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CAPITOLO IV.
Cecilia.
Donna Marina Crusnelli di Malombra alla signora Giulia De Bella.
«.... 26 agosto 1864.
«Graziosissima toilette! Ma come t’è venuta la povera idea dei myosotis? Non ti scordar di me, a destra; non ti scordar di me, a sinistra; non vi scordate di me, signori e signore. Forse uno è caduto sulle spalline di quel caro D... — un altro ha preso fuoco nei favoriti rossi del conte B... — un terzo l’ha raccolto da terra il bambino lungo della padrona di casa e lo custodisce nella grammatica latina. Buon Dio, se non ne fosse rimasto alcuno per tuo marito! Quando lo darò io un ballo campestre, vedrai come sarò.
«Mandami una boccettina d’egnatia; ho i nervi scordati come un pianoforte di collegio. È mezzanotte e non possiamo dormire nè io nè il lago che se ne lagna qui sotto. Vi è Saetta qui grogne nelle sue catene e vorrebbe farsi sciogliere, partire con me. Bell’idea! Vi verrebbero i brividi a te e ai prodi che pasci a quest’ora di cigarettes e di thè, se mi poteste vedere vagar sola per le onde, in lancia, come una selvaggia. Ma no, ti sacrifico il capriccio di Saetta e anche il mio: perchè davvero, se non ti avessi a scrivere, uscirei volentieri.
«Dimmi, perchè l’inchiostro di mio zio non asciuga mai? Dimmi, perchè, in settembre, viene al Palazzo mia cugina la contessa Fosca Salvador e Sua Eccellenza Nepomuceno, detto Nepo, figlio della medesima?
«Sì, ci penso. Perchè no? Perchè non potrei sposare il sior Nepo e andarmene lontano e dimenticare persino il nome di questa prigione odiosa? I Salvador hanno in Venezia un palazzo tra bizantino e lombardo, color mattone, piantato nell’acqua verde fra due rii deserti e puzzolenti, tutti belletta e cenci. Sai, una macchia d’Oriente, un Canaletto, un Guardi vivo da starvi volentieri due mesi all’anno, non però con la vecchia contessa che è un gran sacco scucito di chiacchiere trite e peste. Nepo non so che sia. Lo vidi una volta a Milano. Ha un’aria soddisfatta, un parlar molle e rotondo che me lo fece parer di fior di latte sbattuto. Intesi dire allora che era studiosissimo di economia politica e che, aspettando la liberazione del Veneto, si preparava a farsi eleggere deputato del paese dove ha la sua contea di risaie. Perciò G...., che non lo poteva soffrire, lo chiamava un personaggio d’anticamera. La contessa Fosca, che io ho udita parlare di mio zio con orrore, ha annunciata questa visita con due lettere, una per mio zio, una per me, tenerissima, tanto che non ha creduto di metterci neppure una consonante doppia.
«Altra novità: abbiamo a Palazzo un principe nero. Ti parlerò di lui; un tema che potrà forse conciliarmi il sonno, fermare la mia penna che va e va come punta da una tarantola.
«Nero, prima di tutto, sì, lo è molto, tranne forse ai gomiti della redingote; principe, no, in nessun modo. È un piccolo borghese, in apparenza. Lo chiamo — principe nero — per il suo contegno chiuso di personaggio misterioso.
«E poi per la leggenda. Oh, c’è una leggenda! Sai che la munificenza di mio zio mi ha concesso per barcaiuolo il figlio del giardiniere, un paggio malizioso di tredici anni. Un po’ da lui, un po’ dalla mia cameriera, un po’ dai muri che ne sono pieni, ho udito i sussurri che seguono alle spalle questo signore. Egli sarebbe figlio di un’antica amorosa di mio zio, morta a Milano, anni sono, in miseria; lo si sarebbe richiamato qui per predisporre, adagio adagio, un matrimonio di famiglia.
«Capisci, Giulia? L’austero anacoreta avrebbe avuta la sua Capua! Giulia, io non ho ancora conosciuto un uomo degno d’essere amato da me, ma io amo l’amore, i libri e la musica che ne parlano, e non mi lascerò far la morale da un libertino depurato nel vuoto! Quanto al pericolo che si pretenda tingere la mia mano di questa roba poco pulita, lo sai bene: è un pericolo per loro, non per me.
«È arrivato al Palazzo un quindici giorni sono, prima della metà di agosto, di notte, come un vero pacco di contrabbando. Il giorno dopo ebbi una gran scena drammatica con mio zio, il quale pretende aver diritto di vita e di morte sui miei libri francesi, presi fuori delle mie camere; e mi buttò orsinamente dalla finestra un de Musset che avevo lasciato davanti al mio caro Canaletto. Quel giorno vidi il principe nero da lontano, ma non discesi a pranzo benchè mio zio venisse a pregarmene, tutto mansueto come diventa sempre dopo le sue violenze. Il giorno dopo quel signore partì; ritornò il 18 con armi e bagagli e si accampò definitivamente qui. Comprendi che in questi dieci giorni ho pur dovuto trovarmi con lui.
«Io credo tutto, sai, quello che se ne dice: ma mio zio mi conosce e mi fa della diplomazia. Non mi ha mai parlato di lui nè avanti, nè dopo il suo arrivo. Già le relazioni nostre sono tali che tutto il mondo può andare e venire dal Palazzo senza che egli me ne parli. Lo tiene sequestrato quasi tutto il giorno in biblioteca. A tavola non discorrono che di studi. Chi non sapesse il fondo delle cose direbbe che vuol fargli sposare il signor Steinegge e non me, perchè li fa lavorare insieme, li manda a passeggiare insieme, ogni dopo pranzo, anche quando piove. Del resto, questi due signori, sono stati presi d’amicizia fulminante l’uno per l’altro. Te l’ho già descritta, mi pare, l’antipaticissima figura che sta qui a tradurre dal tedesco per mio zio? Les deux font la paire. Tempo addietro colui voleva far meco il grazioso e lo spiritoso, ma l’ho messo molto bene a posto; e ora ci ho messo anche il suo amico che, il giorno dopo la sua presentazione, si è dimenticato sino a stendermi la mano. Per verità mi ha inteso in aria e si è trattenuto prima di stenderla, ma ne cominciò l’atto. Una mano niente affatto borghese; simile a quella di mio zio che l’ha di razza. Dopo si è tenuto bene, orgogliosamente; debbo rendergli questa giustizia. Nota che gli ho fatto impressione, senza mia colpa. L’ho sentito fin dal primo momento e posso ben dirlo, perchè la cosa è tanto poco lusinghiera! Io non sono come te, cara Giulia, che per cinque minuti civetteresti, sii sincera, con un commesso viaggiatore. Il principe nero, se vuoi saperlo, mostra una trentina d’anni: non è bello, ma neanche si può dir brutto, ha degli occhi non privi d’intelligenza, alla mia cameriera potrebbe anche piacere. A me è antipatico, odioso, odiosissimo. Bada bene, non per gelosia di ereditiera in pericolo; non so abbassarmi a queste cose, non le comprendo neppure. E basta.
«Cosa faccio? Sempre la stessa vita. Leggo, suono, scrivo, passeggio, vado in barca, e adesso mi batto anche alla pistola con la noia. Alla lettera! Sai le belle pistole da sala che il povero papà aveva regalate a miss Sarah e a me? Dopo quattr’anni mi son ricordata d’aver qui le mie e tiro sulle statue del giardino, specialmente sopra una Flora annerita che somiglierebbe tutta alla mia istitutrice, se riuscissi a farle un viso butterato come aveva lei. Mi piglio poi dei divertimenti extra. Per esempio, una sera o l’altra voglio andar io al rendez-vous notturno che il vecchio medico ridicolo del paese cerca ottenere da Fanny. Mi affretto di dirti che aspetto la luna.
«Oh, e la corrispondenza amorosa? Troncata, mia cara, troncata netta dall’ultima lettera di Lorenzo che mi hai spedita. Così non avrai più scrupoli, non farai più ritirar lettere ferme in posta, almeno per conto mio. Egli voleva una passione azzurra, un legame filosofico sentimentale alla tedesca, figurati! e si è offeso del mio tono leggero, mi ha scritto, per rompere, una tirata piena di fuoco e d’orgoglio con certe sciabolate che vi gettano un ghiaccio nel sangue. Mi fa l’onore di attribuirmi qualche spirito; e poi, giù una sciabolata; cos’è lo spirito? Un vano e freddo luccicare di acque percosse dalla luna. Io domando: se le acque che luccicano sono lo spirito, cos’è la luna? Anch’essa è fredda, ma non è vana, è reale e solida. Che il luccicare dello spirito non venga da qualche freddo lume di verità, da qualche alta e desolata negazione! Allora lo detesto anch’io come questo pedante di Lorenzo, perchè credo, non però come quando ci trovavamo all’ultima messa di S. Giovanni alle Case Rotte; molto diversamente. Non c’è più nessuno che mi possa dire: Mademoiselle! Ah se tu sapessi, Giulia, cosa vi è nel mio cuore e quale tormento sono le insonnie per me! Ma nè tu nè altri mai lo saprà.
«Perdonami, ti bacio un momento e vado alla finestra a sentir discorrere le onde.
«Ritorno a te. — Fortunatamente le onde hanno una voce monotona, sono poverissime d’idee e si ripetono a sazietà; pare che recitino il rosario. E il sonno viene, viene con le ombre leggere della contessa Fosca, del conte Nepo e dei loro bauli. Addio, myosotis.
«Marina».
Poi ch’ebbe scritta questa lettera nervosa, donna Marina si alzò, andò a contemplarsi in uno specchio. Dall’ampio accappatoio usciva, come da una nuvola bianca, il collo sottile, elegante, e fra due fiumi di capelli biondo-scuri, il viso piccolo, delicatissimo, di bambina capricciosa, ove lucevano due grandi occhi penetranti, fatti per l’impero e per la voluttà. Il viso, il collo, il seno, di cui si vedeva una riga tra il bianco, avevano lo stesso pallore caldo. Si guardò un momento, si gittò alle spalle con una scrollata di testa i due fiumi di capelli e chi sa quanti pensieri torbidi, andò a posar la candela sul tavolino da notte, picchiando forte il marmo con l’argento, come per fare oltraggio al silenzio e alla solitudine.
Ed ora che, perseguitata nel sonno da qualche tenace inquietudine, ella dorme agitando di frequenti sussulti le lenzuola, mentre tutti gli abitatori del vecchio Palazzo dormono pure, parliamo a voce bassa di donna Marina e di quello che aveva in cuore.