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CAPITOLO III.
Fantasmi del passato.
Il sole era tramontato e le cicale non cantavano più. La costa boscosa in faccia alla biblioteca si disegnava nera sotto il limpido cielo aranciato che posava un ultimo lume caldo sul pavimento della sala presso alle finestre, e, fuori, sulle foglie lucide brune della magnolia, sulla ghiaia del giardinetto. Per la porta aperta entrava l’aria fresca del vallone e lo stridìo dei passeri intorno ai cipressi.
Il conte, seduto allo stesso posto della mattina, si teneva coperto il viso con ambe le mani appoggiando i gomiti al tavolo. Silla, in faccia a lui, aspettava che parlasse.
Ma il conte pareva di pietra; nè parlava, nè si moveva. Solo qualche volta le otto magre dita nervose si alzavano dalla fronte tutte insieme, si tendevano; poi, ripiegandosi, parevano volersi imprimere nell’osso. Silla guardava rotear sul pavimento l’ombra d’un pipistrello che non trovava la via di uscire, batteva le librerie, il soffitto angosciosamente.
Anche dentro alla fronte severa del vecchio gentiluomo v’era un’angoscia di parole che non trovavan la via di uscire. Era l’ora che turba il cuore; quell’ora in cui, mancando la luce, le cose e le anime si sentono libere, quasi, da una vigilanza fastidiosa; i monti paiono coricarsi a grande agio sul piano, le campagne dilagano sopra villaggi e casali, le ombre pigliano corpo, i corpi sfumano in ombra, nel cuore umano affondano le impressioni, i pensieri del presente, e vien su un movimento confuso di ricordanze lontane, di fantasmi che inteneriscono e fanno sospirare in silenzio.
Ad un tratto il conte alzò con impeto il viso e disse:
— Signor Silla!
Tacque un momento e riprese lentamente:
— Quando avete letto la mia lettera, il nome che vi trovaste sotto Vi era sconosciuto?
— Sconosciuto.
— Non era nella memoria Vostra la traccia più lieve di questo nome?
— Nessuna.
— Dalle persone con le quali avete vissuto non udiste mai parlare di qualcuno il cui nome non era pronunciato e che avrebbe potuto trovarsi un giorno nelle circostanze più difficili della vita?
— No. Da chi ne avrei inteso parlare?
Il conte esitò un istante, poi ripetè a voce bassa:
— Dalle persone con le quali avete vissuto.
— Mai.
— Vi ricordate almeno di aver veduta la mia fisionomia?
Silla era sorpreso di tanta insistenza.
— Ma no — diss’egli.
— Eppure — ripigliò il conte — or sono diciannove anni, un giorno in cui vi si era punito severamente per avere spezzato un vaso di cristallo, all’uscire da uno stanzino buio, dove vostro padre vi aveva tenuto chiuso per parecchie ore, vedeste un momento il mio ritratto.
Silla balzò in piedi; il conte si alzò pure e, dopo un momento di silenzio, girato il tavolo, andò a piantarsi presso il suo interlocutore, voltando il viso al chiarore morente del crepuscolo.
— Vi ricordate? — diss’egli.
Silla rispose stupefatto. Non ricordava il ritratto, ma sapeva benissimo d’aver spezzato il vaso di cristallo e d’essersi rifugiato, dopo il castigo, nella stanza di sua madre.
— Vedete che Vi conosco da lungo tempo. Ne dubitate? Adesso vado a dirvi quello che so di voi.
Il conte si pose a camminare su e giù parlando. Si udiva il suo vocione andare e venire per la sala piena d’ombra: si vedeva la sua figura bizzarra illuminarsi e oscurarsi a vicenda, quando passava davanti alle finestre.
— Voi siete nato nel 1834 a Milano, in via del Monte di Pietà. Vostra madre Vi diede il suo latte, Vostro padre vi diede una culla d’argento e una bambinaia brianzuola che doveva esser creduta dal mondo la Vostra balia. Questa donna è morta appena lasciato il Vostro servizio. Voi non la potevate soffrire, non è vero?
— Non lo ricordo; me l’hanno detto, però; me l’ha detto più volte mia madre.
— Sicuramente. Volete sapere qual è il Vostro ricordo più lontano? Questo. Avevate cinque anni. La sera di un giorno in cui vi era stato in casa Vostra un insolito affaccendarsi di servi, un trambusto d’operai e si eran portate montagne di dolci e di fiori, Vi posero a letto prima dell’ora solita. A tarda notte foste svegliato da un suono di musica. Poco dopo, l’uscio della camera si aperse. Vostra madre venne a chinarsi sopra di Voi, Vi baciò e pianse.
— Signor Conte! — esclamò Silla con voce soffocata — come fa Lei a sapere queste cose?
— Alcuni anni più tardi — continuò senz’altro il vocione del conte — quando Voi ne avevate tredici, nel 47 insomma, avvenne in casa Vostra qualche cosa di straordinario.
Il vocione tacque, il conte si fermò, lontano da Silla, con le spalle alla porta del giardinetto.
— Non è vero? — diss’egli.
Silla non rispose.
Il conte riprese la sua passeggiata.
— È forse crudele — proseguì — di ricordare queste cose, ma io non sono amico di certe mollezze sentimentali moderne; io credo che è molto bene per l’uomo di ripassare ogni tanto le lezioni e i precetti ch’egli ha avuto, direttamente o indirettamente, dalla sventura, e di non lasciarli estinguere, di rinnovare il dolore, perchè è il dolore che li conserva. E poi il dolore è un gran ricostituente dell’uomo, credete; e in certi casi è un confortante indizio di vitalità morale, perchè dove non vi è dolore, vi è cancrena. Dunque nel 47 accadde in casa Vostra qualche cosa di straordinario. Andaste a dimorare parecchi giorni a Sesto, in casa C... La carrozza che vi ricondusse a Milano, si fermò davanti ad un’altra casa, in via Molino delle Armi. Era una casa molto diversa da quella del Monte di Pietà e vi avete fatto una vita molto diversa. Non più servi, non più ricche suppellettili. Voi sapete, una parte di quelle suppellettili, dove si trova.
— Ma come?... — interruppe Silla.
— Furono vendute, naturalmente.
— Ma perchè Lei?...
— Quello è diverso, ne parleremo in seguito. Cosa dicevo? Ah, Voi siete dunque andato ad abitare un quinto piano in via Molino delle Armi. Dalla finestra di una camera da letto si vedevano queste montagne. Lassù avete cominciato a fare anche Voi il solito sogno di diventare qualche gran cosa e di empire il mondo del Vostro nome.
— Signor conte — disse Silla — mi pare che basti. Dica cosa desidera da me!
— Più tardi. Non è vero che basti. Vado a dirvi dei fatti della Vostra vita che non sapete Voi stesso. Vi è dunque venuta questa salutare follìa della gloria, che Vi ha preservato, con una promessa fatta di niente, dalle solite corruzioni. Sciaguratamente avete pensato a procacciarvi la gloria con gli scritti invece che con le azioni. Lasciatemi dire; sono un vecchio. Con gli scritti letterari, poi! E non avete avuto la forza di carattere, la fiducia in Voi stesso che ci voleva per seguire da uomo questo proposito. Invece di chiudervi nel Vostro bozzolo della letteratura, siete andato a Pavia. Cosa avete studiato a Pavia?
— Leggi.
— Tutto fuorchè leggi avete studiato. Lo so, volevate una carriera proficua, pensando a Vostra madre; ma allora bisognava volere virilmente: tagliarsi via mezzo il cuore e andare avanti col resto. Cosa avete fatto al vostro ritorno da Pavia? Avete pubblicato un romanzo. Ecco il fatto che non sapete. Quel poco di oro che Vostra madre Vi diede perchè servisse alla stampa del libro, non era punto, come ella Vi disse e Voi avete creduto, un dono de’ suoi parenti; il giorno prima ella aveva portato al gioielliere i suoi ultimi brillanti, una memoria cara di famiglia.
— Il Suo diritto? — esclamò Silla slanciandosi verso il conte. — Il Suo diritto di sapere queste cose?
— Il mio diritto? Questione molto oziosa. Vostro diritto è sicuramente di vedermi in faccia.
Il conte suonò.
Silla taceva, ansante. Il conte andò ad aprire l’uscio, e aspettò fin che udì un passo nel corridoio.
— Lume! — diss’egli, e andò a sedersi al tavolo.
— Non è vero, non è vero! — disse Silla sottovoce. — Non fui questo sciagurato ch’Ella dice! Me lo provi, se può.
Il conte non rispondeva.
— Io — continuò Silla — che avrei dato il sangue per mia madre, che l’adoravo, che non volevo neppure quel denaro perchè i parenti di mia madre non potevano soffrire ch’io scrivessi, e, conoscendoli, temevo s’irritassero contro mia madre per causa mia!
Il conte si pose l’indice alle labbra. Un domestico entrò con il lume, lo pose sul tavolo e si ritirò.
— Quando io affermo una cosa, mio caro signore — disse il conte — è provata.
— Ma in nome di Dio, chi!
— Adesso lasciamo stare. Io non voglio accusarvi di avere accettato un sacrificio simile. Voi non lo sapevate. Del resto la vita è così. Vi è sempre nei giovani questa baldanza ridicola di credere che la terra è beata del loro piede e il cielo del loro sguardo, mentre i loro genitori pestano fango e spine per portarli avanti, nascondendo quello che soffrono proprio negli anni in cui il loro corpo invecchia, il loro spirito è stanco, e tutte le dolcezze della vita, ad una ad una, se ne vanno.
— Dio! Se fosse vero, mi vituperi, m’insulti!
— Io non vi ho fatto venire in casa mia per vituperarvi. E poi, se avrete figli, pagherete. Bisognerebbe vituperar Voi, me e tutta questa buffonesca razza umana. Proseguiamo. Il Vostro libro non ebbe fortuna; per verità mi pare di potermi rallegrare con Voi, che la fortuna non è Vostra amica. Nel 58...
Il conte si fermò e poi riprese a voce bassissima:
— Non è a temere che Voi dimentichiate mai il colpo che riceveste nel 1858.
Tacque daccapo, e per qualche momento durò non interrotto il silenzio.
— Devo pur dirvi, a questo punto — riprese il conte — che se io V’intrattengo sui casi della Vostra vita oltre quanto sarebbe necessario per dimostrare che Vi conosco bene, si è perchè intendo di meglio giustificare in tal modo le proposte che vado a farvi. Dunque, nel 59 avete fatto il Vostro dovere e vi siete battuto per l’Italia. Vostro padre...
— Signor conte!
— Oh, voi mi conoscete molto male se potete credere che io voglia offendere davanti a un figlio la memoria di suo padre, anche se quest’uomo ha commesso degli errori e ha meritato delle censure. State tranquillo. Vostro padre non era più a Milano quando vi siete tornato Voi. Era nel paese straniero dove intendo che ha cessato di vivere due anni sono, nel maggio del 62. Vi trovaste solo colla Vostra letteratura. Allora foste improvvisamente chiamato a insegnar lingua italiana, geografia e storia in un istituto privato, di cui non conoscevate neppure il nome. Avete mai saputo come quei signori abbiano scelto appunto Voi?
— No.
— Non importa. In quel tempo avete avuto una offerta dai parenti di Vostra madre, dai Pernetti Anzati, non è vero? Volevano che entraste nella loro Filatura e Vi offrivano un lauto assegno; non è così?
— Sì, ma è forse Lei che mi ha fatto eleggere?
— Non importa, Vi dico. Avete rifiutata l’offerta dei Pernetti Anzati. Fatto bene, molto nobilmente. Meglio un lavoro che frutta poco pane e molta civiltà, di un lavoro che converte in denaro il tempo, la salute e una buona parte dell’anima. Ma adesso l’istituto al quale appartenevate ha fatto cattivi affari e venne chiuso. Io credo che voi non sarete malcontento di occuparvi in qualche altro modo degno, ed è per questo che Vi ho pregato di venire da me.
— La ringrazio — rispose Silla asciutto asciutto. — Prima di tutto, posso vivere.
— Oh!— interruppe il conte. — Chi parla di questo? Lo so benissimo, i Pernetti Vi passano l’interesse di una parte della dote di Vostra madre che si trattennero sempre, un migliaio e mezzo di lire circa. E poi?
— E poi — proruppe Silla con forza — voglio sapere finalmente chi è Lei, perchè si occupa di me!
Il conte indugiò un poco a rispondere.
— Io sono un vecchio amico della famiglia di Vostra madre, e Vi porto molt’affezione per la memoria di persone che mi furono assai care. Le circostanze della vita ci hanno tenuti lontani fino ad oggi; un male che noi ripareremo. Vi basta quello?
— Perdoni, non mi può bastare; è impossibile!
— Ebbene, mettiamo un poco da parte la mia amicizia. In fine dei conti non è un beneficio che io Vi offro, è un favore che Vi domando. Io so che avete molto ingegno, molta cultura, che siete probo e che Vi è mancata la Vostra occupazione ordinaria. Io ho a proporvi un lavoro di lunga lena, mezzo scientifico, mezzo letterario, di cui ho raccolto i materiali e che amerei fare io stesso se fossi mai stato uomo di penna, o almeno, se avessi l’età vostra. Questi materiali sono tutti qui, presso di me, e io desidero mantenere una continua comunicazione d’idee con la persona che scriverà il libro, il quale dovrà quindi essere scritto in casa mia. Questa persona mi farà le sue condizioni, naturalmente.
— Io non esco di qua, signor conte — rispose Silla — se Ella non mi dice come ha potuto sapere le cose che ha narrate!
— Dunque non volete che trattiamo di questo lavoro?
— Così, no.
— E se io adoperassi i buoni uffici di una persona che ha grande autorità sopra di Voi?
— Pur troppo, signor conte, non vi è nessuno al mondo che abbia grande autorità sopra di me.
— Io non Vi ho detto che questa persona sia viva.
Silla provò una scossa, un formicolìo freddo nel petto.
Il conte aperse un cassetto del tavolo, ne trasse una lettera e gliela porse.
— Leggete — diss’egli, e si gettò addietro sulla spalliera della seggiola con le mani in tasca e la testa china sul petto.
L’altro afferrò rapidamente la lettera, ne lesse la soprascritta e fu preso da un tremito violento che gli tolse di proferir parola. V’era scritto di pugno di sua madre:
- «Per Corrado.»
Tremava così forte che potè a mala pena aprir la lettera. La voce cara di sua madre gli pareva venir dal mondo degli spiriti per dir parole non potute dire in vita e sepolte nel suo cuore sotto una pietra più grave di quella della tomba.
Le parole erano queste:
«Se ti è cara la memoria mia, se credi ch’io abbia fatto qualche cosa per te, affidati all’uomo giusto che ti dà questa lettera. Dal paese della pace dove spero m’abbia posato la misericordia di Dio quando la leggerai, ti benedico.
«La Mamma.»
Nessuno dei due parlò. Si udì un singhiozzo disperato, prepotente; poi più nulla.
Ad un tratto Silla, contro la sua ragione, contro la sua volontà, il suo cuore istesso, guardò il conte con tale angosciosa domanda negli occhi sbarrati, che quegli menò un furibondo pugno sul tavolo esclamando:
— No!
— Dio! Non ho voluto dir questo! — gridò Silla.
Il conte si alzò in piedi e allargò le braccia.
— Amica venerata — diss’egli.
Silla piegò la testa sul tavolo e pianse.
Il conte aspettò un momento in silenzio e poi disse a bassa voce:
— Vidi Vostra madre per l’ultima volta un anno prima del suo matrimonio. Ella mi ha scritto poi molte lettere di cui Voi eravate il solo argomento. Ecco perchè io conosco molti particolari intimi della Vostra vita. Dopo il 58 sono stato informato da certi amici miei a Milano. Voi comprenderete facilmente perchè abbiate ritrovato in casa mia quelle suppellettili; esse mi ricordano la persona più virtuosa e più rispettabile che mi abbia onorato della sua amicizia.
Silla stese ambedue le mani verso di lui senz’alzare il capo dal tavolo.
Il conte gliele strinse affettuosamente, le tenne qualche momento fra le sue.
— Dunque? — diss’egli.
— Oh! — rispose Silla alzando la testa.
Era detto tutto.
— Bene — rispose il conte — adesso uscite, uscite subito, andate a pigliar aria. Vi faccio accompagnare dal mio segretario.
Suonò e fece venire Steinegge che si mise, tutto sorridente, agli ordini del signor Silla. Egli si professava lieto dell’onorevolissimo incarico. Non sapeva se gli abiti che si trovava indosso fossero degni dello stesso onore. Sì? Ringraziava. Se n’andò finalmente con Silla, strisciando inchini e facendo infinite cerimonie ad ogni uscio, come se al di là della soglia vi fosse stata una torpedine. Appena uscito dal cancello del cortile, mutò modi e parole. Prese a braccetto il compagno: — Andiamo a R... — disse — bisogna bere un poco, caro signor.
— No — rispose Silla, distratto, non sapendo ancora bene in che mondo si fosse.
— Oh, non dite no, io vedo. Voi siete serio, molto serio; io poi sono serissimo.
Steinegge si fermò, accese un sigaro, sbuffò una gran boccata di fumo, battè con il palmo della destra la spalla del suo interlocutore e disse ex abrupto:
— Oggi sono dodici anni, mia moglie è morta.
Fece un passo avanti, poi voltossi a guardar Silla, con le braccia incrociate sul petto, le labbra strette, le sopracciglia aggrottate.
— Andiamo, voglio raccontarvi questo.
E, ripreso il braccio di Silla, tirò avanti a passi sgangherati, fermandosi di tratto in tratto su’ due piedi.
— Io, per il mio paese, mi sono battuto nel 1848, voi sapete. Io lasciai il servizio austriaco e mi battei nel Nassau per la libertà. Bene, quando si calò il sipario fui gittato per grazia alla frontiera con mia moglie e mia figlia. Sono andato in Svizzera. Là ho lavorato come un cane, col piccone, sopra una linea di ferrovia. Non dico niente, questo è un onore. Sono di buona famiglia, fui Rittmeister, ma fa niente, questo è un onore di aver lavorato con le mie mani. Il male era che non guadagnavo abbastanza. Pensate, signor, mia moglie e mia figlia pativano la fame! Allora con l’aiuto di alcuni compatrioti, si andò in America. Sì, signor, sono stato anche in America, a New-York. Ho venduto birra, ho guadagnato. Oh, andava bene. Es war ein Traum. Sapete? Era un sogno. Mia moglie ammalò di nostalgia. Si stava bene a New-York, si prendevano dollari, si avevano molti amici. Ebbene, cosa è tutto questo? Partiamo, arriviamo in Europa. Io scrivo a’ miei parenti. Sono tutti reazionari e bigotti; io sono nato cattolico, ma non credo ai preti; non mi rispondono. Che importava loro se mia moglie moriva? Scrivo ai parenti di mia moglie. Cose da ridere, signor. Quelli mi odiavano perchè avevan creduto dare la ragazza a un ricco e il poco che mio padre non aveva potuto togliermi era stato confiscato dal governo. Oh, è bellissima. Però mio cognato venne a Nancy, dov’ero io. Mia moglie partì con la bambina, sperando guarire presto e ritornare. L’accompagnai alla frontiera. Stava male; dovevamo lasciarci a mezzogiorno. Un’ora prima mi abbracciò e mi disse: Andrea, ho visto il paese da lontano; basta, restiamo insieme. — Capite, signor? Voleva morire con me. Otto giorni dopo...
Steinegge compì la frase con un gesto e si cacciò a fumare furiosamente. Silla taceva sempre, non gli dava retta, forse non l’udiva neppure.
— I parenti di mia moglie — continuò l’altro — hanno preso la bambina. È stata una carità perchè la piccina non sarebbe stata bene con me solo, e con questo pensiero ch’ella si trovava meglio io ho potuto soffrire molto allegramente. Ma credete che non mi hanno mai data una notizia? Io le ho scritto ogni quindici giorni, sino a due anni or sono; non mi ha risposto mai. Potrebbe anche non essere più al mondo. Cosa è questo? Si beve, si fuma, si ride, ooh!
Dopo questo epilogo filosofico il segretario tacque. Era notte oscura. La stradicciuola tagliava per isghembo un pendìo cespuglioso dal vallone del palazzo alle prime nere casupole di R.... Abbasso, il lago dormiva. Nel Palazzo si vedevano ancora illuminate le finestre della biblioteca e altre due nella stessa ala sull’angolo del secondo piano; una verso ponente, l’altra verso mezzogiorno. Prima di toccar le casupole il sentiero svoltava fra i due muricciuoli bassi, in un avamposto di granoturco e di gelsi.
— Dove andiamo? — domandò Silla affacciandosi all’entrata scura del villaggio.
— Solo un poco avanti — rispose Steinegge, incoraggiandolo.
— Le sarei grato se ci fermassimo qui.
Steinegge sospirò.
— Come volete. Fuori del ciottolato, allora.
Ritornarono un passo indietro dai muricciuoli e sedettero sull’erba, dalla parte del ponte.
— Io faccio come volete, signor — disse il segretario — ma questo è molto male per voi di non bere. Gli amici delle ore tristi sono pochi e il vino è il più fedele. Non bisogna trascurarlo. Mostrategli di vederlo volentieri, vi accarezza il cuore: trattatelo male e, se un giorno ne avrete bisogno, vi morderà.
Silla non rispose.
Era dolce a contemplare, nello stato d’animo suo, la notte senza luna nè stelle. Dal vallone spirava una tramontana fresca, pregna d’odor di bosco.
Erano lì da pochi minuti quando udirono a destra fra le casupole un suono cupo di molti passi, che si allargò subito all’aperto e si fermò.
— Ooh, Angiolina! — chiamò qualcuno.
Silenzio.
— Ooh, Angiolina!
Una finestra si aperse e una voce femminile rispose:
— Che volete?
— Niente, vogliamo. Siamo qui al caffè della valle a prendere il fresco come i signori, e vogliamo far quattro chiacchiere.
— Maledetti ubbriaconi, è questa l’ora di far chiacchiere? Dovevate stare all’osteria a far chiacchiere.
— C'è troppo caldo— saltò su un altro. — Si sta meglio qui a cavallo de’ muri. Non sentite che bel freschino? Come volete fare a dormire? L’è pazzia stare a letto con questo caldo. Non è andato a letto neppure il vecchio del Palazzo stasera. Non vedete che ha ancora acceso il lume?
— Non si vede da qui. Sarà il lume della signora donna Marina.
— Oh adesso! Mai più. C’è bene anche quello, ma le due finestre chiare, abbasso, sono quelle dei libri. Ho mica da saperlo? Sono stato giù l’altro giorno a metterci due lastre.
— Ci hanno ad essere dei forestieri — disse un terzo.
— Sì, c’è un giovinotto di Milano. L’ha detto il cuoco stasera dalla Cecchina. Ci deve essere per aria di combinar qualche cosa con la signora donna Marina.
— Stia allegro chi la toglie, quella lì, che toglie un bel balocco, sì! — disse la donna. — Ha detto così la signora Giovanna alla Marta del signor curato, che hanno attaccato lite anche oggi e che lui, il vecchio, le ha sbattuto giù il libro dalla finestra, e lei allora ha fatto il demonio. La signora Giovanna tiene dal suo padrone, ma già sono matti tutti e due. Solo per il nome non la vorrei quella lì, se fossi un uomo. Ha un gran nome da strega, sapete. Malombra!
— Oh sì, sì, come ha ragione questa donna, da strega! — disse piano Steinegge. — Questo è divertente.
— È mica Malombra, è Crusnelli.
— Malombra!
— Crusnelli!
— Malombra!
Si riscaldavano, gridavan tutti insieme.
— Andiamo via — disse Silla.
Si alzarono e ridiscesero verso casa.
Quando giunsero in fondo al seno del Palazzo, dove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco la lanterna, saltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d’un piano. Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte intorno alle note limpide, si sentiva, sotto, l’acqua sonora. In quel deserto l’effetto dello strumento era inesprimibile, pieno di mistero e di immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stanco, e in città, di giorno, si sarebbe disprezzata la sua voce un poco fessa e lamentevole; pure quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticata, assottigliata dell’anima troppo ardente. La melodia, tutta slanci e languori appassionati, era portata da un accompagnamento leggero, carezzevole, con una punta di scherzo.
— Donna Marina — disse Steinegge.
— Ah — sussurrò Silla — che musica è?
— Ma! — rispose Steinegge — pare Don Giovanni.
Voi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a quest’ora.
In biblioteca non c’era lume.
— Il signor conte arrabbia adesso — disse Steinegge.
— Perchè?
— Perchè non ama la musica e quella lo fa apposta.
Silla zittì con le labbra.
— Come suona! — diss’egli.
— Suona come un maligno diavolo che abbia il vino affettuoso — pronunciò Steinegge. — Vi consiglio di non credere alla sua musica, signor.