben altro valore compete alla seconda redazione di quattro anni dopo: alla Toscolana (Tusculani apud lacum benacensem, Alexander Paganinus, MDXXI die V ianuarii). Il frate, omai pronto alla ribellione, rivela con audacia sfolgorante il suo genio di poeta realista e satirico: l’irruente giovanile esuberanza si riversa, oltreché negli ampliati poemi, nelle bizzarre prefazioni appostevi col fittizio nome di Aquario Lodola (cfr. Appendice III), nelle annotazioni marginali ond’è come da perenne commento autentico assiepata ogni pagina. Il Rabelais ebbe indubbiamente tra mano la Toscolana e ne derivò motivi non pochi di parodia, come dimostrai ne’ miei Studi folenghiani (Firenze, 1899, pp. 46-52) e piú ampiamente ha svolto il Thuasne (Études sur Rabelais, Paris, 1904, pp. 159-265), a cui s’attiene pedissequo il Plattard (L’oeuvre de Rabelais, Paris, 1910).
La Toscolana fu riprodotta a Milano nel 1522 (per magistrum Augustinum de Vicomercato), e ristampata più volte a Venezia durante il Cinquecento (cfr. Portioli, Le opere maccheroniche di M. C., Mantova, 1882, I, p. XCVI). Per tacere di altre due ristampe del Seicento, venne posta a base delle grandi edizioni mantovane del Settecento (quella Terranza, con la falsa data di Amsterdam, 1768-72) e dell’Ottocento (la citata Portioli); nelle quali due ultime però la Toscolana fu improvvidamente spogliata del suo massimo pregio, le prefazioni e le note.
Il successo entusiastico riscosso dalla seconda redazione del Baldus cacciò immeritatamente nell’ombra le due successive, che racchiudono un’espressione più completa e matura dell’arte folenghiana: la Cipadense e le stampe conosciute sotto lo pseudonimo indecifrabile di Vigaso Cocaio.
Quando la Cipadense fosse pubblicata non è agevole stabilire con precisione: par certo soltanto che uscisse dalle officine del Paganini, editore delle due prime redazioni. Nell’avvertenza di Francesco Folengo (cfr. Appendice II) è detto che il cugino Teofilo gli consegnò il manoscritto nell’ottobre del 1530, partendo da Ancona per ritrarsi col fratello Giovan Battista nell’eremo di Capo Campanella; e nell'Errata-corrige finale si spiegano le molte mende con la lontananza dell’autore: sta però di fatto che in più passi del Baldus sono chiaramente adombrati avvenimenti posteriori al 1530. P. es., nel libro XIX (vv. 403-5) si deplora la morte di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, ucciso a Vicovaro nel dicembre 1532. Nel libro XXV (cfr. nell’appendice II le varianti ai vv. 240, 243) Megera nomina due volte un papa Paolo preconizzato restauratore della Chiesa cattolica, e non può non riferirsi a Paolo III, eletto nell’ottobre 1534. Forse nel libro XVIII (vv. 480-82) si accenna alle gesta africane di Carlo V e di Ferrante Gonzaga (luglio-agosto 1535). Ce n’è quanto basta per concludere che il Folengo per lo meno sino al 1535 introdusse modificazioni nella Cipadense: la quale uscì probabilmente tra il 1539 e il ’40, dacché vi è celebrato, come ancor vivo Federigo Gonzaga duca di Mantova († giugno 1540), mentre non vi figura più l’entusiastico elogio per Isabella d’Este († febbraio 1539: cfr. Portioli, I, 117).
La Cipadense fu ristampata una sola volta nel 1555 (Venetiis, apud Petrum Bosellum): i suoi esemplari sono pressoché scomparsi; se ne conoscono solo quattro, esistenti nella Comunale di Mantova, nella Vittorio Emanuele di Roma, nel British Museum, che ne ha due (Thuasne, p. 173).
A impedirne la diffusione dovettero anzitutto contribuire le scappate poco ortodosse (nella predica di Cingar del libro ix è rammentato con deferenza Martin Lutero!): poi, le sorvenute edizioni di Vigaso Cocaio, la prima delle quali vide la luce a Venezia, otto anni dopo la morte del Folengo (Merlini Cocalii poëtae mantuani Macaronicorum poëmata, Venetiis, MDLII, cum privilegio illustrissimi senatus venetorum). Si è creduto finora che la stampa fosse procurata da Pietro Ravani: ma a buon conto il privilegio, conservato nell’Archivio di Stato di Venezia (Senato, Terra, filza 13), venne chiesto e ottenuto da Giovanni Varisco.
Serenissimo Principe, eccelsa ed illustrissima Signoria,
Perché il fedelissimo servitor della Serenità Vostra, Zuani de Varisco desidera far stampar le Deche di messer Pietro Martire delle cose del mondo novo, tradotte de latino nella volgar lingua, e la nova Macaronea di Merlino, e dubita che della fatica sua alcun altro non venisse ad aver il premio, ristampando quelli; però a piedi di Vostra Serenità ricorre la si degni concedergli che per anni diece alcun altro non possa imprimere né impresse vendere, cosí in questa città di Venezia, come ancor in ciascuna città e luoco suo, le dette opere senza licenza di esso supplicante. Con pena a chi contrafacesse, di perder tutte le opere qual’avesse stampato, e de ducati diece per una, uno terzo della qual pena sia di quello che darà la denonzia, l’altro terzo dell’arsenale di Vostra Serenità e l’altro terzo della Pietà. Ed alla buona grazia di Vostra Serenità umilmente prostrato si raccomanda.
1551, die 2 iunii in rogatis
Che per auttorità di questo Consiglio sia concesso a Zuanne de Varisco, che niuno altro che lui senza sua permissione non possi stampar né far stampar in questa cittá e in tutto il dominio nostro, né stampate altrove vendere in quelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . la nova Macaronea di Merlino, per anni diece; sotto pena a chi facesse in contrario di perder le opere stampate, e ducati 10 per cadauna opera, un terzo de la qual pena sia di quello che darà la denonzia, l’altro terzo dell’arsenale e l’altro della Pietà...
De parte ... 155 — De non ... 6 — Non syncere ... 15.
Malgrado queste comminatorie, Pietro Ravani ristampò due volte l’edizione di Vigaso Cocaio: nel 1554 e s. a.; il Varisco la reimpresse nel 1561, corredandola di rozze xilografie («nunc recens accurate recognita cum figuris locis suis appositis: Venetiis, apud Ioannem Variscum et socios, MDLXI»).
Queste edizioni di Vigaso Cocaio giovarono immensamente alla fama del Folengo in Francia e in Italia: l’una di esse cadde tra mani dell’anonimo, geniale scrittore a cui si deve la versione francese del Baldo e della Moscheide, comparsa nel 1606 col titolo: Histoire macaronique de Merlin Coccaie, prototype de Rabelais... Paris, chez Toussaincts du Bray (ristampata dal bibliofilo Jacob, Parigi, 1859, 1876, ed. Garnier, con ommissione della Moscheide). Quel traduttore francese conosceva mediocremente l’italiano e non era affatto in grado di cogliere molte peculiarità dialettali delle Maccheronee: pure aveva un intuito cosí meraviglioso del carattere poetico del Folengo, ch’egli ne ha reso in complesso perfettamente lo spirito, se pure ha tradito troppo di sovente la lettera.
Ma la fortuna maggiore dell’edizione di Vigaso Cocaio fu d’esser prescelta da Francesco de Sanctis, che se ne valse per dettare il suo stupendo capitolo decimoquarto della Storia della lett. it.: insuperata e definitiva valutazione dell’arte (se non in tutto, delle tendenze politico-religiose) del Folengo.
Come mai invece la critica erudita s’impuntò a gabellare per una ciurmeria l’edizione di Vigaso Cocaio? (cfr. ciò che io pure ne dissi nel Giorn. stor. d. lett, it., XIV, 395). La spiegazione è presto detta: fu attribuita soverchia importanza a circostanze esterne; non si penetrò abbastanza ne’ pregi intrinseci dell’opera d’arte, che portava in sé il suggello più luminoso dell’autenticità.
Vigaso Cocaio premise alla sua stampa una pappolata (cfr. Appendice I), che è davvero un impasto di inesattezze e di incongruenze. Si spaccia per maestro del poeta (un maestro di longevità privilegiata, che sorvive al discepolo); e narrandone la vita, a farlo apposta, accumula errori su errori precisamente intorno a quel periodo giovanile in cui il Folengo l’avrebbe avuto ai fianchi per mentore. Come roba propria egli ha poi inserito in quel pasticcio di prefazione la lettera di Niccolò Costanti, posta in fine alla Cipadense, dove si strombettano esagerate lodi del Folengo, proclamato superiore a Virgilio, a Dante, al Petrarca.
Se a ciò s’aggiunga che qua e lá talune modificazioni non paiono a prima vista plausibili; che nel libro XXII non si trovano più molti versi importantissimi della digressione autobiografica; che certe prolissitá e ridondanze fanno talora desiderare piú briosa sveltezza; ognuno comprenderá quanto facile fosse, in un esame frettoloso e superficiale, sentenziare mistificatrici le stampe di Vigaso Cocaio, come, sull’orma d’altri molti, facemmo il Portioli ed io.
Ma il mio errore emendai giá negli Studi folenghiani: ed ora alla redazione serbataci da Vigaso Cocaio restituisco tutta l’autoritá che le spetta, ponendo la Varisco 1552 a base di questa ristampa delle Maccheronee.
Dalle varianti della Cipadense, che ho costipato nell’Appendice II, scaturisce evidente che solo il Folengo, attardandosi con industre pazienza, sino agli ultimi istanti della vita, su questa creazione prediletta della sua fantasia, poteva avervi apportato cosí profonde, organiche, conseguenti e quasi sempre felicissime modificazioni.
Il processo evolutivo dell’arte sua si mantiene sempre costante. Dalla forma latina corretta passa invariabilmente a giri di frase piú maccheronici, per accrescer la prevalenza degli elementi volgari e dialettali: dagli espedienti buffoneschi, talvolta addirittura meccanici e grossolani, assorge a forme d’arte piú cosciente e riflessa, mirando ad ottenere la comicità con la riproduzione piú esatta del reale, con lo studio piú meditato de’ caratteri, con lo svolgimento piú ampio degli episodi. Come ha scritto il Thuasne (p. 172): «Il est certain que la forme un peu sèche et aride de la rédaction de la Toscolana fait place dans la Cipadense et dans l’édition de Vigaso Cocaio à une richesse vraiment extraordinaire, quelquefois même prolixe, de descriptions réalistes, qui excellent dans les détails intimes et vécus et dans l’observation exacte et toujours spirituelle des mille incidents de la vie; le tout exprimé dans une langue vivante et colorée, où le vers est d’une facture supérieure à celle des anciennes rédactions».
Questo maggior valore estetico s’appalesa, nelle stampe di Vigaso Cocaio, giá subito nella Zanitonella, rimodellata da mano maestra. La Zanitonella nella Cipadense era stata un po’ trascurata dal Folengo. Non pago di accodarla al Baldus, ne aveva addirittura sacrificata l’ultima parte, sopprimendo come estranee al quadro ristretto degli amori di Tonello e Zanina le due egloghe VI e VII della Toscolana. Ma nella stampa di Vigaso Cocaio le due egloghe falcidiate ricompaiono, e con modificazioni «rilevantissime», come ha notato giustamente il Cotronei nel Giorn. st. d. lett. it., XXXVI, 295. Chi mai se non il Folengo avrebbe potuto non solo rifarle da capo a fondo con cosí pittoresca rappresentazione de’ costumi rusticani, ma dar loro quell’intimo legame che le rannoda saldamente al resto della Zanitonella? (cfr. l’Appendice III).
Un altro esempio di innovazione artistica squisita abbiamo nell’episodio di Tognazzo, beffato atrocemente da Cingar e Berta. Il vecchio pazzo, nel ricordare l’estinta consorte, si abbandona anche nella Cipadense ad un elogio grottesco, che richiama le lodi del Berni alla sua donna:
Chiome d'argento fine, irte e attorte.
La parodia è troppo sbardellata per produrre altro effetto che quello d’una sghignazzata grossolana: meglio avvisato, il Folengo pone in bocca a Tognazzo encomi appropriati, che riescono molto più comici per la serietá con cui li pronuncia il solenne console di Cipada (vv. 527-44 del libro VI).
I ritocchi fatti dal Folengo all’eloquente arringa di Berta in difesa del bistrattato bel sesso (libro VI, vv. 435-526) dimostrano egualmente il piú fine magistero d’arte: e generalmente la sua mano fu sempre ben guidata sia nell’aggiungere qualche tratto alla caratteristica dei personaggi, sia nel variare gl’ingredienti di quel suo realismo «rapido, nutrito di fatti, sobrio di colori», sia nel rendere la dizione piú scorrevole e incisiva, piú facilmente intelligibile a tutti.
È invero degno di nota che mentre il Folengo volgarizza e maccheronizza (sit venia verbo) di piú l’espressione, evita però nell’ultima redazione, in confronto della Cipadense, certe locuzioni troppo strettamente dialettali, che anche la comune de’ lettori italiani del suo tempo non avrebbe potuto comprendere senza le note marginali della Toscolana o senza un apposito lessico.
Quali son dunque le modificazioni della Vigaso Cocaio da lamentare ne’ rispetti dell’arte? — Francamente, non ve ne sono che di trascurabili, data la vastitá del rifacimento, o di pienamente giustificate.
Se il Folengo ridusse a pochi versi i molti brani di latino classico di cui riboccava la Cipadense, lo fece sicuramente e per serbare alle Maccheronee maggior unitá di colorito, e per eliminare composizioni, che, nelle more della stampa, affidata al cugino Francesco, aveva creduto nel 1533 di pubblicare co’ Pomiliones del fratello Giovan Battista. Questa ripetizione dové parere sconveniente al Folengo, che diè quindi di frego alla maggior parte de’ canti del suo Giuberto, contenendoli in piú discreti limiti (libri XIII, XV, XX).
La soppressione de’ versi autobiografici, giá ricordati, spiegai ne’ miei Studi (p. 85) come dovuta all’ovvio riconoscimento, da parte del Folengo, che quelle scuse apologetiche mal colorate non reggevano all’evidenza de’ fatti; ond’era piú savio consiglio tacere.
Rincrescevole insomma può dirsi la sola mulilazione del lungo discorso, che il vecchio Guido volge morente al suo Baldo per incitarlo alla virtú (cfr. le varianti della Cipadense al libro xviii). Il Folengo tagliò netta la chiusa; e fu male, non giá perché que’ versi abbiano pregi peregrini di pensiero e di stile, ma perché gli austeri ammonimenti del padre all’eroe avrebbero messo meglio in luce quanto il Canello (Lett. it. nel sec. XVI, p. 175) e il Cotronei (l. c. p. 311) acutamente intravidero: che la figura di Baldo fu concepita dal poeta «con un gran fondo di serietá»; che non son quindi da accentuar troppo, sulla falsariga del De Sanctis, le apparenze «ciniche» del Folengo, nella cui poesia sotto esterioritá giullaresche vibrano nobili sensi, elevati intendimenti morali.
Prescindendo da qualche timido accenno luterano (p. es. quella malvelata negazione del libero arbitrio che è nella Zanitonella, vv. 563-66), è incontestabile ch’egli voleva sinceramente e fervidamente una riforma interna della Chiesa tralignata: è del pari manifesto che nell’anima sua ruggivano fiere collere patriottiche contro il dominio straniero. Pochi connazionali avevano allora cosí magnanimo orgoglio di italianitá, come quello che ispira i vv. 346-50 del XXV libro.
A piú retta valutazione delle tendenze politico-religiose del Folengo varrá dunque la conoscenza del poema, nella redazione definitiva, su cui cadde stanca la sua mano di correttore incontentabile.
Nel ristampare le Maccheronee, con quanta piú accuratezza mi è stata possibile tramezzo ad altre occupazioni troppo diverse, ho cercato di far sí che questa edizione riunisse i pregi delle tre redazioni di maggior valore. Come perciò al testo della Vigaso Cocaio ho fatto seguire complete le varianti della Cipadense, cosí ho voluto che delle prefazioni e delle glosse marginali della Toscolana non fossero defraudati i lettori: quelle ho recato per intero; queste ho conglobato nel lessico, al quale ho dato un’estensione, che certo non avevano né il saggio insignificante del Portioli, né l’altro più ricco del Terranza. Mi auguro che, mercé queste cure reso accessibile a tutte le persone colte, sia pienamente compreso, e gustato quanto vale, il più grande poeta realista d’Italia1.
Note
- ↑ Per la letteratura critica sul F., cfr. Gaspary, St. d. lett. it., 2. ed., p. 315 sgg.; Flamini, Il Cinquecento, pp. 543-44; a cui s’aggiungano: Continelli, Il Baidus, Cittá di Castello, 1904; Miscellanea D’Ancona, pp. 423-44, 603-11; i cit. lavori del Thuasne e del Plattard; il buon saggio critico del Biondolillo, La macheronea di M. C., Palermo, 1911 (su cui Giorn. st. d. lett, it., lviii, 389), e un acuto scritto del Parodi, nel Marzocco del 21 maggio 1911.